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L’arte dello storytelling virtuale: ecco le 11 regole per farlo bene



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Lo Storytelling Virtuale trasforma la narrazione tradizionale grazie a tecnologie immersive. Undici regole fondamentali guidano lo sviluppo di esperienze che bilanciano libertà e direzione, coinvolgimento sensoriale e riflessione personale, per creare mondi virtuali significativi.

Pubblicato il 17 apr 2025

Lorenza Saettone

Filosofa specializzata in Epistemologia e Cognitivismo, PhD Student in Robotics and Intelligent Machines for Healthcare and Wellness of Persons



storytelling

Lo storytelling, la narrazione, raccontare storie, è una caratteristica fondamentale dell’essere umano. La pratichiamo fin dalla comparsa dell’Homo e dai primi mesi di vita del bambino.

La narrazione come elemento fondamentale dell’esperienza umana

La psicanalisi, difatti, funziona in quanto rinarrazione di un passato, aperto a nuovi punti di vista; e l’inconscio, fino a che non viene verbalizzato e raccontato, si esprime in simboli e nevrosi, che attendono di essere collegati in un flusso narrativo.

Gli algoritmi della programmazione, se letti, possono diventare testi narrativi, di compiti, istruzioni, qualità. Chi era che sosteneva che tutto fosse testo? E allo stesso tempo tutto è ermeneutica.

Al mostrarsi di nuove tecniche, si fanno strada nuove modalità di narrazione, che, supportate da diversi media, cambiano i loro messaggi, la loro forza pragmatica, e quindi necessitano di studi differenti per coglierne le potenzialità, i limiti, e gli strumenti di comprensibilità del design.

La simulazione narrativa nello storytelling virtuale

Qualunque narrazione è una simulazione della vita, che nasce in un momentaneo stop da essa, e in una trascrizione; dopodiché, perché sia efficace, deve permettere a chi vi partecipa, accettando le regole della sua tecnologia — che sia conoscendo la scrittura o i comandi di una qualunque interfaccia — di continuare la propria vita in quella partecipazione e non di star fermando il flusso, come un autore. Questa è la differenza principale tra autore e lettore.

L’autore deve scegliere: “o vivi o scrivi”; il destinatario, dal momento in cui fruisce della simulazione tecnologica del libro o dell’esperienza videoludica, deve sentire di star vivendo in essa. Insomma, l’autore deve permettere l’ingresso empatico nello scenario, deve costruire l’UI perché non sia un ostacolo, ma un elemento facilitante.

Come? In questo articolo riporto alcune soluzioni, pensate appositamente per la Realtà Virtuale, ma, per certi aspetti, in condivisione anche con altre dinamiche della comunicazione umana.

Progettare per l’empatia nello storytelling virtuale

Il pubblico deve sentirsi immerso, non solo a livello visivo, ma anche emotivo. Per favorire il coinvolgimento empatico, è necessario lavorare sulla trama e sulla costruzione dei personaggi. La scelta di cosa succede, dei movimenti nella scena — fosse anche un vento che muove qualcosa — è fondamentale per creare immersione. L’emozione e il suono sono elementi imprescindibili, che la realtà virtuale, meglio di altri media, permette di sfruttare. La caratteristica principale di questo strumento è proprio la multimodalità. Il consiglio è sfruttarla, ma seguendo tecniche precise.

Se l’obiettivo è creare, artisticamente, un senso di straniamento, allora bisogna lavorare sulle dissonanze cognitive, su fisiche assurde, prospettive inusitate e materiali in discordanza con l’aspetto della cosa: esattamente come fossimo illusionisti. Al contrario, per garantire verità nella simulazione, è necessario il realismo: estetico, narrativo, fisico e comunicativo. Un videogioco o un libro scritti bene permettono un’interazione guidata ma naturale con le cose nel contesto che stiamo mettendo in scena.

Nella VR c’è più libertà per l’utente, che può scegliere di afferrare e di manipolare. Il designer deve, empaticamente, prevedere le interazioni, e mettersi nei panni di chi, nella scena, fa qualcosa e si aspetta qualcos’altro. Insomma, per garantire empatia, è necessario che il programmatore sia innanzitutto empatico, e anticipi scelte e reazioni. Una bella canzone, un bel libro, uno scenario bello ed efficace sono quelli che anche il programmatore vorrebbe giocare. Questa è una regola d’oro.

Eliminare gli ostacoli tecnologici

L’interfaccia utente (UI) deve essere intuitiva e trasparente. Il pubblico non deve mai fermarsi a pensare a come usare il sistema. Si possono usare diverse tecniche:

  • Mostrare con un timing degli hint (attenzione però a non dare soluzioni: prendendo esempio dai punta-e-clicca che fecero la storia, tra cui Broken Sword, anche gli aiuti erano comunque un modo per far spremere le meningi).
  • Usare il naming degli oggetti, rendendolo visibile nella scena.
  • Creare un correlativo oggettivo di elementi nella scena che, tutti insieme, suggeriscano la finalità.
  • All’inizio, creare un’interfaccia di istruzioni, che può essere resa disponibile anche durante il gameplay con qualche oggetto-bottone cliccabile.
  • Integrare tutorial non espliciti all’interno della narrazione, come un personaggio-guida all’inizio che ti introduce all’usabilità, o segnali visivi che indichino cosa fare.
  • Prendere esempio dalle convenzioni metaforiche del gaming, già ampiamente consolidate, come il tasto spazio per il salto o i tasti WASD per i movimenti cardinali.

Creare una narrazione modulare per lo storytelling virtuale

In un’esperienza immersiva, il pubblico potrebbe non seguire un percorso lineare. Progetta una narrazione con nodi, in cui ogni elemento sia autosufficiente ma interconnesso. Fai in modo che ogni interazione aggiunga significato alla storia, evitando momenti “vuoti”. I buchi di trama nella VR possono essere anche più frequenti: non dimentichiamo che l’asse Z percorribile rappresenta una libertà maggiore e una complicazione, soprattutto se il gioco è pensato troppo velocemente. Il consiglio, allora, è quello di partire da uno schema scritto, dove ogni snodo ha le sue possibilità e le sue uscite.

È bene considerare ogni lato della scena come una possibilità di sentiero fattibile. Il gioco deve essere giocabile da ogni direzione. Se si spende un po’ più di tempo in questa fase preliminare — fare gli avvocati del diavolo, diventando i tester più pignoli di se stessi — si guadagna in coerenza narrativa, evitando la sensazione di “what’s the point?”.

La storia è tutto, e in questo caso si ha a che fare con la sperimentazione testuale agognata dagli avanguardisti del ‘900: l’ipertesto. Insomma, il mio consiglio è di nutrire il team di sviluppo con competenze trasversali: gli umanisti non sono sostituibili.

Il videogame è davvero il luogo di incontro perfetto tra personalità variegate, in grado di lavorare insieme, ognuna secondo i propri studi e competenze, verso una finalità comune. Mi vengono in mente Borges, ne “Il giardino dei sentieri che si biforcano”, che potrebbe ispirare la creazione di mondi immersivi in cui ogni decisione del giocatore genera nuove ramificazioni narrative. Il design dovrebbe evocare la sensazione di esplorare un labirinto che cambia a seconda delle scelte. O ancora, “Infinite Jest” di David Foster Wallace e “La casa di foglie” di Mark Z. Danielewski, opere in cui la struttura non lineare e la frammentazione diventano strumenti per esplorare la complessità dell’esperienza umana. Dal punto di vista videoludico, gli esempi meglio riusciti della non-linearità, da studiare in profondità, sono Undertale e Detroit: Become Human.

Bilanciare libertà e direzione

Lascia spazio all’esplorazione e alle scelte personali, ma mantieni una direzione narrativa chiara per evitare dispersione. Usa punti focali (ad esempio, un suono o una luce) per guidare l’attenzione senza imporre percorsi obbligati. Non moltiplicare bottoni e marker inutilmente: cerca di essere il più semplice possibile. Se si rendono necessari ulteriori strumenti di azione, inseriscili solo dopo averci riflettuto mille volte.

Ricorda che la VR, per dare un senso di immersione, deve offrire maggiore libertà rispetto ad altri mezzi. Il 2D può essere molto più guidato di una scena narrativa in realtà virtuale. Il senso di presenza è dato proprio dalla libertà. Anche in uno spazio limitato, come una stanza, gli oggetti devono essere tutti interagibili. Se non lo sono, questa non interagibilià deve essere comunque giustificata nella storia. Meglio non arredare affatto che includere elementi non programmati per l’interazione.

Coinvolgere i cinque sensi

Sfrutta le tecnologie disponibili per integrare stimoli multisensoriali: suoni realistici, vibrazioni, variazioni di temperatura e, se possibile, persino odori. In particolare, la musica e i suoni ambientali sono elementi fondamentali. Inserisci suoni di background realistici e utilizza la distanza del player dagli oggetti per modificare i suoni percepiti, creando un effetto più immersivo. È essenziale affidarsi a esempi di alta qualità per campionare e registrare audio, includendo distanze stereo ben progettate. Come per gli artisti 3D e le animazioni, anche il reparto sonoro deve essere curato da musicisti e ingegneri del suono competenti. Una progettazione sonora approssimativa può generare senso di alienazione e fastidio. Infatti, il realismo dell’esperienza deriva proprio dall’armonia tra i sensi, a dimostrazione che il “genio maligno” cartesiano è solo un gioco filosofico. Una buona simulazione deve replicare questo accordo tra i sensi, offrendo un’esperienza coerente e naturale.

Un altro aspetto cruciale è la mano, che rappresenta il mezzo fondamentale dell’azione e dell’attribuzione di significato. L’essere umano non attribuisce significati teorici: il senso nasce dall’azione, in un contesto di vita. Insomma, prima dell’intelligenza è venuta la mano, con il pollice opponibile. Controller, tastierini e qualunque interfaccia devono essere progettati per garantire una presa e un’interazione intuitive nel contesto virtuale. Grazie alla capacità immaginativa e simulativa dell’essere umano e ai neuroni specchio, accettiamo il gioco narrativo. Pur sapendo di essere in una simulazione, ci sentiamo come se fossimo lì, grazie a un’architettura multisensoriale ben studiata.La coerenza sensoriale rafforza l’immersività.

Usare il ritmo narrativo

Alterna momenti di tensione e rilascio per mantenere alta l’attenzione. Evita di sovraccaricare il pubblico con troppe informazioni o azioni contemporaneamente. La simulazione e le narrazioni funzionano perché l’autore ha selezionato le scelte migliori. Quando ci troviamo ad esistere nello “Sfondo” (come Searle lo definisce: il macro-dominio che contiene tutti i possibili significati), dobbiamo sempre operare scelte pre-attentive. Guardiamo attraverso teorie precedenti, euristiche di scelta, con cui selezioniamo ogni volta figure differenti dal background ridondante e ingestibile. Corpo, cultura, linguaggio e convenzioni ci offrono queste euristiche, e poi l’esperienza fa il resto, con prove ed errori possiamo migliorare e modellare le strategie di selezione. In ogni caso, si parte sempre da consapevolezza. Quando, infatti, dicessi “Guarda”, chiunque si troverebbe a chiedermi “Che cosa?” Questo significa che l’osservazione non è mai neutrale, ma condizionata e determinata da teorie. Certamente non sono necessarie, ma ogni teoria è rinegoziabile e modificabile, anche in base al fine. Se il fine è sociale, attingo dalle euristiche proprie del gruppo.

Queste scelte sono quelle che un narratore, un programmatore o un robotica mette in atto quando crea una simulazione. A parte il fatto che ingegneristicamente non sarebbe possibile simulare tutti i significati presenti nel dominio di base, a livello di usabilità sarebbe una dispersione. La libertà è preferibile quando si può operare all’interno di una scelta già parzialmente compiuta. Inoltre, a livello di attivazione emotiva, non tutto deve avere lo stesso impatto. Tutto deve reagire, ma non allo stesso modo. Questo permette all’essere umano di adattarsi e comprendere il senso tramite le scelte e le diverse tonalità che esse comportano.

Favorire l’auto-riflessione

Costruisci scenari che permettano al pubblico di vedere se stesso nella storia, trasformandolo da semplice spettatore a co-autore. La personalizzazione che emerge dalla non-linearità fa sì che le scelte del giocatore appaiano cariche di valore: non cadono nel vuoto, ma contribuiscono a trasformare una storia qualunque in una narrazione esteticamente significativa e, di conseguenza, buona. Molte volte mi sono trovata a sostenere l’importanza del videogioco come laboratorio di etica nicomachea. Agendo, l’individuo acquisisce un habitus, cioè un modo di agire bello e quindi virtuoso.

L’introduzione di bivi morali o enigmi narrativi che invitano a riflettere sulle proprie scelte è anche un modo didattico per mostrare la filosofia in azione. Il messaggio è chiaro: ciò che si studia non è vano, ma può concretamente influire sulla costruzione di narrazioni, attraverso un metodo che si apprende sui libri e si applica nella realtà, avvicinandosi così alla filosofia come pratica, non solo come teoria.

Incorporare metafore visive e narrative

Considera sempre il background culturale e sociale del pubblico. Progetta storie che siano accessibili, ma allo stesso tempo aperte a diverse interpretazioni. Le metafore in VR sono state studiate come pulsanti che rimandano a significati ulteriori. In altre parole, si parla di usabilità, ma anche di comunicazione profonda attraverso il contesto. Mi sto avvicinando alle tecnologie con l’intento di studiare il loro potenziale come strumenti in grado di facilitare la comprensione filosofica e linguistica delle metafore, di come comunicare il contesto a un LLM o Large Language Model affinché distingua una metafora da un senso letterale e, soprattutto, come una macchina possa comunicare il contesto a un utente in modo che, attraverso un training metaforico, possa migliorare la propria competenza nel figurato.

I backchannels (indizi pragmatici conversazionali di assenso, diniego e così via), fortemente influenzati dalla cultura, i ritmi conversazionali, gli hints cognitivi, ma soprattutto la VR come scenario, sono elementi fondamentali. Oggetti correlati, come una poetica degli oggetti alla Montaliana o il correlativo oggettivo di Eliot, possono contribuire a creare una rete semantica che aiuti a decodificare una metafora. In questo scenario, i task, gli hints che si attivano dopo un certo tempo, la musica e la denominazione degli oggetti devono essere pensati con attenzione, in modo da comunicare il contesto in cui avviene la metafora, e che è proprio grazie a questo contesto che si può comprenderla.

Secondo la mia prospettiva, la comprensione della metafora avviene proprio grazie al contesto e all’empatia, cioè entrando nel contesto stesso. Il mio obiettivo è studiare come l’empatia, sia nell’interazione con la VR che con un robot umanoide, possa favorire la comprensione di una metafora, facilitando l’apprendimento senza noia, ma mantenendo la bellezza e la dinamicità della scena in VR. La sfida è quindi anche quella di capire come avvenga, in modo semplice, la comprensione del senso figurato. Questo studio mi permetterebbe di costruire scenari più complessi (ma mai complicati), offrendo livelli di lettura che possano soddisfare sia gli utenti esperti che i principianti, come hanno fatto i migliori libri: dal Piccolo Principe al Nome della Rosa.

Includere un ciclo di feedback continuo

Dai agli utenti l’opportunità di influenzare la narrazione con le loro azioni o scelte, creando così una sensazione di partecipazione attiva. L’interazione deve generare sorprese, ma è fondamentale che ogni azione abbia una conseguenza coerente nella storia. In altre parole, non lasciare che le azioni degli utenti cadano nel vuoto: ciò potrebbe farli uscire dallo stato di flow e riportarli nel presente con un senso di frustrazione. Se invece l’intento è quello di rompere la quarta parete, deve essere la realtà circostante a diventare magica, non la simulazione a perdere il suo incanto.

Integrare il fallimento come apprendimento

Non punire gli errori, ma trasformali in occasioni di apprendimento o di scoperta narrativa. Un errore potrebbe rivelare un dettaglio del mondo o della trama che altrimenti sarebbe rimasto nascosto. In altre parole, inserisci gli errori come Easter Eggs[1], creando esperienze epiche che lasciano il segno. L’errore nel videogioco è sempre un’opportunità, quindi lascia che la VR alimenti l’aspetto positivo del game over. La scuola e la vita, in generale, potrebbero trarre ispirazione dalla gamification per trasformare ogni errore – che normalmente darebbe un senso di perdita o frustrazione – in un’opportunità di crescita, di ritentare o di modificare, grazie all’apprendimento derivante dal fallimento.

Progettare un finale significativo

L’esperienza deve chiudersi con una risoluzione che lasci il pubblico soddisfatto, che sia finale chiuso o aperto, deve dare senso di completezza. Si può poi aprire un tempo di oralità, discussione di gruppo, forum, per dare modo di consolidare l’esperienza e fare sì che quel momento diventi comune, scambio, socialità, proiettando a nuove esperienze di senso nate nel gruppo. Questa verbalizzazione è anche un modo per far uscire fuori vissuti, altrimenti sopiti nel non-detto. Da questi momenti insieme emerge la comunità affettiva, basata sulla bellezza, reciproco scambio, una comunità dell’essere e non dell’utile.

Note


[1] Un Easter egg è un messaggio o una funzionalità nascosta in un videogioco, software o media, spesso come riferimento divertente o omaggio, che può essere scoperto solo attraverso azioni specifiche o esplorazioni.

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