L’Enciclica “Laudato si’” di Papa Francesco ci parlava (e ‘ci parla’) di cosa ci ha fatto diventare il capitalismo, di cosa produce la tecnologia, ma soprattutto – e in senso contrario – del dovere di avere un senso di responsabilità umana e di un doverci ‘prendere cura’ degli altri e della biosfera. Che ‘deve’ venire prima dell’AI, degli algoritmi, della realtà virtuale/aumentata, del machine learning, di chi pensa solo ad accrescere le nostre ‘skills a fare-produrre-consumare’ e non alla ‘conoscenza da acquisire prima di pensare a cosa fare’. Ne diamo qui una rilettura.
Il conflitto tra tecno-sfera e bio-sfera
La pandemia ha messo in evidenza la profonda e ormai insanabile contraddizione tra ‘questo’ modello economico, tecnologico e sociale e la biosfera, cioè la Terra, cioè la vita. Rivedere il mare blu, i cieli puliti, i cavallucci marini a Venezia non è solo positivo e bello, ma dimostra, come meglio non si potrebbe l’effetto devastante e insostenibile che avevano le attività umane (produttive e consumistiche) sull’ambiente e – per necessaria relazione – sulla società umana. Per questo pensare di ‘ripartire come prima’ – come chiedono molti, troppi imprenditori e non solo (con un pressing decisamente fuori luogo, che arriva al ‘me ne frego degli altri e delle leggi’ gridato da Elon Musk) – sarebbe un drammatico errore, una ‘coazione a ripetere’ indegna di una specie che si crede intelligente.
Uno spillover antropologico
Ha dimostrato anche – sempre la pandemia – che non esiste solo la globalizzazione tecno-capitalista e il profitto per pochi, ma anche una globalità sociale e soprattutto ambientale. Occorre dunque pensare – ma questo in senso positivo e virtuoso – a uno ‘spillover antropologico’ per passare da ‘noi stessi come siamo diventati’ dopo tre secoli di ininterrotta pedagogia/ideologia tecno-capitalistica, a ‘un altro noi stessi e a un’altra economia responsabile e solidale’. Un vero e proprio ‘salto antropologico di specie’, non solo per ‘restare umani’ – forse da tempo non lo siamo più o lo saremo sempre meno quanto più crescerà la nostra delega alla tecnica – ma per ‘diventare veramente umani’: per cui l’economia e la tecnica, finalmente non capitaliste, potranno avere effetti positivi sull’intero ecosistema e sul sistema sociale globale.
Vogliamo forse continuare a scaricare negli oceani, ogni anno, più di dieci milioni di tonnellate di plastica e di microplastica, di cui solo l’1% forma isole galleggianti mentre il 99% scende e si accumula in profondità? Possiamo pensare davvero di poter vivere solo in una realtà virtuale/artificiale, prescindendo da quella reale e naturale? Possiamo accettare – noi che ci diciamo sapiens – che, sempre Elon Musk sviluppi una tecnologia di interfaccia cerebrale capace di consentire la ‘simbiosi’ tra uomo e AI senza dire nulla, senza pretendere di sapere e di decidere ‘noi-in-quanto-demos’ sulla questione? Possiamo accettare di essere ancora una volta in balia di Imprenditori/Pifferai magici che fanno di noi e della nostra vita ciò che vogliono (convincendoci che l’innovazione ‘non si può e non si deve fermare mai’, a prescindere da quale innovazione e perché; che consumare e sprecare è bello ed emozionante), noi potendo solo adattarci ai loro voleri?
A cinque anni dalla Laudato si’
Il 24 maggio di cinque anni fa vedeva dunque la luce l’Enciclica Laudato si’ di Papa Francesco. Che tutti dovremmo rileggere e meditare. Tutti, non solo i credenti. E chi sta scrivendo queste righe non lo è, o è ‘diversamente credente’ o ‘diversamente spirituale’ – e la ‘spiritualità’ (intesa come ‘ricerca di senso’ della vita; come partecipazione a una ‘etica’ di condivisione e di interiorità/moralità; o intendendo la filosofia anch’essa come una forma di spiritualità) è qualcosa di umano, indipendentemente dalla presenza o meno di un Dio. E Bergoglio – un Papa che ci piace (pur mantenendo le inevitabili differenze e divergenze), perché è umanista e filosofo sociale; perché sa dire anche ‘chi sono io per giudicare’; che ha tutta la nostra ‘empatia’ e ‘vicinanza’ quando viene criticato dagli integralisti della sua stessa Chiesa e dagli anticlericali ‘a prescindere’ – proprio al ‘prenderci cura’ degli altri e della Terra ci invita e ci richiama. Con una Enciclica – sottotitolo: ‘Sulla cura della casa comune’ – che è molto più di una Enciclica e che dovrebbe essere uno di quei ‘livre de chevet’ da tenere accanto e da aprire magari a fine giornata, quando si dovrebbe fare il bilancio della propria giornata trascorsa, meditando su ‘senso’ ed ‘etica’ di ciò che abbiamo fatto e detto e scritto. Per questo la rileggeremo non entrando nel campo della teologia, ma in quello della analisi sociale, economica e tecnologica. Che – lo anticipiamo subito – condividiamo totalmente, pur venendo da altre filosofie politiche.
Partiamo dall’inizio. “La continua accelerazione dei cambiamenti dell’umanità e del pianeta si unisce oggi all’intensificazione dei ritmi di vita e di lavoro, in quella che in spagnolo alcuni chiamano ‘rapidación’. Benché il cambiamento faccia parte della dinamica dei sistemi complessi, la sua velocità contrasta con la naturale lentezza dell’evoluzione biologica. A ciò si aggiunge il problema che gli obiettivi di questo cambiamento veloce e costante non necessariamente sono orientati al bene comune e allo sviluppo umano, sostenibile e integrale. Il cambiamento è qualcosa di auspicabile, ma diventa preoccupante quando si muta in deterioramento del mondo e della qualità della vita di gran parte dell’umanità”. Che è appunto ciò che sta accadendo. E quindi: “I cambiamenti climatici sono un problema globale con gravi implicazioni ambientali, sociali, economiche, distributive e politiche e costituiscono una delle principali sfide attuali per l’umanità. (…) [Eppure] molti di coloro che detengono più risorse e potere economico o politico sembrano concentrarsi soprattutto nel mascherare i problemi o nasconderne i sintomi, cercando solo di ridurre alcuni impatti negativi dei cambiamenti climatici. Ma molti sintomi indicano che questi effetti potranno essere sempre peggiori se continuiamo con gli attuali modelli di produzione e di consumo”.
E non solo. “A questo si aggiungono le dinamiche dei media e del mondo digitale, che quando diventano onnipresenti, non favoriscono lo sviluppo di una capacità di vivere con sapienza, di pensare in profondità, di amare con generosità. (…) [Perché] la vera sapienza, frutto della riflessione, del dialogo e dell’incontro generoso fra le persone, non si acquisisce con una mera accumulazione di dati che finisce per saturare e confondere, in una specie di inquinamento mentale”. È allora evidente (“E mai abbiamo maltrattato e offeso la nostra casa comune come negli ultimi due secoli”), “che l’ambiente umano e l’ambiente naturale si degradano insieme e non potremo affrontare adeguatamente il degrado ambientale se non prestiamo attenzione alla cause che hanno attinenza con il degrado umano e sociale”. Appunto, occorre cercare le ‘cause’, cosa che invece non facciamo più, dominati come siamo da una ideologia tecno-capitalista che cerca solo il ‘problem solving’ a valle e il ‘learning by doing’, attuando un mero ‘soluzionismo ex post’ senza appunto cercare le cause dei problemi (che poi sono tutte nell’ideologia, che non deve essere modificata, nonostante la sua irrazionalità e il suo nichilismo strutturale, però produttore di molti profitti). E così “l’alleanza tra economia e tecnologia finisce per lasciare fuori tutto ciò che non fa parte dei loro interessi immediati. La sottomissione della politica alla tecnologia e alla finanza si dimostra nel fallimento dei Vertici mondiali sull’ambiente. Ci sono troppi interessi particolari e molto facilmente l’interesse economico arriva a prevalere sul bene comune e a manipolare l’informazione per non vedere colpiti i suoi progetti”. E così noi non vediamo, non dobbiamo vedere e capire o preferiamo non vedere e capire. E quindi partecipiamo inconsapevoli o indifferenti alla incessante disruption non solo di un determinato mercato (secondo la definizione di disruption), ma del sistema sociale e del sistema ambiente nella loro interezza e relazioni.
La tecnica e il capitalismo. Il capitalismo e la tecnica
Ovviamente, scrive Francesco, “un ritorno alla natura non può essere a scapito della libertà e della responsabilità dell’essere umano, che è parte del mondo con il compito di coltivare le proprie capacità per proteggerlo e svilupparne le potenzialità”; ma è altrettanto evidente che dobbiamo “porre fine al mito moderno del progresso materiale illimitato”. Legato al mito della tecnica, perché l’uomo moderno, scrive Francesco citando Romano Guardini, “non è stato educato al retto uso” della potenza della tecnica, e “l’immensa crescita tecnologica non è stata accompagnata da uno sviluppo dell’essere umano per quanto riguarda la responsabilità, i valori e la coscienza”: cioè della nostra ‘consapevolezza’ di come ‘funziona’ e di come ‘ci fa funzionare’ il tecno-capitalismo nel suo accrescimento illimitato e irresponsabile. Perché la tecnica e il capitalismo – con tutti noi che ‘viviamo’ solo tecnicamente e capitalisticamente – non hanno consapevolezza dei limiti (la loro volontà di potenza li esclude ‘a priori’, siano essi la tutela della Terra, la dignità e la libertà degli uomini); limiti che sono anzi visti solo come un ostacolo alla ragione strumentale/calcolante-industriale; limiti che il tecno-capitalismo tende a superare senza assumersi alcuna responsabilità/consapevolezza di ciò che questo potrebbe determinare come effetto – mentre invece la responsabilità ‘deve’ accogliere il concetto di limite, altrimenti non è.
Ovvero, il problema fondamentale – il nodo da sciogliere, altrimenti addio ‘casa comune’ – è che “l’umanità ha assunto la tecnica e il suo sviluppo insieme ad un paradigma omogeneo e unidimensionale (…) che fa della tecnica e del metodo scientifico un sistema di possesso, dominio e trasformazione incessante (…) estraendo tutto ciò che è possibile dalle cose attraverso l’imposizione della mano umana, che tende a ignorare o a dimenticare la realtà stessa di ciò che ha dinanzi. (…). Da qui si passa facilmente all’idea di una crescita infinita o illimitata, che ha tanto entusiasmato gli economisti, i teorici della finanza e della tecnologia. Ciò determina la menzogna circa la disponibilità infinita dei beni del pianeta, che conduce a ‘spremerlo’ fino al limite e oltre il limite”.
E allora – e al quasi-francofortese che scrive queste righe piacciono molto questi rinvii di Francesco alla ‘Teoria critica’ – “occorre riconoscere che la tecnica non è neutra, perché crea una trama che finisce per condizionare gli stili di vita e orienta le possibilità sociali nella direzione degli interessi di determinati gruppi di potere. Certe scelte, che sembrano puramente strumentali, in realtà sono attinenti al tipo di vita sociale che si intende sviluppare” e riprodurre/replicare all’infinito, quella appunto che noi definiamo come tecno-capitalistica. Oggi diventa quindi difficile – ma anche sempre più urgente e necessario – attuare “un diverso paradigma culturale (…), [anche se] il paradigma tecnocratico è diventato così dominante che è molto difficile prescindere dalle sue risorse e ancora più difficile è utilizzarle senza essere dominati dalla sua logica. (…) Di fatto la tecnica ha una tendenza a far sì che nulla rimanga fuori dalla sua ‘ferrea logica’. (…). Si riducono così la capacità di decisione, la libertà più autentica e lo spazio per una creatività alternativa degli individui. (…) La vita diventa un mero abbandonarsi alle circostanze condizionate dalla tecnica, intesa come principale risorsa per interpretare l’esistenza”. Che è poi, come abbiamo scritto, la forma più radicale, ma anche più nascosta o inconsapevole, di alienazione dell’uomo da se stesso e dalla capacità e dalla possibilità di cura e tutela della ‘casa comune’. Eppure, se oggi sempre più le nostre case ‘private’ sono governate da assistenti virtuali e da IoT, perché non pensare – questo è ciò che il tecno-capitalismo ‘vuole che pensiamo’ – che anche la ‘casa comune’ possa essere governata da algoritmi? Sarebbe in verità un errore ulteriore, una ulteriore alienazione nostra dalla vita e da noi stessi e dalla responsabilità e insieme la nostra massima sussunzione/integrazione nel sistema tecno-capitalista. Invece, scriveva Papa Francesco, deve essere “ancora possibile ampliare lo sguardo e limitare e orientare la tecnica e metterla al servizio di un altro tipo di progresso, più umano, più sociale e più integrale”. Perché non si tratta di ‘fermare il progresso’ – non è questo il suo pensiero – “ma dobbiamo convincerci che rallentare un determinato ritmo di produzione e di consumo può dare luogo a un’altra modalità di progresso e di sviluppo”. E ancora: “non basta conciliare, in una via di mezzo, la cura per la natura con la rendita finanziaria. Su questo tema le vie di mezzo sono solo un piccolo ritardo nel disastro. Semplicemente si tratta di ridefinire il progresso”.
Un’ecologia integrale
È buffo e insieme inquietante: accettiamo/desideriamo/vogliamo essere compulsivamente connessi via rete con tutti e tutto, ma dimentichiamo di essere connessi biologicamente con la biosfera e umanamente con gli altri. Per questo avremmo bisogno di una ‘ecologia integrale’. Di una ecologia culturale, economica, tecnica (non di ‘ecosistemi digitali’, neologismo fuorviante e distraente, facendoci credere che gli ecosistemi siano solo quelli tecnici) e di una ecologia della vita quotidiana. Di pensare nuovamente non solo ai ‘beni comuni’, ma al ‘bene comune’. Abbiamo bisogno, continua l’Enciclica, di giustizia ambientale e sociale tra le generazioni ma anche di una solidarietà intragenerazionale. Di un ‘principio di precauzione’ e di una ‘capacità di previsione’ delle conseguenze domani del nostro agire o non agire di oggi. Di partecipazione vera dei cittadini, di trasparenza nelle decisioni e di una nuova cittadinanza ecologica.
E ancora: “La politica non deve sottomettersi all’economia e questa non deve sottomettersi ai dettami e al paradigma efficientista della tecnocrazia. (…) Ancora una volta dobbiamo evitare una concezione magica del mercato, che tende a pensare che i problemi si risolvano solo con la crescita dei profitti delle imprese o degli individui” – ed è quindi del tutto irrealistico aspettarsi che chi è ossessionato dalla massimizzazione dei profitti “si fermi a pensare agli effetti ambientali che lascerà alle prossime generazioni”. Per questo serve “ripensare la totalità dei processi”, nel loro insieme, non isolarli gli uni dagli altri ma avere consapevolezza nel loro essere ‘sistema’ e delle loro connessioni, che impattano come sistema sulla vita umana e sull’ecosistema; e quindi occorre andare di nuovo alla radice, mettere in discussione la ‘causa’ prima della crisi ecologica e sociale, cioè “la logica soggiacente alla cultura attuale” che impedisce di avere “la coscienza di una origine comune, di una mutua appartenenza e di un futuro condiviso”. Abbiamo bisogno di nuove abitudini, di sobrietà (sobrietà che, se “vissuta con libertà e consapevolezza, è liberante”). E quindi serve una diversa cultura educativa. Ma fino a quando, aggiungiamo, la scuola servirà solo a ‘produrre’ i lavoratori/consumatori funzionali alle sole esigenze delle imprese e non a formare cittadini; e l’educazione finanziaria sarà svolta da banche e sistema finanziario; e l’addestramento dei bambini sarà attuato prevalentemente dal marketing e dai videogiochi/social, il sistema non potrà mai cambiare perché è diventato autoreferenziale. Invece, la crisi ecologica è anche “un appello a una profonda conversione interiore”. E dell’economia e della tecnica. Uscendo da quella razionalità strumentale/calcolante-industriale (ancora la ‘Scuola di Francoforte’ che ritorna più attuale che mai) che riduce tutto a calcolo, efficienza/ottimizzazione/profitto, automatismi – anche l’uomo e la sua vita, la biosfera e la società.
Oltre la Laudato si’
Parole vuote e buoniste – come molti facilmente diranno – quelle dell’Enciclica? No. Da quella Enciclica è nato anche un movimento politico (nel senso di azione nella polis) e culturale trasversale – l’Associazione Laudato si’ – e orizzontale, fatto di persone con diverse esperienze che hanno provato a sviluppare i temi dell’Enciclica e farne (costruendolo pazientemente e appunto orizzontalmente e ‘in progress’) un progetto esistenziale. In occasione dei cinque anni dalla pubblicazione dell’Enciclica, questo programma/manifesto diventa un libro: “Niente di questo mondo ci risulta indifferente” (Edizioni Interno4), riprendendo appunto la Laudato si’, con il sottotitolo di: ‘Un’alleanza per il clima, la terra e la giustizia sociale’. Immaginando un percorso di assunzione di responsabilità verso la ‘casa comune’ dove ogni pianta, animale, persona, tramonto e specchio d’acqua abbiano importanza. Ricercando giustizia, uguaglianza, libertà, fratellanza, sorellanza, mitezza, sobrietà: parole oggi usurate o addirittura ‘scartate’ perché per il sistema sono un costo, una inefficienza e un tempo morto, impedendo l’ottimizzazione dei profitti.
“Ciò che l’ecologia integrale propone di riparare” – scrive Daniela Padoan nella Premessa al volume – “con l’urgenza di chi si trovi a rinforzare il tetto davanti a un uragano, il coronavirus ce l’ha messo davanti agli occhi. Ha mostrato la necessità di raccordare economia, salute pubblica e tutela dell’ambiente in un unico concetto di ‘salute’: del pianeta, dei suoi abitanti, dei suoi preziosi ecosistemi. Una salute circolare, interdisciplinare, che diventi cuore di ogni politica”.
Perché – ancora Bergoglio – questo “è il tempo del nostro giudizio, il tempo di scegliere che cosa conta e che cosa passa; è il tempo di separare ciò che è necessario da ciò che non lo è”. Il ‘nostro’ giudizio. Non di un algoritmo. O di Elon Musk.