Una nuova grana per le big tech, in particolare per quelle che stanno lavorando alacremente e in furiosa competizione tra loro per lo sviluppo dell’Intelligenza artificiale. La vicenda si iscrive nel più ampio problema del lavoro esternalizzato, molto spesso mal pagato.
Nel campo dell’intelligenza artificiale un impegno meno che certosino fa aumentare il rischio, già denunciato da più parti – come sappiamo – che questa tecnologia porti più problemi che vantaggi. Nei giorni scorsi, un gruppo di lavoratori a contratto incaricati di addestrare il nuovo chatbot IA di Google ha dichiarato di essere stato licenziato per aver denunciato salari bassi e scadenze irragionevoli, tali da comportare molte difficoltà a svolgere correttamente il proprio lavoro per garantire che i bot non causino danni.
La denuncia contro la Appen
La denuncia è stata presentata al National Labor Relations Board (NLRB) nei confronti dal loro datore di lavoro Appen, che fornisce decine di migliaia di lavoratori a contratto per le aziende Big Tech.
Cosa fa Appen
La Appen, secondo quanto si legge sul suo sito, mette a disposizione dei suoi clienti un’offerta di prodotti di dati LLM (large language model, modello linguistico computerizzato costituito da una rete neurale artificiale con decine di milioni o miliardi di parametri, addestrata su grandi quantità di testo senza etichetta, utilizzando l’apprendimento auto-supervisionato o l’apprendimento semi-supervisionato) e combina “la tecnologia IA, la garanzia basata sul rischio e l’adattamento del modello di base con l’esperienza del dominio per far sì che gli LLM funzionino davvero per le aziende”. Secondo la Appen, l’80% degli sforzi per sviluppare l’intelligenza artificiale è dedicato alla gestione dei dati. La Appen garantisce di supportare i suoi clienti nell’approvvigionamento dei dati, nella loro preparazione e nella valutazione del modello realizzato in rapporto alla realtà; il committente, così facendo, potrà avviare con sicurezza i propri progetti, risparmiando tempo che potrà dedicare alle sue attività principali.
Sempre secondo la Appen, le aziende che ad essa si affidano per tali compiti passano dal progetto pilota alla produzione 3 o 4 volte più velocemente.
Le condizioni dei lavoratori della Appen
Il punto è che i suoi lavoratori hanno iniziato a reclamare ritenendo il loro lavoro troppo delicato e pieno di responsabilità per essere retribuito come fa la Appen. Per un anno hanno tentato di ottenere qualcosa sul piano retributivo e delle condizioni di lavoro, senza successo. Alla fine, sono stati licenziati due settimane dopo aver inviato la lettera al Congresso nella quale paventavano il rischio che la loro situazione avrebbe potuto ripercuotersi su Bard, il chatbot di Google per il quale stavano prestando la loro opera, aumentando i pericoli che l’IA può generare.
Due di questi lavoratori hanno cercato l’appoggio dell’Alphabet Workers Union, il sindacato dei dipendenti della società madre di Google. L’Alphabet Workers Union ricorda che il motto di Google (fino al 2015, quando alla nascita di Alphabet fu cambiato in “Fai la cosa giusta, Do the right thing) era “Don’t be evil”, “Non essere cattivo”, e assicura che il suo compito principale è proprio quello di far rispettare quel motto.
La reazione di Alphabet
“Faremo in modo che Alphabet agisca in modo etico e nel migliore interesse della società e dell’ambiente. Siamo responsabili della tecnologia che portiamo nel mondo e riconosciamo che le sue implicazioni vanno ben oltre Alphabet. Lavoreremo con le persone interessate dalla nostra tecnologia per garantire che serva il bene pubblico. Useremo il nostro potere per controllare ciò su cui lavoriamo e come viene utilizzato”. Con queste parole viene presentata la Mission del sindacato, che aderisce al CWA (Communications Workers of America) con 700.000 iscritti. È evidente che la sindacalizzazione dei lavoratori non è vista di buon occhio in un mondo abituato ad agire per di più in assenza di regole.
Ora, la Alphabeth ci tiene a precisare che “Appen è responsabile delle condizioni di lavoro dei propri dipendenti, inclusi retribuzione, benefici, cambiamenti di impiego e compiti loro assegnati”. Il portavoce di Google ha assicurato che la big tech rispetta il diritto di questi lavoratori di aderire a un sindacato o di partecipare ad attività organizzative, ma è una questione che devono affrontare col loro datore di lavoro, Appen”. Nella lettera al Congresso, i due rappresentanti sindacali hanno scritto che i lavoratori che valutano i chatbot “spesso non hanno abbastanza tempo per valutare risposte più lunghe”, e che “il fatto che i valutatori siano così sfruttati potrebbe portare a un prodotto difettoso e in definitiva più pericoloso”. La Appen ha motivato i licenziamenti con non meglio precisate “condizioni commerciali”.
L’impatto dell’intelligenza artificiale sulla società
Adesso, con tutti gli allarmi lanciati a proposito dello sviluppo galoppante dell’Intelligenza artificiale, quella che inizialmente era una lotta per assicurarsi migliori condizioni di lavoro è diventata qualcosa di più: l’impatto dell’intelligenza artificiale sulla società.
La sfida tra Google e la rivale Microsoft per sviluppare e vendere strumenti di intelligenza artificiale e inserire la tecnologia nei prodotti esistenti, da Google Search a Microsoft Word, ha determinato il sempre maggiore ricorso a lavoratori esterni, parte degli enormi eserciti di lavoratori a contratto accumulati negli anni per fare di tutto, dalle mense gestite alla scrittura di codici per computer. I lavoratori forniti da Appen hanno contribuito per anni a migliorare la ricerca di Google, valutando i suoi risultati in termini di utilità e accuratezza. Ancor prima di marzo, quando ha messo a disposizione del mondo il suo chatbot, Google si è appoggiata a questi lavoratori a contratto. Una delle licenziate ha lamentato la drammaticità della situazione, con i valutatori che hanno un risicato limite di tempo per portare a termine i propri compiti: cinque minuti, ad esempio, per valutare una risposta dettagliata sulle origini della Guerra Civile, cosa che nessun essere umano può essere in grado di fare. Nel 2019, Google ha dichiarato che avrebbe iniziato a chiedere agli appaltatori di migliorare le retribuzioni dei propri dipendenti, ma sembra che, in conclusione, la situazione non sia cambiata di una virgola, mettendo insieme tutti gli elementi che concorrono alla determinazione complessiva delle prestazioni lavorative.
Lavoratori fantasma
Con la denuncia al National Labor Relations Board, i lavoratori stanno intensificando la lotta, attirando maggiore attenzione sulla realtà del lavoro a bassa retribuzione che sta dietro gli sviluppi dell’intelligenza artificiale all’avanguardia. La mole di lavoro del Board è però imponente, e quindi l’esame del ricorso potrebbe richiedere molto tempo. Ciò a conferma che negli ultimi anni il sistema delle Big Tech ha sfruttato enormemente la possibilità del ricorso ai lavoratori esterni.
Secondo i sindacalisti, essi sono “lavoratori fantasma”, non riconosciuti per l’enorme valore che forniscono a Google e alle altre società tecnologiche. Tanto da affermare che, senza il loro apporto, l’Intelligenza artificiale oggi non esisterebbe.
Conclusioni
Certo pensare che le società più potenti e ricche del pianeta abbiano fatto e facciano ricorso allo sfruttamento anche in un campo così delicato, sotto la lente d’ingrandimento dell’opinione pubblica e dei governanti per gli enormi pericoli in esso insiti, non può che destare ancora maggiore preoccupazione e inquietudine. Con la speranza che ciò serva ad accelerare i processi di regolamentazione, a livello globale, che si sono messi in moto e dei quali si avverte vieppiù l’urgenza.
Il lavoro sottopagato dietro la IA: l’inchiesta dell’Intelligencer
L’intelligenza artificiale è un lavoro molto impegnativo Mentre la tecnologia diventa onnipresente, sta emergendo una vasta sottoclasse di “tasker” che non va da nessuna parte. Così si chiama un’inchiesta dell’Intelligencer.
Il lavoro umano è ancora fondamentale per l’IA. Per l’annotazione delle immagini, degli audio o altri contenuti che servono ad addestrare gli algoritmi. Per affinarli in seguito con l’apprendimento supervisionato.
Ma sono lavori pagati pochissimo, 1-2 dollari l’ora, nei Paesi poveri.
“Negli ultimi sei mesi ho parlato con più di due dozzine di annotatori di tutto il mondo e, mentre molti di loro stavano addestrando chatbot all’avanguardia, altrettanti stavano svolgendo il banale lavoro manuale necessario per far funzionare l’IA. Ci sono persone che classificano il contenuto emotivo dei video di TikTok, nuove varianti di spam via e-mail e l’esatta provocazione sessuale degli annunci online”.
“Altri esaminano le transazioni con carta di credito e capiscono a quale tipo di acquisto si riferiscono o controllano le raccomandazioni dell’e-commerce e decidono se quella camicia è davvero qualcosa che potrebbe piacerti dopo aver comprato quell’altra camicia. Gli esseri umani correggono i chatbot del servizio clienti, ascoltano le richieste di Alexa e classificano le emozioni delle persone durante le videochiamate.
Etichettano gli alimenti in modo che i frigoriferi intelligenti non si confondano con le nuove confezioni, controllano le telecamere di sicurezza automatizzate prima di far scattare gli allarmi e identificano il mais per i trattori autonomi che sono perplessi”.
“I fornitori di dati dietro a nomi noti come OpenAI, Google e Microsoft si presentano in forme diverse. Ci sono aziende private di outsourcing con uffici simili a call center, come CloudFactory, con sede in Kenya e Nepal, dove Joe annotava per 1,20 dollari l’ora prima di passare a Remotasks. Ci sono anche siti di “crowdworking” come Mechanical Turk e Clickworker, dove chiunque può iscriversi per svolgere attività. Nel mezzo ci sono servizi come Scale AI. Chiunque può iscriversi, ma tutti devono superare esami di qualificazione e corsi di formazione e sottoporsi al monitoraggio delle prestazioni”.
“L’annotazione è un grande business. Scale, fondata nel 2016 dall’allora diciannovenne Alexandr Wang, è stata valutata nel 2021 a 7,3 miliardi di dollari, rendendolo quello che Forbes ha definito “il più giovane miliardario che si è fatto da sé”, anche se la rivista ha notato in un recente profilo che da allora la sua partecipazione è scesa sui mercati secondari”.