La pandemia sta accelerando alcuni trend strutturali dell’organizzazione del lavoro, quali il ricorso massivo a piattaforme digitali per la business continuity e per le interazioni B2B e B2C, e l’automazione dei processi produttivi per salvaguardare le catene del valore.
Nel medio periodo questi fenomeni non potranno che aumentare il rischio di spiazzamento di una quota della forza lavoro, in particolare quella che svolge mansioni che hanno la caratteristica intrinseca di essere replicabili e codificabili.
L’impatto del Covid sul mercato del lavoro
La crisi Covid-19 sta cambiando totalmente la prospettiva del mercato del lavoro, aprendo una fase nuova che ha stravolto tutti i principali indicatori economici a livello globale. Le stime della Commissione europea[1] parlano di una contrazione del PIL UE dell’8,3% nel 2020, a causa del blocco internazionale dei commerci, degli spostamenti e della frammentazione delle catene del valore, per poi lasciare posto ad una crescita del 5,8% nel 2021. Il governo italiano prevede una contrazione del PIL del 9% per l’anno 2020 e una crescita del 6% nel 2021[2]. L’OCSE[3] allo stesso tempo stima un impatto sul tasso di disoccupazione in Italia compreso tra +5 (con una sola ondata di diffusione del virus) e +6 punti percentuali (nel caso vi sia una seconda ondata). Questo comporterebbe una perdita di oltre 1 milione di posti di lavoro nel nostro Paese rispetto al 2019, stime confermate dalle proiezioni EY sul rischio di disoccupazione collegato agli scenari di perdita di fatturato in alcuni settori chiave[4].
Nel contesto del radicale cambiamento imposto dal Covid, si è quindi spostato il focus dal mismatch tra domanda e offerta di competenze alla disemployability, ossia alla difficoltà strutturale di inserimento o reinserimento occupazionale, che in Italia rischia di concentrarsi soprattutto sui giovani e sulle categorie più deboli a causa di processi di lungo periodo di polarizzazione asimmetrica del mercato del lavoro, che crea molti più posti di lavoro a bassa qualifica che occupazioni qualificate, e degli impatti settoriali della crisi.
Le fasce di lavoratori più a rischio automazione
Il Fondo Monetario Internazionale[5] conferma che le fasce più a rischio di disoccupazione o di inattività sono i lavoratori poco qualificati (soprattutto giovani, donne e migranti) nei settori più duramente colpiti dalla crisi, come la ristorazione e l’ospitalità, ma anche i lavoratori a tempo parziale, i dipendenti delle piccole e medie imprese, i lavoratori informali[6] e i profili professionali di “primo ingresso” soprattutto nelle professioni tecniche, nelle professioni esecutive nel lavoro d’ufficio e infine nelle professioni qualificate in attività commerciali e servizi, in quanto normalmente associate ad un basso grado di autonomia lavorativa e alla scarsa “remotizzabilità” delle mansioni.
Secondo l’OCSE skills Outlook 2019, il 13,8% dei lavoratori italiani sono in occupazioni ad alto rischio di automazione e avrebbero bisogno di una formazione moderata (fino a 1 anno) per passare a occupazioni più sicure, con basso o medio rischio di automazione (contro il 10,9% dell’OCSE). Mentre un altro 4,2% avrebbe bisogno di un percorso di formazione intensa (fino a 3 anni) per contrastare il rischio di espulsione dal mercato del lavoro. Si tratta di circa quattro milioni di lavoratori, ma quali? Chi svolge mansioni manuali potrebbe apparire più a rischio di chi svolge mansioni cognitive, ma in realtà le evidenze su questo tema non sono sempre chiare: il fenomeno che ha caratterizzato finora la quarta rivoluzione industriale è il cosiddetto “hollowing out of the middle skilled labour”[7], cioè l’accaparramento da parte delle macchine delle mansioni tipicamente impiegatizie, cioè cognitive e routinarie.
Questi sono gli effetti di breve periodo legati alle specificità del nostro mercato del lavoro e all’impatto settoriale della crisi.
Le conseguenze del covid sul mercato del lavoro
L’impatto del Covid sul mercato del lavoro, tuttavia, ha avuto conseguenze complesse che si intrecciano con le dimensioni tradizionali di competenze, qualifiche e mansioni. Innanzitutto, la resilienza dell’occupazione. Lo smart working, fino all’emergenza di questi mesi, era una pratica piuttosto marginale nel mercato del lavoro italiano: nel 2018 solo il 2% dei lavoratori dipendenti (il 4,8% se prendiamo in considerazione tutti gli occupati) praticava, almeno sporadicamente, forme di lavoro a distanza[8]. La crescita nel decennio precedente era stata limitata e aveva riguardato soprattutto le grandi aziende del settore privato, che in alcuni casi avevano lanciato progetti di lavoro a distanza già prima che la legge italiana regolamentasse la materia[9]. L’emergenza sembra aver risolto di colpo il problema dell’adoption di queste modalità di lavoro e degli strumenti sottesi, tuttavia è importante notare che il numero di lavoratori potenzialmente “remotizzabili” nel mercato italiano è ben più ampio rispetto ai numeri attuali, pure in rapido aumento. Secondo stime EY, il numero di lavoratori nella condizione di svolgere il proprio lavoro in tutto o in parte da remoto e in condizioni di sicurezza arriva a oltre 9 milioni e mezzo (circa il 41,5% della forza lavoro occupata). In queste stime rientrano i profili professionali più tipicamente associati al lavoro in modalità smart, ossia manager, ricercatori, quadri, professionisti, tecnici e impiegati d’ufficio, incluse tutte le categorie di lavoratori che possono svolgere il proprio lavoro in sicurezza, restando a casa e/o spostandosi per andare a lavorare, ma mantenendo contatti sporadici con le altre persone[10].
La figura a seguire combina le tipologie appena indicate di profili professionali[11] (settori economici NACE rev.2[12]) che potrebbero operare in modalità pressoché full digital (o comunque più del 60-70%), insieme all’indice composito (rif. INAPP) sulla fattibilità del lavoro da remoto[13], riportando i settori con un’incidenza maggiore. Questi dati indicano anche quali potrebbero essere i settori che hanno più opportunità di trovare in futuro new ways of working che potranno avere effetti duraturi anche dopo la fine della pandemia in quanto più efficienti o anche più auspicabili in certi casi per alcune tipologie di persone. Saranno proprio queste nuove modalità ad assicurare il mantenimento e la creazione di nuova occupazione. È interessante, a questo proposito, notare che i settori con un’incidenza maggiore di lavoro remotizzabile sono anche quelli che più di altri stanno investendo in nuove tecnologiche e nell’utilizzo di piattaforme digitali[14].
Figura 2 – Incidenza dei profili remotizzabili nei settori e tasso di fattibilità –(Fonte: elaborazione EY su dati Eurostat; INAPP)
Allo stesso tempo, l’accelerazione impressa ai processi di digitalizzazione e automazione porterà con sé nuovi linguaggi e nuove dualità – ad esempio, tra chi possiede competenze digitali di base e chi non le ha. L’alfabetizzazione digitale diffusa è uno dei principali gap di cui soffre il nostro Paese, come di recente confermato dall’indice DESI della Commissione europea (solo il 42% dei 16-74enni possiede competenze digitali di base contro una media UE del 58%), ma è tanto più grave tra la forza lavoro occupata. È prevedibile, dunque, che l’accelerazione di questi trend aumenterà nel medio periodo la quota dei lavoratori a rischio di spiazzamento a causa della digitalizzazione e dell’automazione.
Questo è confermato dagli esiti di un recente studio predittivo condotto da EY, insieme a Pearson e Manpower, sulla base di tecniche di machine learning. Le previsioni prodotte dal modello, in particolare, mostrano l’inversione nel lungo periodo dei processi di polarizzazione per cui anche in Italia nell’arco dei prossimi 10 anni la crescita dell’occupazione sarà concentrata nelle professioni più qualificate a detrimento di quelle meno qualificate.
Conclusioni
In questa fase avanzata della crisi Covid, e soprattutto al termine della crisi e delle misure provvisorie di protezione dei livelli occupazionali, tornerà quindi ad essere centrale il tema delle politiche attive del lavoro, e in particolare dell’up-skilling e del re-skilling della forza lavoro, per consentire ai lavoratori di rimanere o rientrare nel mercato del lavoro. Occorrerà lanciare dei veri e propri Piani di investimento pluriennali di settore, basati su un’analisi attenta dei fabbisogni e delle traiettorie di sviluppo dei settori più critici, con l’obiettivo di rendere più efficaci gli strumenti di formazione continua e incrementare la competitività complessiva del sistema. Le risorse per la formazione delle aziende dovranno essere sostenute tramite la leva fiscale, ad esempio rendendo strutturali e differenziando i tax credit per formazione 4.0. Sarà inoltre importante estendere il mandato dei Fondi Interprofessionali, ponendoli sempre più vicini al sistema della domanda, al fine di poter attrarre/gestire anche altre risorse e intervenire nella ristrutturazione delle imprese in crisi, nonché nella formazione dei disoccupati finalizzata al loro inserimento lavorativo, tramite Patti per la formazione da sottoscrivere con i servizi per l’impiego. Per sostenere lo sviluppo delle competenze e la diffusione dell’innovazione, occorrerà rivedere l’impostazione strategica dei Centri di Competenza ad alta specializzazione dedicati a Industria 4.0, promuovendo modalità pragmatiche di orientamento e formazione con un focus preciso sugli squilibri tra domanda e offerta di lavoro a livello territoriale, e coinvolgendo non solo le università e i centri di ricerca, ma anche gli ITS. Infine, per ottimizzare l’utilizzo delle risorse disponibili per la formazione dei disoccupati, sarà fondamentale rendere strutturali forme di valutazione della qualità della formazione, soprattutto in chiave di esiti occupazionali/occupabilità, e introdurre forme sistematiche di programmazione concertata degli avvisi FSE per la formazione dei disoccupati con le parti datoriali e sindacali, come avviene già in alcune esperienze avanzate nel Nord Italia[15].
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- Commissione europea, European Economic Forecast – Summer 2020, Institutional Paper 132, luglio 2020. ↑
- Nota di aggiornamento al Documento di Economia e Finanza (NaDEF), ottobre 2020. ↑
- OCSE, OECD Employment Outlook 2020: Worker Security and the COVID-19 Crisis, OECD Publishing, Paris,2020. ↑
- Boccardelli, P. e Iacovone, D. (a cura di), Lo scenario economico dopo il Covid 19. Un piano strategico per ripartire. Il Mulino, 2019. ↑
- FMI, Teleworking is Not Working for the Poor, the Young, and the Women, 7 luglio 2020. Disponibile al seguente link: https://blogs.imf.org/2020/07/07/teleworking-is-not-working-for-the-poor-the-young-and-the-women/ ↑
- Si noti che i lavoratori informali in Italia nel 2017 erano 3,7 milioni secondo le stime Istat e rappresentano una categoria tutelata dalle misure del governo solo attraverso il Reddito di Emergenza (REM) erogato per un massimale di due mensilità ognuna delle quali da 400 euro. ↑
- CEPR, Technological progress and hollowing-out of the middle-skilled labour share of income, luglio 2020. ↑
- Eurostat, Employed persons working from home as a percentage of the total employment, by sex, age and professional status (%), estrazione dati del 31/03/20. http://appsso.eurostat.ec.europa.eu/nui/show.do?dataset=lfsa_ehomp ↑
- Legge 81 del 22 maggio 2017. ↑
- Da questo conteggio sono stati esclusi i settori in cui la natura del lavoro impone contatti ravvicinati frequenti (sanità e servizi di cura; attività sportive e di intrattenimento). ↑
- I profili professionali remotizzabili valutati in base ai primi quattro Grandi Gruppi professionali della classificazione ISCO. Per un approfondimento si rimanda al seguente link: https://www.ilo.org/public/english/bureau/stat/isco/ Inoltre, la classificazione Istat CP2011 è basata sulla classificazione internazionale ISCO. ↑
- Eurostat, Employment by occupation and economic activity, estrazione dati del 19.02.2020. https://appsso.eurostat.ec.europa.eu/nui/show.do?dataset=lfsq_eisn2&lang=en ↑
- INAPP, Lavoratori a rischio di contagio da COVID19 e misure di contenimento dell’epidemia, INAPP Policy Brief n. 16 – aprile 2020. Indice ricavato dalla media degli indicatori che misurano il lavoro con i computer, svolgere attività fisiche, manovrare veicoli o mezzi meccanici, svolgimento di discussioni faccia a faccia, interazioni con clienti esterni e il pubblico, ecc. Generalmente i settori con la più alta incidenza di lavori remotizzabili sono anche quelli in cui è maggiore la fattibilità del lavoro da remoto. Nei settori manufatturiero, trasporti e commercio, tuttavia, la fattibilità calcolata da INAPP è più elevata della percentuale dei lavori remotizzabili perché include anche alcuni tipi di operatori e addetti alla vendita. ↑
- Per un approfondimento si rimanda alle seguenti fonti: Sole24Ore, L’arte di vendere in lockdown i brand a caccia di nuove relazioni, 28 marzo 2020; Assintel, Report 2020. Il mercato ICT e l’evoluzione digitale in Italia. Orientamenti della domanda, valori di spesa, scenari globali, 2019; la sperimentazione digitale sviluppata dal settore bancario: https://www.ilsole24ore.com/art/torcellan-oliver-wyman-digitale-e-smart-working-sono-test-le-banche-AD5BURH; Emergenza coronavirus: così il digitale può aumentare la resilienza del Paese: https://www.agendadigitale.eu/cittadinanza-digitale/emergenza-coronavirus-cosi-il-digitale-puo-aumentare-la-resilienza-del-paese/ ↑
- Boccardelli, P. e Iacovone, D. (a cura di), Lo scenario economico dopo il Covid 19. Un piano strategico per ripartire. Il Mulino, 2019. Capitolo IV “La ripartenza, le nuove dinamiche e di business e una coerente politica economica ed industriale di lungo periodo”. ↑