Lo scenario

Come la tecnologia ridefinisce i salari: gli impatti, anche in Italia

Attuale il dibattito sulle imprese che non trovano lavoratori e, d’altro canto, i disagi dei giovani che non trovano posti adeguatamente retribuiti rispetto allo sforzo richiesto: un panorama su cui è interessante riflettere alla luce dell’impatto delle tecnologie, tra tutte AI e robotica

Pubblicato il 22 Lug 2022

Lelio Demichelis

Docente di Sociologia economica Dipartimento di Economia- Università degli Studi dell’Insubria

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Da giorni su alcuni social e in tutti i media neoliberali-mainstream si grida alla scandalo per i molti imprenditori che non trovano lavoratori (soprattutto stagionali, ma non solo) e criticano quei giovani che non accettano magari salari da fame per lavori da tante ore e tanto sfruttamento. Pagateci di più e fateci lavorare meglio, è l’ovvia risposta sostenuta dai sindacati, dalla Cgil e dalla Uil in particolare.

Perché evidentemente anche le aziende devono fare la loro parte, come ha riflettuto Alberto Bombassei, fondatore e presidente emerito della Brembo, l’azienda bergamasca che produce freni per le automobili di mezzo mondo, in un’intervista del 2 luglio 2022 di Repubblica. In verità è più una speranza che una realtà, in un’economia italiana che da troppo tempo gioca la sua sopravvivenza sulla riduzione dei costi – soprattutto del costo del lavoro.

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Una scelta sostenuta e supportata da trent’anni di ideologia neoliberale per la quale occorre far adattare le persone alle esigenze della produzione e della produttività (cioè del profitto) e occorre quindi favorire l’impresa (attraverso la deregolamentazione del mercato del lavoro via flessibilità, precarietà e giungla salariale contrattuale) e non sostenere la domanda (salari e stipendi). Una scelta ideologica che continua ancora oggi a produrre i suoi effetti nefasti.

Perché si torna a parlare di salari

L’agenda che Draghi aveva portato all’incontro con i sindacati del 12 luglio – taglio fiscale sui salari bassi, estensione dei contratti collettivi in alternativa alla introduzione di un salario minimo per legge, incentivi per il welfare aziendale, come riportato da Il Sole 24 Ore – sicuramente non era risolutiva e soprattutto non scardinava (perché non poteva e non si doveva scardinarla, essendo l’essenza del governo), l’ideologia neoliberale. L’incontro è poi finito con un arrivederci a successivi incontri e a tavoli tematici ma, come ha sintetizzato il Segretario della Cgil Maurizio Landini, non sono state date risposte ai sindacati e non sono stati fatti numeri. Poi è arrivata la crisi politica innescata dai populismi al governo, Draghi si è dimesso e tutto è finito nel cestino.

La fotografia dell’Italia scattata recentemente – pre-crisi politica – dall’Istat è impietosa e insieme drammatica. E mette in evidenza come il problema salariale sia strettamente connesso al problema della precarizzazione del lavoro perseguita negli ultimi trent’anni.

Cosa dice l’Istat

Scriveva infatti il Rapporto 2022 dell’Istat, nella relazione del suo Presidente Gian Carlo Blangiardo alla Camera dei Deputati: “Il lavoro tradizionalmente definito come standard, cioè quello individuato nei dipendenti a tempo indeterminato e negli autonomi con dipendenti, entrambi con orario a tempo pieno, è in diminuzione. Nel 2021, queste modalità di lavoro riguardano 6 occupati su 10. […] Aumenta il lavoro dipendente a tempo determinato soprattutto con contratti di breve durata. Quasi la metà dei dipendenti a termine ha un’occupazione di durata pari o inferiore ai 6 mesi. Negli anni è aumentata anche l’occupazione part-time, che nel 2021 riguarda quasi un quinto degli occupati e nella maggioranza dei casi è involontario [cioè imposto dall’impresa al lavoratore]. Ed è proprio questa la forma di part time che ha mostrato la crescita più consistente”.

Producendo le inevitabili conseguenze – inevitabili in quanto deliberatamente non contrastate dai governi, violando l’articolo 3, secondo comma, della Costituzione. Blangiardo ha sottolineato nella relazione alla Camera che la diffusione di forme di lavoro che non corrispondono a standard ha contribuito a peggiorare la qualità generale dell’occupazione portando anche a stipendi più bassi. Emerge infatti che i modi per partecipare o no al mondo del lavoro sono tra gli aspetti più determinanti della condizione della povertà. E ricordiamo che, come precisato da Blangiardo, la povertà assoluta negli ultimi dieci anni è man mano aumentata tanto che nel biennio 2020-2021 ha raggiunto i valori più elevati dal 2005, includendo oltre 5 milioni e mezzo di persone. I soggetti sono cambiati, meno anziani soli, stabili i dati sulle coppie di anziani, in crescita tra le coppie con figli, monogenitori e famiglie di altra tipologia. Sempre più coinvolte le famiglie di occupati, aumentati i poveri tra minori e giovani.

Viene così confermata per il presidente di Istat la relazione tra impoverimento e politiche neoliberali, come il reddito di cittadinanza e di emergenza che hanno permesso, prosegue Blangiardo, a un milione di persone di non trovarsi in condizione di povertà. Il Presidente dell’Inps, Tridico, ha invece ricordato che i lavoratori poveri di oggi saranno i pensionati poveri di domani e mettendo in evidenza anche il problema dei contratti collettivi di lavoro pirata, firmati cioè tra imprese e sindacati farlocchi, ma utili a sfruttare ancora di più il lavoro, tagliando costi, redditi, diritti e sicurezza.

L’impatto della tecnologia

Lo ricordava Bombassei, citato all’inizio: “oggi grazie alla tecnologia il costo del lavoro incide molto meno di una volta sul valore totale del prodotto finito”. Dunque, perché non aumentare i salari, se la tecnologia lo permette? In realtà la tecnologia produce – ha prodotto e sta producendo – molto altro e di molto diverso.

Occorre inoltre ricordare che la tecnica ha nella sua essenza alcuni principi che – se non controllati e governati democraticamente – generano autopoiesi del sistema tecnico e producono non solo una progressiva sostituzione del lavoro umano con il lavoro delle macchine, ma soprattutto:

  • accelerazione e intensificazione dei ritmi di lavoro e tempi ciclo (le macchine sono sempre più veloci e impongono agli uomini la loro velocità e l’organizzazione che incorporano in sé stesse come tecnologia e come razionalità strumentale/calcolante, cioè il funzionamento delle macchine e il profitto del capitale diventano il fine dell’uomo e le macchine non sono più mezzi: e infatti la mitizzata Industria 4.0 è in realtà il vecchio taylorismo (one best way, standardizzazione, ripetitività, parcellizzazione, alienazione) più il digitale;
  • quindi i lavoratori diventano non solo appendici delle macchine (Marx), ma sempre più vengono sussunti/ibridati – secondo il principio di convergenza di macchine e uomini in mega-macchine (Anders[1]) – con le macchine/i.a., funzionando come macchine ai tempi-ritmi delle macchine;
  • generando una automatizzazione comportamentale degli uomini rispetto alle macchine/algoritmi e la loro crescente alienazione (meccanismo dello stimolo algoritmico che genera la risposta umana);
  • producendosi così un aumento del pluslavoro e della sua produttività grazie alla tecnica – e infatti lavoriamo e consumiamo (e anche consumare è un lavoro, anzi il lavoro per eccellenza) h24, la nostra produttività cresce sempre di più al ridursi dei salari e all’aumentare del lavoro gratuito (aumento di pluslavoro e produttività, ma non quella misurata dalle statistiche, bensì quella reale del nostro lavorare e consumare a ciclo continuo);
  • tutto grazie alle nuove tecnologie che hanno permesso la scomposizione della vecchia fabbrica fordista-taylorista e la sua trasformazione in piattaforma permettendo il passaggio dal fordismo-taylorismo concentrato tra quattro mura al fordismo-taylorismo individualizzato/diffuso dei lavoratori esternalizzati e precarizzati, ma comunque connessi/integrati (organizzati, comandati e sorvegliati/controllati) con l’impresa e sfruttati dall’impresa, mettendoli in competizione (al ribasso, per l’impresa) tra di loro. Un grande vantaggio per il sistema delle imprese, un grande svantaggio per l’uomo e per la società.

E dunque: perché dover aumentare i salari, se la tecnologia permette di accrescere la produttività e di tenerli bassi e semmai di ridurli ulteriormente? Tanto poi il sistema inventa i Black-Friday, Amazon, gli influencer, gli algoritmi predittivi e di accompagnamento e l’indebitamento di massa (compra oggi, paghi poi) per sostenere la domanda – cioè per accrescere la produttività di consumatori che devono consumare sempre e comunque. Vantaggio doppio per il sistema[2]. Grande svantaggio per uomini e società.

Robot e uomini

Su tecnica e robot interviene Martin Ford nel suo libro “Il dominio dei robot. Come l’intelligenza artificiale rivoluzionerà l’economia, la politica e la nostra vita”, in cui spiega che l’intelligenza artificiale “ha il potenziale per creare un valore economico indispensabile mentre cerchiamo una via di uscita dal profondo abisso in cui si trova ora la nostra economia. [Ma] una vivace economia di mercato dipende dal fatto che un vasto numero di consumatori possa acquistare prodotti e servizi. Se questi consumatori non hanno posti di lavoro, e quindi reddito, come creeranno la domanda necessaria a sostenere una continua crescita economica?”[6] – e alcune risposte le abbiamo già date qui sopra.

Ford ritiene che l’AI trasformerà ogni settore e qualunque nuova industria del futuro includerà probabilmente AI e robot, tanto da lasciar presupporre la materializzazione di un settore nuovo, con numerosi posti di lavoro in più per assorbire chi ha perso l’impiego causa automazione: “I lavoratori dovranno affrontare un tipo completamente diverso di transizione a un lavoro fondamentalmente non routinario, che spesso può richiedere qualità come la capacità di costruire relazioni efficaci con altri, lo svolgimento di analisi non routinarie o la ricerca di soluzioni creative”, spiega Ford nel suo libro. Ma queste, lo ricordiamo sono le retoriche che il sistema tecno-capitalista racconta da trent’anni, incurante delle smentite (supra, il taylorismo digitale). Ma anche Ford deve poi ammettere che “l’adozione di nuove tecnologie fa in modo che un ruolo che in passato richiedeva esperienza e capacità significative possa invece essere occupato da un lavoratore a basso salario con poca formazione, o da un appaltatore indipendente e intercambiabile […]”.

In realtà, come anche Ford deve riconoscere, dagli anni Settanta la retribuzione dei lavoratori non è riuscita a seguire l’incremento della produttività: “Quasi tutti i guadagni indotti dal progresso tecnologico e dal miglioramento della produttività sono stati incamerati da un gruppo relativamente ristretto di persone che si collocano nella fascia superiore della distribuzione del reddito. In altre parole, imprenditori, manager, dipendenti di spicco e investitori stanno cogliendo i frutti del progresso, mentre ai lavoratori ordinari vanno le briciole. […] Mentre la tecnologia sposta o diminuisce il valore del lavoro, una quota maggiore dei profitti aziendali viene catturata dal capitale” – cosa nota in realtà da tempo e sul tema rimandiamo alle opere di Luciano Gallino[3] o di Thomas Piketty[4] o di Pierluigi Ciocca[5] o di Antony Atkinson[6], senza dover tornare a Karl Marx.

Conclusione

Per Ford la sfida sarà individuare nuovi metodi per far fronte a problemi come disoccupazione tecnologica e aumento delle disparità, pur continuando a investire nell’AI e a sfruttare i benefici della tecnologia.

Ma a leggere queste righe sembra di tornare alla propaganda degli anni Novanta e alle (false) promesse di allora sui vantaggi della rete, sulla crescita economica infinita che avrebbe prodotto la sua new/net economy, sulla ricchezza per tutti che questa avrebbe generato gocciolando dall’alto del capitale verso il basso della società, sulla minore fatica e sul maggiore tempo libero che avremmo avuto sempre grazie alle nuove tecnologie. È accaduto esattamente il contrario, ma ancora non ce ne vogliamo rendere conto.

__

Bibliografia

  1. Anders G. (2003), “L’uomo è antiquato”, 2 voll., Bollati Boringhieri, Torino
  2. Sul tema rinviamo al fondamentale: Lazzarato S. (2012), “La fabbrica dell’uomo indebitato. Saggio sulla condizione neoliberista”, DeriveApprodi, Roma
  3. Gallino L. 2012, “La lotta di classe dopo la lotta di classe”, Laterza, Roma-Bari
  4. Piketty Th. (2017), “Capitale e disuguaglianza”, Bompiani, Firenze-Milano
  5. Ciocca P. (2021), “Ricchi/Poveri. Storia della diseguaglianza”, Einaudi, Torino
  6. Atkinson A. B. (2015), Disuguaglianza. Che cosa si può fare?”, Cortina Editore, Milano

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