Prende velocità la domanda di lavoro sostenuta dal buon andamento dell’economia italiana, sebbene a livello mondiale stiano emergendo crescenti tensioni per il costo dell’energia e di altre materie prime. Permangano difficoltà tra le imprese nel trovare manodopera specializzata, che evidenzia come il tema delle competenze sia ancora una criticità non risolta, ma arriva la notizia dell’approvazione della Commissione europea all’assegnazione di 4,7 miliardi di euro all’Italia nell’ambito dei fondi di “React-Eu”.
Risorse che serviranno per le skill ad alto contenuto tecnologico, ma anche a dare corpo al programma nazionale “Garanzia di occupabilità dei lavoratori” (Gol), il maxipiano pensato dal Ministero del Lavoro finalizzato a migliorare le chances di occupabilità, soprattutto di chi è più in difficoltà. I fondi, spiega il Governo, contribuiranno ad aumentare le assunzioni di giovani e donne, consentiranno ai lavoratori di partecipare alla formazione, con un’attenzione particolare alle skill digitali, e sosterranno servizi su misura per le persone in cerca di lavoro.
La diffidenza è lecita. Già la legge di Bilancio per il 2021, lo scorso anno, aveva stanziato risorse per il “nuovo” programma Gol (233 milioni) per tentare una riforma delle politiche attive del lavoro. Il decreto che doveva dare l’avvio al programma non è stato mai varato. Intanto c’è chi si chiede se non sia arrivato il momento di realizzare immediatamente una governance finalmente unica e centralizzata dell’intero sistema. D’altronde il tempo dell’attuazione del PNRR stringe e l’obiettivo finale resta quello di rendere più efficiente e dinamico il mercato del lavoro, guardando al dopo 2026: finito il PNRR dovremo essere in grado di fare da soli.
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Lavoro: previsioni in aumento per fine anno
Sono oltre 526mila i lavoratori ricercati dalle imprese per il mese di settembre, circa 91mila in più (+21%) rispetto allo stesso periodo del 2019; nell’ultimo trimestre dell’anno le imprese hanno in programma di assumere 1,5 milioni di lavoratori (+23% rispetto all’analogo trimestre 2019). L’area in cui ci sarà più bisogno di lavoro è quella della “produzione ed erogazione di servizi”. A seguire, maggiori opportunità di lavoro derivano dal comparto del “commercio” (87mila entrate programmate nel mese e 279mila nel trimestre), da quello dei “servizi alle persone”[1] (84mila nel mese e 188mila nel trimestre) e dai “servizi di alloggio, ristorazione e servizi turistici” (73mila nel mese e 192mila nel trimestre).
A delineare questo scenario è il Bollettino del Sistema informativo Excelsior, realizzato da Unioncamere e Anpal.
A fronte di questa offerta ci sono aziende che fanno fatica ad assumere. È l’altra faccia della medaglia. Sono migliaia le aziende che lanciano un vero e proprio grido d’allarme. Raggiunge il 36% la quota di assunzioni per cui le imprese dichiarano difficoltà di reperimento (5,5 punti percentuali in più rispetto a settembre 2019), che sale al 51% per gli operai specializzati, al 48% per i dirigenti, al 41% per le professioni tecniche e al 38% per le professioni intellettuali e scientifiche. Le figure di più difficile reperimento sono fonditori, saldatori, lattonieri, calderai, montatori carpenteria metallica (66%), fabbri ferrai, costruttori di utensili e assimilati (66%), artigiani e operai specializzati del tessile e dell’abbigliamento (65%).
Difficili da reperire anche i tecnici informatici, telematici e delle telecomunicazioni (59%), i tecnici della distribuzione commerciale (58%) e quelli della gestione dei processi produttivi di beni e servizi (57%) così come gli specialisti in scienze matematiche, informatiche, chimiche, fisiche e naturali (57%) e gli ingegneri (48%).
Addirittura per i laureati nei vari indirizzi di ingegneria e per quelli nelle discipline medico-sanitarie quasi la metà delle assunzioni previste dalle imprese sono di difficile reperimento; una quota analoga (48%) riguarda i diplomati nell’indirizzo meccanica, meccatronica ed energia, mentre supera il 50% la difficoltà a trovare qualificati negli indirizzi edile e meccanico (53% per entrambi). A incontrare le maggiori difficoltà di reperimento sono le imprese delle regioni del Nord est (sono difficili da reperire il 41% delle figure ricercate), seguite da quelle del Nord Ovest (36%), Centro (34%) e Sud e Isole (33%).
Attenzione però a dare ai giovani facili appellativi di “choosy” (schizzinosi) o dare tutta la colpa al reddito di cittadinanza che renderebbe più pigri e svogliati i lavoratori. Non sono solo i sindacati a sostenere che se il RdC lo si preferisce al lavoro, significa che salari e contratti non sarebbero adeguati. Dai dati, infatti, emerge una domanda di lavoro, in qualunque settore, trainata prevalentemente dai contratti a tempo determinato con 275mila unità, pari al 52% delle entrate programmate. Seguono i contratti a tempo indeterminato (109mila), i contratti di somministrazione (49mila), gli altri contratti alle dipendenze (37mila), i contratti di apprendistato (28mila), gli altri contratti alle dipendenze (18mila) e i contratti di collaborazione (10mila).
Non solo, se diamo un’occhiata al resto del mondo, vediamo che l’Italia arranca anche sul fronte retributivo: i guadagni annui netti sono decisamente inferiori; peggio di noi fa solo la Spagna. L’industria sta vivendo trasformazioni epocali, anche le aziende sono chiamate a fare il loro mea culpa. Non sempre si investe in formazione come si dovrebbe, così come spesso manca l’orientamento nelle scuole. Le conseguenze sono note: sempre più giovani emigrano, sempre più scarsa la presenza femminile nel lavoro, sempre in crescita il dato degli inattivi (persone che il lavoro non lo cercano più perché ormai hanno perso le speranze).
“Dobbiamo lavorare sulle competenze, scardinando settori molto specifici che ci siamo dati negli anni per passare a più interdisciplinarità, con una collaborazione più agile e snella tra Università e imprese e sulla programmazione”. Così la ministra dell’Università e della Ricerca, Maria Cristina Messa intervenuta alla tavola rotonda “Imprese e capitale umano” tenuta alla 14esima edizione del Festival Città Impresa di Vicenza.
La necessità della formazione continua
La formazione continua è indispensabile per abilitare gli individui ad apprendere le competenze necessarie ad affrontare i cambiamenti che stanno trasformando le società: è questo il messaggio principale che emerge dal rapporto Skills Outlook 2021 dell’OCSE, che indaga sul significato e sull’importanza della formazione continua, fornendo spunti su come i Paesi possono implementare strategie mirate a migliorare le competenze degli individui, aumentando la loro capacità di “imparare a imparare”.
Un dibattito che è antecedente la pandemia: già da un decennio, sottolinea il rapporto, la formazione continua viene considerata essenziale per navigare in un mondo del lavoro in rapido cambiamento, scosso dalla globalizzazione, dall’allungamento delle aspettative di vita, dai cambiamenti tecnologici, ambientali e demografici. Tuttavia, al di là di queste variabili, emerge che una visione della vita basata su tre momenti definiti (formazione scolastica, lavoro e pensionamento) non ha più senso.
“Se le competenze sono definite come la capacità di eseguire un complesso e ben organizzato di pensiero (nel caso delle abilità cognitive) o di comportamento (nel caso delle abilità comportamentali) per raggiungere obiettivi specifici, allora obiettivi che cambiano e contesti che cambiano richiedono agli individui di acquisire nuove competenze o di adattare quelle che hanno sviluppato in passato”, sottolinea il rapporto.
Anche sfruttando le opportunità messe a disposizione dalle tecnologie digitali – ma riconoscendo che in alcuni casi non possono sostituire la formazione in presenza – le politiche rivolte alla formazione andrebbero orientate a fornire agli individui le lifelong skills, non solo quindi le capacità di alfabetizzazione e calcolo, ma soprattutto un’attitudine positiva verso l’apprendimento, che sarà indispensabile nel corso di tutta la vita (per questo vi si fa riferimento con il termine inglese lifelong attitude).
Sappiamo che il ruolo dei datori di lavoro nella formazione continua è imprescindibile. Per questo le politiche dovranno fornire strumenti di sostegno a queste figure attraverso, ad esempio, con formule di finanziamento che incentivino adeguatamente i datori di lavoro a investire nell’apprendimento.
Il Governo fa GOL: in arrivo il programma per la ricollocazione disoccupati
Sta per entrare nel vivo il programma “Garanzia di occupabilità dei lavoratori” (Gol): il maxi piano del Governo finalizzato al rilancio delle politiche attive per il lavoro. La nuova misura, che partirà a breve, potrà contare su un finanziamento complessivo di 4,9 miliardi di euro tra PNRR e React-Eu.
Sempre nella Missione 5 del PNRR vi sono risorse per il Piano di rafforzamento dei Centri per l’impiego che – sommati a quelli stanziati nel Bilancio nazionale – arrivano complessivamente a quasi 1,1 miliardi di euro. Così come molte risorse sono messe stabilmente a disposizione delle Regioni a decorrere dal 2021 per l’assunzione di 11.600 nuovi operatori nei Centri per l’impiego.
Un importo d’investimenti e un ventaglio d’interventi rilevanti per raggiungere una platea davvero ampia. “Il target è molto ambizioso – ha spiegato Orlando alle parti sociali – 3 milioni di persone da raggiungere con il programma entro il 2025”. Di questi almeno il 75% devono essere donne, disoccupati di lunga durata, persone con disabilità, giovani under 30, lavoratori over 55. Inoltre, almeno 800 mila beneficiari dovranno essere impegnati in attività di formazione, di cui almeno 300 mila in percorsi di rafforzamento delle proprie competenze digitali.
Potranno beneficiare di GOL i lavoratori in Cig, ma anche i beneficiari di Naspi e Dis-coll, del Reddito di cittadinanza, i lavoratori fragili o vulnerabili – come Neet, disabili, donne in condizioni di svantaggio, over 55 – i disoccupati senza sostegno al reddito, e i cosiddetti ‘working poor’ cioè coloro che, pur lavorando, versano in condizione di precarietà e non dispongono di salari dignitosi.
I percorsi di ricollocazione lavorativa
Non tutti i disoccupati sono uguali. Per questo motivo, in base allo status lavorativo, il programma GOL prevede quattro percorsi che aiuteranno i soggetti interessanti a trovare un nuovo impiego, più un quinto riservato esclusivamente alla ricollocazione collettiva in casi di crisi aziendali. Andando nello specifico:
- per chi è più facilmente occupabile è previsto un percorso lineare di reinserimento lavorativo;
- per chi ha bisogno di adeguare le proprie competenze c’è un percorso di aggiornamento ‘upskilling’, che prevede interventi formativi prevalentemente di breve durata e dal contenuto professionalizzante;
- per chi è più distante dal mercato del lavoro verrà avviato un percorso di riqualificazione ‘reskilling’, che si traduce in una robusta attività di formazione, con un focus a quelli che sono i profili più richiesti;
- per i casi più complessi, si andrà ad attivare il percorso di lavoro e inclusione, che fa leva sulla collaborazione con la rete dei servizi territoriali, come quelli educativi, sociali, sanitari, di conciliazione.
L’elemento che accomuna i diversi percorsi è la personalizzazione, che permetterà di delineare la soluzione più adatta in base alle esigenze dei singoli soggetti. Il programma GOL dovrà essere finalizzato attraverso un decreto interministeriale, condiviso con le Regioni. Al Ministero pensano che la misura potrà partire già dalle prossime settimane.
Le criticità di un sistema da riprogettare
Se le risorse, grazie al PNRR non sono più un problema, le politiche attive hanno evidenziato una criticità non trascurabile. La completa disorganizzazione. A tutt’oggi si potrebbe snocciolare il rosario delle occasioni perse per le politiche attive del lavoro. La regionalizzazione dei 550 Centri per l’impiego, insieme alla assoluta inefficacia dell’Anpal, ha mostrato una incomunicabilità assoluta tra domanda e offerta di lavoro a livello nazionale. Meno del 4% dei nuovi occupati ha trovato lavoro grazie ai Centri per l’impiego. E secondo l’Employement Outlook 2021 dell’Ocse solo il 18% dei disoccupati italiani si è rivolto a un Centro per l’impiego, durante la pandemia, contro una media Ocse del 41%. Come ricorda il Rapporto 2021 di “Welfare, Italia” (il think tank del Gruppo Unipol e The European House Ambrosetti), che verrà presentato a novembre, il rapporto tra la spesa per le politiche attive e quella per le politiche passive risulta un impietoso 0,24.
Da anni si attende una piattaforma di incrocio dei dati nazionali. Non pervenuta. Oggi con la cogenza del PNRR e dei suoi finanziamenti condizionati potrebbe essere giunto il tempo dell’accelerazione (anche se filtrano voci di voler rimandare tutto alla legge di Bilancio), come scrive la professoressa Lucia Valente su lavoce.info: “Per arrivare in tempi rapidissimi al raggiungimento dei target negoziati con la Commissione è indispensabile un passo indietro delle Regioni. Ed è indispensabile che lo Stato agisca in sussidiarietà nei confronti dei territori incapaci di gestire le tante risorse ora disponibili; prevedendo, se necessario, il coinvolgimento degli enti privati accreditati”.
Se il PNRR ha posto fin da subito la centralità del capitale umano e ha stanziato ingenti risorse, adesso è arrivato il momento che le risorse si muovano secondo una logica coerente e integrata.
Il programma GOL occasione per un ripensamento generale
Ben vengano le risorse, se vengono. La legge di bilancio per il 2021 aveva già stanziato risorse – a valere sul fondo React-EU – da destinare all’assegno di ricollocazione (per 267 milioni di euro) e a un nuovo programma di «Garanzia di occupabilità dei lavoratori» (233 milioni) per tentare una riforma delle politiche attive del lavoro, da definire con apposito decreto interministeriale da emanare entro 60 giorni dalla sua entrata in vigore, quindi entro il 31 marzo 2021, previa intesa in sede di Conferenza stato-regioni. Il decreto non è stato ancora varato. Nel frattempo, però, traendo spunto dalle Raccomandazioni della Commissione, abbiamo inserito Gol nella missione 5, componente 1, del PNRR, che vale 6,6 miliardi.
Al tempo stesso abbiamo preso impegni rispetto al “Piano nazionale nuove competenze”, mediante la fissazione di standard di formazione per i disoccupati e il rafforzamento del sistema della formazione professionale, promuovendo una rete territoriale dei servizi di istruzione, formazione e lavoro anche attraverso partenariati pubblico-privato.
Insomma, abbiamo deciso di imboccare la strada giusta perché, finalmente, ci siamo obbligati a gestire sia le politiche attive sia la formazione al livello nazionale, in una logica integrata, e non più al livello regionale. Ma il rispetto dei tempi diventerà cruciale.
Ci siamo impegnati a rispettare i tempi di una strategia di sviluppo molto ampia che, a sua volta, si compone di un insieme integrato di fonti di finanziamento e strumenti di policy. Purtroppo dei contenuti di questa formazione – che dovrebbe consentire ai giovani e agli adulti di acquisire le conoscenze, le abilità e le competenze necessarie per svolgere determinate professioni o, più in generale, soddisfare le richieste sul mercato del lavoro – non si sa ancora nulla.
Conclusioni
Per la natura eterogenea del mercato del lavoro, le politiche ad esso rivolte richiedono la cooperazione tra il pubblico, il settore privato e i gruppi della società civile, nonché l’elaborazione di politiche coerenti in materia di istruzione, mercato del lavoro, sviluppo economico, sociale e previdenziale.
Uno sforzo condiviso, dunque, che richiede la costruzione di diverse sinergie tra tutti gli attori della società – governi, scuole, il settore dell’istruzione superiore, le istituzioni di istruzione e formazione professionale, i datori di lavoro, le organizzazioni della società civile – ma anche tra i diversi settori dell’economia. Una sfida non semplice, come non semplici sono i cambiamenti che interesseranno le società nei prossimi anni.
Perché allora non sostituire l’evanescente Anpal con l’Inps?
D’altronde per attuare il piano integrato politiche attive-formazione proposto nel PNRR è indispensabile realizzare immediatamente una governance unica e centralizzata e un sistema informativo unico Anpal-Inps, integrato con i sistemi informativi regionali per garantire il funzionamento dei meccanismi di condizionalità del sostegno del reddito. Potrebbe essere questa la strada giusta sia per erogare efficientemente servizi digitali sia per garantirne l’uniformità su tutto il territorio nazionale e superare i particolarismi e la frammentarietà a cui abbiamo assistito finora a causa della competenza concorrente Stato-Regioni.
Resta da chiarire perciò un punto cruciale della riforma delle politiche attive prevista entro l’anno: la nuova “Garanzia occupabilità dei lavoratori” prevede solo nuove assunzioni nei Centri per l’impiego o sarà l’occasione per un ripensamento generale dell’intera galassia di uffici che negli anni scorsi ha mostrato evidenti limiti e carenze?
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