il libro

Le ambizioni imperiali delle big tech: potere pubblico e privato ai tempi del cyberspazio

Un estratto del libro “Sovranità.com. Potere pubblico e privato ai tempi del cyberspazio” di Stefano Mannoni e Guido Stazi (Editoriale Scientifica, Napoli, novembre 2021) che ci fa comprendere quanto il potere delle big tech sia così vasto e invasivo da mettere in discussione quello degli Stati

Pubblicato il 29 Dic 2021

Stefano Mannoni

giurista, professore di Storia del Diritto Medievale e Moderno e di diritto della comunicazione all'Università degli Studi di Firenze, ex commissario Agcom

Guido Stazi

Agcm, Responsabile Comitato per le Valutazioni Economiche

big tech gafa

Si narra che Mark Zuckerberg sia un grande ammiratore dell’imperatore Augusto. Non stentiamo a crederlo! Tutto nella strategia di Facebook evoca una allure imperiale. Persino un biografo simpatetico come Steven Levy deve ammettere che un certo tasso di spregiudicatezza nel conseguire gli obbiettivi trapela dal modo di agire di Facebook.

Facebook, il vero potere è quello che non si vede

Violazioni della privacy? Sì certo, del resto: move fast, break things and … apologize later! Le scuse seguono. Le trattative con WhatsApp per il suo acquisto? Serene, sicuro, salvo per il fatto che incombeva sui titolari della piccola impresa la prospettiva di vedersela in una feroce competizione con Facebook qualora non avessero capitolato. Il timore per la gesticolazione antitrust dei democratici? Tranquilli: dietro l’angolo c’è sempre il memento sulla natura di campione nazionale di Facebook: volete davvero fare un favore ai cinesi? I favori all’intelligence statunitense: già dimenticati?

Nulla di nuovo sotto il sole dell’Occidente, si dirà. E il pensiero corre subito alla Compagnia delle Indie orientali britannica che il Parlamento di Londra ha impiegato mezzo secolo per domare, riconducendola sotto la sua giurisdizione dopo enormi misfatti: e non sarà un caso che in piena pandemia Zuckerberg abbia fatto shopping proprio in India investendo 5.7 miliardi di dollari nel gigante internet Jio. Certo, le grandi piattaforme digitali non hanno un esercito e non governano i territori; ma viene da chiedersi se ne abbiano davvero bisogno visto la pervasività della loro signoria: quando si raggiunge e si influenza un terzo della popolazione del pianeta non vi è necessità di ostentare una forza che si possiede già. Il vero potere non è forse quello che non si vede? Quelle di un tempo erano società per azioni che esercitavano una parte della sovranità delegata loro dal monarca in nome del profitto ma anche degli ideali del progresso: non vi era distinzione tra pubblico e privato perché le due dimensioni erano inseparabilmente intrecciate. Di natura indissolubilmente ibrida, esse sfidavano i grandi teorici della sovranità come Hobbes e Bodin le cui ricette per l’assolutismo “erano più prescrittive che descrittive”. Non vi suona familiare? Quando Zuckerberg annuncia di volere disseminare il vangelo libertario per il mondo, nel momento stesso in cui persegue con ostinazione il massimo profitto, mima in tutto e per tutto queste auguste antesignane.

Le ambizioni imperiali di Facebook

Creatura ibrida tra pubblico e privato la Compagnie delle Indie; altrettanto Facebook e Google che non mostrano alcuna timidezza nello svelare le loro ambizioni imperiali – qualcosa che Russi e Cinesi hanno intuito perfettamente avendo un senso della storia più sviluppato degli europei atlantici, ancorché parecchio distorta e selettiva. D’altronde pretendere di lanciare una propria valuta in concorrenza con quella degli Stati non è forse un atto di arroganza che tradisce davvero un disegno imperiale?

Del resto, un punto in comune lampante con il loro grande precursore del Settecento lo hanno di sicuro: ossia la capacità di lobbying delle istituzioni politiche; inaugurata nel 1693 dalla Compagnia questa prassi e questo talento trovano degni eredi nei monopolisti di oggi. In effetti, dice Lucie Greene in Silicon States, le piattaforme si spingono oltre i limiti dell’immaginazione dell’osservatore. Efficacissime lobbiste, pronte sempre a sfruttare il mito degli eroi della tecnologia frenati dai burocrati, battono in breccia le iniziative legislative sgradite. Regolatori del mercato in cui esse stesse operano (vedi Amazon, Uber etc.), relegano lo Stato a una fastidiosa appendice. Chi è contro la Silicon Valley è ipso facto contro la tecnologia e il progresso: questa è la narrativa, sotto il sempiterno stendardo della “Nuova Frontiera” e all’insegna di un motto confortante: là dove c’è network, lì non può esservi ghetto o dominazione di classe.

Big tech senza limiti, così estendono i propri domini: le sfide antitrust

Big tech e sovranità privata

Del tutto coerentemente, Julie Cohen, giurista di Georgetown, invita a passare il Rubicone riconoscendo la plausibilità dell’ossimoro – “sovranità privata” – a favore di piattaforme che in tutto e per tutto operano quali grandi soggetti della diplomazia internazionale. Il loro potere è normativo, performativo, pratico e gli Stati le corteggiano per carpire i loro segreti: di quale altra prova vi è bisogno?

Ora se qualcosa insegna la vicenda della East India Company, nella versione originale nonché in quella sotto i nostri occhi, diciamo per comodità post-moderna, è questo: come rammenta David Runciman in How Democracy Ends: “se Facebook dovrà essere domata in un futuro prossimo, ciò avverrà da parte del potere posseduto dagli Stati, che sono le macchine inventate a questo scopo. Non potrà essere semplicemente il popolo vs. Facebook. Dovrà essere Leviatano contro Leviatano”. Ne sapevano qualcosa i coloni americani nel loro apprendistato verso l’indipendenza. I barili di tè gettati a mare nel porto di Boston, non a caso di proprietà proprio della monopolista compagnia delle Indie, sembravano contenere “un veleno lento, in senso politico come fisico. Essi racchiudono qualcosa di peggio della morte: i semi stessi della schiavitù”.

I feroci critici dello Stato dovrebbero riflettere sulla natura di Leviatano propria di una Facebook, ben più insidiosa rispetto alle tante entità territoriali create dal Cinquecento in poi. Ammonisce ancora Runciman: “Facebook è sia una gerarchia che una rete. È molto più gerarchico di qualsiasi Stato democratico: Zuckerberg e la sua cerchia immediata esercitano uno straordinario livello di controllo personale. È più simile a una corte medievale che a una comunità politica moderna. Il potere scorre dall’alto. Allo stesso tempo la sua rete è molto più inclusiva di qualsiasi Stato”. E non è finita: “lo Stato può farci sentire sicuri ma Facebook ci fa sentire amati”. È l’esatto contrario della democrazia rappresentativa che fu inventata dai rivoluzionari americani e francesi non per solleticare i nostri istinti ma per tenerli a bada, non per appagarli ma per trascenderli: ragion per cui tanto essa è frustrante, quanto invece appagante è l’esperienza del social network che ci regala scariche di dopamina.

Lo Stato unico baluardo contro l’imperialismo post-moderno

Ben lontano da inverare la Pax Technica immaginata da Philip Howard, lo scenario che ci viene servito promette solo uno strisciante e molto accudente asservimento dei soggetti, agli antipodi esatti del paradigma individualista che ha fondato la modernità dal Seicento in poi. E per quanto possa deludere la prospettiva, l’unico ingrediente per resistere a questo imperialismo post-moderno è ricorrere allo Stato, sì proprio quello Stato che abbiamo speso trenta anni ad esecrare, almeno da quando Francis Fukuyama annunciò baldanzoso la fine della storia. Operazione necessaria ma non semplice perché la sfida è impari: “il mondo online”, dichiara l’ex capo di Google Eric Schmidt, “non è veramente limitato da leggi terrestri… è il più grande spazio non governato della terra”. Direi che ce ne siamo accorti.

Gli assi portanti del colonialismo dei dati

Nonostante questa copia di argomenti, si potrebbe ancora contro argomentare sostenendo che l’accostamento con le grandi compagnie del passato è nulla di più di una elegante boutade, una trovata ad effetto. No, non è affatto una trovata ad effetto poiché il colonialismo dei dati si pone in piena continuità con il colonialismo storico per le modalità che presta al capitale al fine di procedere allo sfruttamento della materia prima. Con la differenza che il capitalismo dei dati non si accontenta di sottoporre al meccanismo di appropriazione ed estrazione del valore i corpi: pretende invece di carpire per i suoi scopi l’intera vita umana, catturata in relazioni sociali che passano necessariamente per le maglie strette della dataficazione. Il nuovo colonialismo, come argomentano Couldrye e Mejias in The Costs of Connection. How Data is Colonizing Human Life and Appropriating it for Capitalism, si basa sulla “naturale” disponibilità di dati sociali “a basso prezzo”. Con il dispositivo di sfruttamento che lo ha storicamente preceduto, il nuovo colonialismo condivide gli assi portanti: una infrastruttura tecnologica per l’estrazione dei dati; un ordine sociale che vincola gli esseri umani a questa infrastruttura; un sistema economico costruito su infrastruttura e ordine; un modello di governo sociale che lega sempre di più gli individui al sistema; una razionalità che offre un orizzonte di senso allo sfruttamento; e persino un nuovo modello di conoscenza che esaurisce in sé, nei big data, lo spazio di ciò che si può apprendere sulla vita ( in una convergenza senza precedenti tra potere economico e cognitivo).

La riduzione delle relazioni sociali a commodity

La riduzione delle relazioni sociali a commodity via i dati rende tutto ciò possibile e plausibile. Certo Amazon non ha bisogno del suo esercito come la Compagna delle Indie. Il punto è che si pone esattamente anch’essa quale “compagnia-Stato” sfruttando l’enorme potenziale della sua logistica, di cui il cloud, la “nuvola”, è la punta di diamante. In sintesi “se il colonialismo può essere capito come un processo che permette a una parte di occupare lo spazio vitale di un’altra e di appropriarsi delle sue risorse, sopraffacendola attraverso una combinazione di razionalizzazione ideologica e mezzi tecnologici (che includono l’uso della sorveglianza e del dominio), ebbene allora noi suggeriamo che siamo entrati in una nuova fase del colonialismo”.

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