La disinformazione online rappresenta il lato oscuro della Rete, ma le Big tech, impegnate nei tagli del personale, stanno ora sottovalutando il fenomeno.
Bisogna invece che non si spengano i fari sulle possibili cause che danno luogo all’incremento esponenziale di fake news, cercando efficaci soluzioni in grado di fronteggiare le insidie dell’avvento dell’era della post verità.
L’aumento della polarizzazione verso contenuti tossici può infatti mettere a rischio le potenzialità divulgative offerte da Internet.
In un processo involutivo dello spazio virtuale, si assiste così all’amplificazione della condivisione di contenuti “accattivanti”, “estremistici” o “sensazionalisti”, meglio indicizzabili grazie alla tecnica del clickbait. L’obiettivo è quello di catturare l’attenzione degli utenti, massimizzando i proventi pubblicitari generati. Ma i rischi sono enormi e in gioco sono le democrazie.
Disinformazione online: ipotesi di un cambio di rotta
Sono noti, almeno in linea di massima, i principali effetti collaterali provocati dai circuiti comunicativi della Rete. Ma, per riconoscere e contrastare simili insidie, è la concreta adozione di misure adeguate, costanti, efficaci e tempestive, come fattore variabile troppo spesso carente, lacunoso e oscillante nel tempo. In teoria ne abbiamo consapevolezza, ma li trascuriamo.
Secondo il New York Times, in una prima fase, i colossi del web hanno prolungato l’impegno di combattere la circolazione “tossica” di notizie false. Talvolta, hanno perfino rimpiazzato le autorità preposte a ciò, tappando falle a livello istituzionale. Invece, adesso non sembrano più ritenere così importante la lotta alla disinformazione, nonostante la dilagante diffusione di fake news veicolate in Rete. Il problema è preoccupante e su scala planetaria. Ecco perché.
Per sconfiggere la disinformazione bisogna aumentare le competenze
La spending review delle Big tech colpisce il monitoraggio delle fake news
In controtendenza rispetto alle strategie espansionistiche di fabbisogno dimensionale e occupazionale, giustificate da uno balzo del fatturato per soddisfare l’impennata della domanda di mercato IT registrata in pandemia, lo scenario è mutato.
Le Big tech adesso abbracciano la spending review. Hanno assunto politiche di riduzione dei propri organici. Ma le aziende tecnologiche sono state più propense a sacrificare soprattutto il personale incaricato di monitorare e tenere sotto controllo la disinformazione.
Secondo il NyT, la scure del licenziamento si abbatte sull’organico di Alphabet, la capofila di Google. Per esempio, la contrazione di circa 12 mila dipendenti in servizio provoca un ridimensionamento del team di esperti reclutati per contrastare proprio la disinformazione.
Le azioni intraprese dal gigante californiano di Mountain View fanno scuola. Risponderebbero infatti alla medesima ratio gli annunciati esuberi del personale assunto da Twitter, rispetto alle esigenze produttive dell’attuale governance aziendale sotto la guida di Elon Musk. Nel frattempo Mark Zuckerberg, impegnato negli sforzi finanziari per implementare le funzionalità applicative della piattaforma Metaverso, sta razionalizzando le voci di spesa sui costi del personale.
Da un lato c’è la legittima scelta imprenditoriale legata alla momentanea congiuntura negativa del settore IT che sta costringendo gran parte delle Big Tech ad effettuare tagli alle spese, per frenare le ingenti perdite economiche di profitto. Ma, dall’altro, sullo sfondo si agita qualcosa di più profondo e complesso, da valutare per comprendere appieno le ragioni di queste decisioni.
I casi giudiziari aprono uno squarcio sulla sfida in atto
iamo in attesa di vagliare l’impatto applicativo dell’imminente esito giudiziario dei casi “Gonzales contro Google” e “Twitter contro Taamneh”. Da questi casi, a seconda dell’orientamento interpretativo formalizzato dalla Corte Suprema, potrebbe scaturire un aggravamento del regime di responsabilità a carico dei gestori delle piattaforme sociali, quando vengono condivise fake news.
Intanto stupisce che possa accadere un improvviso cambio di rotta rispetto allo sforzo profuso dai colossi del web, nel recente passato, per contrastare la disinformazione online.
Le Big Tech si sono molto attivate su questo versante, costituendo team di fact-checker e perfezionando, altresì, un sistema di rilevazione degli account falsi, integrato dal Temporal Interaction EmbeddingS (TIES). Contestualmente al progetto Supporting Independent Voices (si veda, su tutti, per esempio, Facebook).
Alle azioni concrete realizzate nel corso del tempo, si aggiungono, inoltre, svariati documenti programmatici con la formalizzazione di orientamenti virtuosi e comportamenti operativi improntati alla salvaguardia dell’ambiente virtuale. Il white paper (Online Content Regulation) o la prassi “soft” di apposite linee guida adottate, per affrontare la piaga digitale del flusso comunicativo inquinato da fake news, costituiscono un segno tangibile del prioritario obiettivo perseguito.
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Il cambiamento di approccio nella disinformazione online: perché ora
Ci si interroga perché avvenga ora un diverso approccio, in una fase di massima allerta. Infatti la crescita esponenziale della disinformazione, che prolifera anche a causa dei possibili effetti collaterali prodotti dal sofisticato perfezionamento delle tecnologie IA, alza il livello del pericolo. A testimoniarlo è il rischio crescente di testi falsi e/o fuorvianti immessi online.
Fin da ora le criticità sono già configurabili in astratto. Ma, allo stato attuale, non è possibile identificare con precisione quali saranno le dirette implicazioni del progressivo affievolimento della lotta alla disinformazione. Sul piano fattuale, si osserva la denuncia del New York Times di un possibile disimpegno da parte delle Big Tech.
Il supporto dei colossi digitali nel contrastare la disinformazione online si è rivelata fondamentale. Ha avuto l’innegabile merito di avere minimizzato, in qualche modo, i rischi provocati dal flusso comunicativo “contaminato” su larga scala.
Ma il disimpegno potrebbe aggravare le insidie digitali. I contenuti tossici immessi online potrebbero dunque raggiungere livelli ancora più pericolosi. E potrebbero provocare ripercussioni destabilizzanti, ancora non del tutto immaginabili sul grado di lesività dei potenziali fattori dannosi. Potrebbero arrivare a pregiudicare la sfera individuale delle persone, sino a minare integralmente la fiducia collettiva dell’opinione pubblica, compromettendo perfino la tenuta dei sistemi democratici.
Conclusioni
Nonostante le insidie prospettate, sono ancora in fase embrionale i primi timidi tentativi di regolamentazione della materia sul versante politico-istituzionale.
La Commissione europea, per esempio, ha recentemente pubblicato la bozza base del Codice di condotta rafforzato UE sulla disinformazione, firmato dalle principali piattaforme sociali e da vari inserzionisti del settore pubblicitario. Il Codice, però, si limita alla mera enunciazione teorica di principi generali, privi di vincolatività giuridica.
Allo stato iniziale di una una lunga e articolata procedura di approvazione si trova, altresì, la proposta di regolamento europeo: l’European Media Freedom Act. Destinata ad entrare in vigore a distanza di tempo, potrebbe vedere gli effetti applicativi, in tutto o in parte, vanificati dalla rapidità dell’innovazione tecnologica.
In attesa che si concluda il relativo iter istituzionale necessario per l’adozione definitiva del testo ufficiale, infatti, le tecnologie diventano sempre più sofisticate. E i rischi dovuti alla disinformazione online aumentano. I pericoli sono enormi, soprattutto perché in gioco è proprio la tenuta della democrazia.