È colpa della rete, è colpa della scuola, è colpa della famiglia, è colpa della società, è colpa dello Stato; ogni volta che la cronaca ci riporta un episodio tragico presumibilmente legato a una qualunque “challenge” sui social, si dà vita a infiniti dibattiti, spesso stantii, a una vera e propria “caccia” ai responsabili.
Sebbene non si possa negare una negligenza delle piattaforme nella verifica dell’età degli utenti, poiché in Italia un minore di 14 anni non può validamente acconsentire al trattamento dei dati online (dovrebbe quindi avere formalmente e ufficialmente l’avallo dei genitori prima di iscriversi e sottoscrivere un vero e proprio contratto) non si può non concentrarsi sulle responsabilità degli adulti e sul ruolo della Scuola.
Vivere onlife
I nuovi media consentono interazioni sociali, generano opportunità professionali, ma anche scambio di relazioni ed emozioni, uno scambio senza precedenti rispetto al passato; i dispositivi mobili e i social media rappresentano un aspetto esistenziale importante nella vita degli adulti e, in modo diverso, per adolescenti e ragazzi che oramai ne sono immersi quotidianamente sin dalla tenera età.
E in questa nuova realtà, complessa e, ancora per molti, oscura e da scoprire completamente, ci si può imbattere in comportamenti e contenuti potenzialmente dannosi, anche perché i ragazzi, pur essendo molto “smanettoni”, sottovalutano o non riescono a cogliere i risvolti legati ad alcuni comportamenti.
Ma, giovani e adulti, sono tutti ben attrezzati e formati per affrontare questa realtà virtuale e interattiva?
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La scuola in soccorso delle famiglie
È bene partire da una osservazione importante: i social network, chi più chi meno a seconda delle mode, sono pieni di bambini.
Eppure, grazie al Children’s Online Privacy Protection Act, una legge federale degli Stati Uniti in vigore dal 2000, è risaputo che è vietata la raccolta online di informazioni personali su minori di età inferiore ai 13 anni; e questo vale naturalmente per tutti i social media.
E allora la falla dov’è?
Forse è opportuno la riflessione tra hardware e software.
È ormai noto che il regalo di uno smartphone avviene sempre più presto: nella peggiore ipotesi (o migliore, dipende da quale lato ci si pone) con la “prima comunione” altrimenti all’inizio della scuola primaria. Da uno studio della Università degli Studi di Milano-Bicocca si nota poi che, al crescere del livello di istruzione dei genitori, l’arrivo dello smartphone viene ritardato; di conseguenza esistono condizioni sociodemografiche che favoriscono o meno non solo l’arrivo precoce del dispositivo ma anche il relativo livello di performance.
Inoltre, l’arrivo prematuro del device sembra che non comporti maggiore familiarità con la vita digitale; quindi, la insufficiente competenza digitale dei genitori che tendono ad anticipare sempre più i tempi, porta i bambini a porre l’attenzione su poche e semplici funzionalità, favorendo il consolidamento di abitudini d’uso focalizzate su attività poco complesse.
Aldilà quindi dei condizionamenti tra amichetti, il problema sembra concentrarsi sui genitori, come si vedrà in seguito.
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L’utilizzo distorto dello smartphone
L’utilizzo distorto dello smartphone dipende dall’educazione e non dalla tecnologia stessa.
E qui entra in gioco la scuola.
Da anni la scuola è ormai impegnata con gli studenti nella sensibilizzazione a un uso sicuro e consapevole dell’informatica, in quanto appartenere alla NET Generation o alla Next Generation non comporta automaticamente l’essere “competenti digitali”. Ecco perché, partendo dal PNSD (Piano Nazionale Scuola Digitale) e grazie ai finanziamenti europei relativi al Programma Operativo Nazionale “per la scuola – competenze e ambienti per l’apprendimento”, si è puntato a far riconoscere opportunità e pericoli, diritti e doveri legati all’utilizzo di elementi insiti della loro quotidianità.
Anche con l’introduzione, dall’anno scolastico 2020/2021, dell’educazione civica quale materia di tipo trasversale, si è voluto sottolineare l’importanza della Cittadinanza digitale e quindi della capacità di avvalersi consapevolmente e responsabilmente dei mezzi di comunicazione virtuali.
In tal modo la scuola non è più concentrata sulle mere competenze tecniche, ma l’attenzione si è spostata sulle competenze critiche e sulla sensibilizzazione rispetto ai possibili rischi connessi all’uso dei social media.
Bisogna allora lavorare sui genitori.
Innanzitutto, lo smartphone è stato inventato per un pubblico adulto non come un passatempo per i bambini: purtroppo le cose si son capovolte. Mamme e papà, senza generalizzare naturalmente, non sono pronti ad accompagnare i figli nella vita digitale: dovrebbero sapere che a nove anni non si può stare su TikTok.
I genitori hanno il dovere di capire (ed ecco che la scuola ritorna prepotentemente) il mondo social senza rimanervi attanagliati, poiché solo attraverso l’informazione e la formazione si possono “accompagnare” i figli.
A volte i bambini e i ragazzi si sentono soli, poiché vedono i grandi intorno immersi negli schemi più di loro stessi; e cercano considerazione altrove, in quanto vorrebbero essere ascoltati o qualcuno che chieda semplicemente come va.
D’altro canto, vietare non è una strada educativa, poiché spesso porta a trasgredire; i social mettono a disposizione diversi sistemi di protezione e poi esistono delle app (come Keepers ad esempio) che consentono di monitorare tutto ciò che accade sugli smartphone e rilevare ogni minimo segnale di allarme.
Conclusioni
Probabilmente le agenzie formative ogni tanto dovrebbero ricordare ai grandi (long life learning) che (usando le parole di Albert Bandura):
- L’apprendimento è un processo di acquisizione attiva.
- Gli individui mantengono con l’ambiente un rapporto di interazione reciproca.
E soprattutto aggiornarli sull’importanza delle life skills, in particolare riguardo all’empatia e quindi alla capacità di comprendere i sentimenti, le necessità, le difficoltà degli altri, a cominciare da quelli più vicini.