l'anniversario

Le foibe: la necessità della memoria nell’era digitale

Il 10 febbraio ricorre l’anniversario delle foibe del 1943. La questione istriano-dalmata è diventata oggetto di studio serio e di memoria condivisa. Discorso complesso quando di mezzo ci sono social, disinformazione

Pubblicato il 10 Feb 2022

Massimo Borgobello

Avvocato a Udine, co-founder dello Studio Legale Associato BCBLaw, PHD e DPO Certificato 11697:2017

foibe

Il 10 febbraio è il giorno del ricordo delle vittime delle foibe (1943): il dramma degli italiani infoibati e degli esuli istriani è oggetto di ricerca storica e, ovviamente, di strumentalizzazione politica.

Oggi, però, da argomento innominabile per accordi politici, la questione istriano-dalmata è diventata oggetto di studio serio e di memoria condivisa.

Il Giorno del ricordo: foibe ed esodo

L’articolo 1 della legge 30 marzo 2004, numero 92 prevede che “La Repubblica riconosce il 10 febbraio quale «Giorno del ricordo» al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale”.

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Oggetto della memoria condivisa non dovrebbe essere solo la – raccapricciante – verità sulle foibe e sulla pulizia etnica titina, ma anche il dramma degli esuli giuliano-dalmati.

Le due vicende sono unite nell’immaginario collettivo, ma la Storia è leggermente diversa.

Secondo il Vademecum per il Giorno del Ricordo, “nonostante il binomio foibe-esodo si sia saldato nel senso storico comune, diventando la più popolare chiave interpretativa del fenomeno, l’indagine storico sociale ha da tempo evidenziato un’ampia gamma di accadimenti e motivazioni. Certamente le foibe istriane nell’autunno del 1943 gettarono il seme della paura e continuarono a rappresentare la mancanza di tutela cui la popolazione italiana si sentiva esposta. Con la densità propria degli archetipi, la «foiba» esprimeva l’angoscia per il ribaltamento delle gerarchie, l’avversione per un potere arbitrario ma non tanto autorevole da esibire le sue condanne, la paura dell’annullamento individuale, comunitario, nazionale. A partire dal 1945, una persistente conflittualità con i Poteri popolari venne vissuta in ogni ambito dell’agire quotidiano, sui fronti delle confische (abitazioni, botteghe, officine, proprietà agricole, strumenti di produzione, tecnologie anche minime) delle collettivizzazioni, dei rifornimenti di beni di prima necessità, delle politiche culturali, scolastiche e religiose, della formazione dei giovani, del lavoro volontario e coatto”.

Per cui, “la politica ufficiale del regime comunista jugoslavo nei confronti degli italiani fu quella della «fratellanza italo-slava». Si trattava di una politica di integrazione selettiva. In primo luogo, non si rivolgeva a tutti quelli che si consideravano italiani, ma solo agli italiani etnici, considerati minoranza nazionale legittima. Gli italiani di origine slava (anche remota) dovevano venir ricondotti alla loro nazionalità originaria. In secondo luogo, si rivolgeva solo agli italiani «onesti e buoni», cioè quelli disposti a mobilitarsi per l’annessione alla Jugoslavia e la costruzione del socialismo. Gli altri erano considerati «residui del fascismo», «imperiali- sti», «sciovinisti» e «nemici del popolo», ai quali era riservata la repressione. In terzo luogo, aveva per interlocutore le «masse popolari», proletarie e contadine e non i «borghesi», per i quali non vi era posto in uno stato socialista. La politica della «fratellanza» quindi era limitata ad una minoranza della componente italiana, mentre la maggioranza non rientrava nei suoi parametri di accettabilità” (Vademecum, pag. 43).

Storia e archivi

L’articolo 2 della legge 30 marzo 2004, numero 92 prevede che “Sono riconosciuti il Museo della civiltà istriano-fiumano-dalmata, con sede a Trieste, e l’Archivio museo storico di Fiume, con sede a Roma. A tale fine, è concesso un finanziamento di 100.000 euro annui a decorrere dall’anno 2004 all’Istituto regionale per la cultura istriano-fiumano-dalmata (IRCI), e di 100.000 euro annui a decorrere dall’anno 2004 alla Società di studi fiumani. All’onere derivante dall’attuazione del presente articolo, pari a 200.000 euro annui a decorrere dall’anno 2004, si provvede mediante corrispondente riduzione dello stanziamento iscritto, ai fini del bilancio triennale 2004-2006, nell’ambito dell’unità previsionale di base di parte corrente «Fondo speciale» dello stato di previsione del Ministero dell’economia e delle finanze per l’anno 2004, allo scopo parzialmente utilizzando l’accantonamento relativo al medesimo Ministero. Il Ministro dell’economia e delle finanze è autorizzato ad apportare, con propri decreti, le occorrenti variazioni di bilancio”.

L’esigenza avvertita – correttamente – da legislatore del 2004 era dare dignità di tema di indagine storica alla questione foibe-esodo e di creare un polo culturale che fosse in grado di aggregare studi, materiali storici, testimonianze e memorie condivise, il più possibile aderenti alla realtà e non alla ricostruzione politicamente più favorevole all’uno o all’altro partito.

Una famosa fake – o forse  no -, l’articolo de L’Unità

Sui social gira da tempo un articolo pubblicato da L’Unità del 30 novembre 1946, a firma del senatore del Pci Piero Montagnani, all’epoca vicesindaco di Milano.

Il pezzo riportato nella “pubblicistica” social è il seguente: “Oggi ancora si parla di «profughi». Altre le persone, altri i termini del dramma. Non riusciremo mai a considerare aventi diritto ad asilo coloro che si sono riversati nelle nostre grandi città, non sotto la spinta del nemico incalzante, ma impauriti dall’alito di libertà che precedeva o coincideva con l’avanzata degli eserciti liberatori”.

L’articolo però proseguiva in questo modo: “I gerarchi, i briganti neri, i profittatori che hanno trovato rifugio nelle città e vi sperperano le ricchezze rapinate e forniscono reclute alla delinquenza comune, non meritano davvero la nostra solidarietà né hanno diritto a rubarci pane e spazio che sono già così scarsi.

Questi relitti repubblichini, che ingorgano la vita delle città e le offendono con la loro presenza e con l’ostentata opulenza, che non vogliono tornare ai paesi d’origine perché temono d’incontrarsi con le loro vittime, siano affidati alla Polizia che ha il compito di difenderci dai criminali. Nel novero di questi indesiderabili, debbono essere collocati coloro che sfuggono al giusto castigo della giustizia popolare jugoslava e che si presentano qui da noi, in veste di vittime, essi che furono carnefici. Non possiamo coprire col manto della solidarietà coloro che hanno vessato e torturato, coloro che con l’assassinio hanno scavato un solco profondo fra due popoli.

Aiutare e proteggere costoro non significa essere solidali, bensì farci complici. Ma dalle città italiane ancora in discussione, non giungono a noi soltanto i criminali, che non vogliono pagare il fio dei delitti commessi, arrivano a migliaia e migliaia italiani onesti, veri fratelli nostri e la loro tragedia ci commuove e ci fa riflettere. Vittime della infame politica fascista, pagliuzze sbalestrate nel vortice dei rancori che questa ha scatenato essi sono indotti a fuggire, incalzati dal fantasma di un terrorismo che non esiste e che viene agitato per speculazione di parte. Se invece di gettare il fango della calunnia sul volto martoriato delle genti slave, se invece di dimenticare che in quelle terre infuriò il terrore, ma fu quello delle camicie nere e dei loro complici reclutati sul luogo, se invece di metterci la grottesca maschera dell’ammazzasette, gradasso e impotente, se invece di annaffiare la malapianta dello sciovinismo, se invece di questa stupida politica, che corre sulla via di quella fascista, avessimo saputo scindere le nostre responsabilità di popolo italiano da quella dei comuni aguzzini, oggi sarebbe possibile una pacifica convivenza di italiani e slavi sullo stesso territorio”.

La parte estrapolata dal contesto, secondo la Wu Ming Foundation, andrebbe ricondotta allo storico Raoul Pupo, per essere ripresa, poi, dal cantante Simone Cristicchi.

Leggendo l’articolo con attenzione, però, il senso di resa dei conti e di – quasi – solidarietà con i “compagni” slavi, si percepisce molto forte; come è evidente il tono apologetico per i crimini commessi su innocenti.

Conclusioni

La Storia delle foibe e degli esuli istriani deve richiamare, in tutti noi, rispetto e cordoglio, al di là della tifoseria politica di appartenenza.

Basta parlare con parenti di esuli per capire l’enormità di quanto è successo: solo che per l’Italia del dopoguerra, con Trieste ancora contesa, la questione era letteralmente tabù.

Non furono accolti a braccia aperte, non furono accolti come connazionali in difficoltà.

I parenti delle vittime delle foibe non hanno potuto avere verità fino a dopo la caduta del Muro di Berlino: di lì in poi, finalmente, è crollato il limite invalicabile che imponeva il silenzio sulla questione.

Memoria significa dignità del riconoscimento, accoglienza della diversità di punti vista, comprensione del dramma: non  minimizzazione “perché tanto erano fascisti” o strumentalizzazione “perché furono uccisi dai comunisti”.

La questione giuliano-dalmata ha radici antichissime e non deve essere banalizzata: certamente, i profughi del 46’ vanno ricordati – e molti ricordano gli “italiani” – per come furono trattati quando dovettero scappare dalle loro case, senza quasi nulla.

I morti delle foibe devono ricordarci che, come cantava De Andrè, non esiste  – e, io credo, mai esisterà – un potere buono.

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