Agenda 2013

Le idee per risolvere l’analfabetismo digitale

Senza le competenze digitali, l’Agenda è irrealizzabile. E l’Italia è al primo posto per analfabetismo funzionale nel rapporto World Literacy Foundation. Ecco quattro vie per un programma: i mass media, il territorio, la contaminazione sociale, il percorso didattico.

Pubblicato il 17 Gen 2013

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Adesso che il decreto “Crescita 2.0” , con i suoi articoli sull’Agenda Digitale (o almeno su una sua parte), è diventato legge, si pone con urgenza la necessità di affrontare il tema, mancante, dello sviluppo delle “competenze digitali” della popolazione italiana.

Infatti, tra le critiche di molti osservatori e addetti ai lavori, non solo nel decreto originario mancava un programma organico di alfabetizzazione digitale, ma anche i tentativi di introdurre per emendamento degli interventi di ampio respiro non sono andati a buon fine. Per cui, urgente e ingombrante, ci ritroviamo il tema irrisolto di come far sì che gli Italiani possano acquisire (e mantenere) le competenze digitali necessarie per il percorso di innovazione che anche il nostro Paese sta intraprendendo.

Non si tratta di “alfabetizzazione informatica”, di apprendere l’uso del computer, ma, appunto, di sviluppo di competenze digitali, tali da consentire a ciascuno di noi di riuscire ad interagire con l’amministrazione pubblica in via telematica, come previsto dal Codice dell’Amministrazione Digitale a partire da gennaio 2013, di partecipare alle consultazioni online che i diversi ministeri stanno lanciando in rete, di usufruire delle iniziative di collaborazione società-istituzioni che si stanno avviando (come OpenCoesione). Di partecipare al processo, avviato anche con la nuova legge sull’Agenda Digitale, di costruzione delle “comunità intelligenti”, che richiederà competenze tali da consentire il pieno utilizzo delle opportunità della “rivoluzione digitale”. Ancor di più necessarie per i lavoratori, che dovranno utilizzarle per migliorare e innovare le proprie attività lavorative.

Si rende urgente, così, un “programma nazionale di alfabetizzazione digitale”, cioè un programma con una strategia organica nazionale, ma che possa svilupparsi e declinarsi su base territoriale e con le gambe delle mille iniziative che già attraversano il nostro Paese, e che si sviluppano oggi senza un raccordo, senza un obiettivo complessivo, senza una misurazione dei risultati conseguiti.

Un programma che sia quindi la cornice entro cui connettere le risorse e gli strumenti di un profondo cambiamento culturale. Non solo basato sul digitale.

Il cambiamento necessario, infatti, è molto più vasto e impatta anche con il superamento della “cultura televisiva” imperante, di cui la tv è l’emblema ma non l’unico contesto in cui si attua, per cui la partecipazione e la proattività, l’approfondimento e il pensiero critico, sono stati via via ostacolati e rimossi come valori fondanti dell’essere sociale.

L’intervento contro l’analfabetismo funzionale è, pertanto, il punto di partenza. Non tanto quello digitale, che in qualche modo ne deriva ed è il gradino necessario da salire secondo il rapporto del World Literacy Foundation 2012. Sempre secondo il rapporto, che stila anche una classifica delle nazioni con maggior tasso di analfabetismo, l’Italia risulta “prima” con il 47% della popolazione analfabeta funzionale (la seconda in questa classifica capovolta, è l’Irlanda, con il 22,6%).

Gli altri indicatori sul livello culturale del Paese e sulla qualità del sistema educativo (ad esempio le recenti classifiche OCSE/PISA o lo studio “The Learning Curve” dell’Economist Intelligence Unit) ci collocano in posizioni di retroguardia nelle graduatorie internazionali, e non sono altro che la testimonianza di quanto sia diventato strutturale questo stato di cose.

Un programma di alfabetizzazione unico, organico, ma non uno strumento unico. Il tema è troppo complesso e pervasivo (attraversa le generazioni, le classi sociali, le etnie) per essere affrontato con un unico strumento. Occorrono mille strumenti e percorsi diversi, organicamente correlati. Occorre una visione strategica del Paese nel medio termine, perché questi non sono processi i cui benefici si misurano nel breve termine. E se contribuiscono alla crescita del benessere del Paese (non solo dal punto di vista economico, ma anche sociale), i risultati non vengono subito. E non vengono per sempre. Occorre così una strategia di sviluppo e miglioramento continuo, basata sulla convinzione che si tratta di investire nel sistema educativo del Paese perché questo sistema crea valore per la società.

Nel concreto, si possono delineare alcune “vie” in cui articolare il programma:

a) la via mass-mediatica. Poiché ancora oggi sono i telegiornali i luoghi in cui si formano le opinioni di gran parte della popolazione, il ruolo della tv diventa fondamentale. Non si tratta di pensare soltanto a trasmissioni divulgative (negli anni passati fu ottima “Mediamente” così come oggi lo è “Superquark”), ma di riconcettualizzare e precisare la missione del servizio pubblico RAI, e di definire una programmazione complessiva che si rivolga ai diversi tipi di spettatori immaginando programmi televisivi specifici in cui “Mediamente” e “Superquark” sono senz’altro riferimenti da valorizzare;

b) la via della strada. Se l’alfabetizzazione è una necessità sociale, allora il territorio, i quartieri, devono accogliere servizi di assistenza per chi ha bisogno di supporto per godere dei propri diritti (servizi, informazioni, partecipazione). Si tratta dei punti di accesso pubblici assistiti, già istituzionalizzati in alcune regioni (Toscana) e che è necessario siano disseminati sul territorio, utilizzando gli spazi pubblici attrezzati già presenti (come biblioteche, centri anziani, uffici comunali) e realizzandone di nuovi (come le piazze telematiche);

c) la via della contaminazione. I percorsi più ricchi sono sempre quelli che consentono di contaminare e favorire scambi non preordinati, tra generazioni, gruppi sociali, gruppi etnici e i luoghi dove ciò può avvenire con maggiore facilità sono le piazze e le scuole. Piazze, però, telematiche, luoghi cioè dove l’utilizzo della rete diventa anche momento di condivisione e confronto, per cittadini e imprese, favorendo il coworking e riportando la creazione di valore nel quartiere. E scuole “aperte” (un tempo si dicevano “scuole del futuro” quando sembrava che la visione della scuola dell’autonomia avesse davanti uno sviluppo “sociale”) concepite come luoghi multifunzionali di apprendimento e di creatività plurigenerazionali;

d) la via del percorso “didattico”. Riportare la “scuola al centro” significa acquisire consapevolezza che i risultati negativi sono frutto di un modello di sistema sbagliato. L’intervento non può essere soltanto di tipo tecnologico (utile, ma non sufficiente), ma soprattutto metodologico e di sistema (e quindi a livello dei percorsi didattici, del ruolo e delle competenze dei docenti, dell’organizzazione “semplificata” e ridotta delle istituzioni scolastiche). Allo stesso tempo, bisogna prevedere interventi strutturati anche per le imprese (soprattutto le piccole e le micro) e per favorire le iniziative imprenditoriali con modalità di coaching, che orienti subito verso le abilità che sono anche definite di “Digital Transformation”, dove cioè innovatività e creatività sono messe al servizio della creazione di nuove iniziative. Il tutto strettamente intergenerazionale: le iniziative imprenditoriali degli “over 60” sono tra le più importanti per garantire alla società di godere della ricchezza di esperienze ed energie di una fascia di persone a rischio di emarginazione.

Poiché però l’obiettivo non è solo l’acquisizione ma anche il mantenimento, ecco che diventa importante realizzare un circolo virtuoso che, a partire dalla creazione delle condizioni di alfabetizzazione di base, punti a favorire lo sviluppo di attività sociali e professionali che utilizzano le tecnologie digitali (anche associative e imprenditoriali) e a valorizzare socialmente e politicamente le competenze acquisite dalla collettività, procedendo nello sviluppo di pratiche di Open Government (con definizione di luoghi e metodi di partecipazione inclusiva, consultazione preventiva sulle decisioni) e di qui tornando a stimolare l’acquisizione di nuove competenze.

Certo, è un’iniziativa ambiziosa e complessa, ma necessaria, per una realtà in cui oggi, ad esempio (dati ISTAT – dicembre 2011), il 39% della popolazione non ha mai navigato su Internet (24% è la media UE27) e quindi non è in grado di esercitare, se non attraverso mediatori, molti propri diritti.

E se così, può non essere parte fondamentale del programma di chi si candida al governo del Paese?

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