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“Le non cose” di Byung-Chul Han: una lezione di libertà nell’era digitale

In un’epoca dominata dai mezzi-fini, la metafisica, l’ontologia, l’estetica sono luoghi di recuperata libertà: perché in questi ambiti non esiste legge e si può tornare a discutere e contraddirsi. Il libro “Le non cose” di Byung-Chul Han è un libro che solletica il pensiero e ne abbiamo bisogno, oggi più che mai

Pubblicato il 02 Mag 2022

Lorenza Saettone

Filosofa specializzata in Epistemologia e Cognitivismo, PhD Student in Robotics and Intelligent Machines for Healthcare and Wellness of Persons

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In quest’epoca di predominio della tecnica, in cui il mondo pare abbia completato la desacralizzazione annunciata da Weber e dove sembra non esservi più spazio per obiettivi privi di un’immediata utilità razionale, tornano in auge le branche della filosofia più inattuali, l’ontologia e l’estetica.

Il libro “Le non cose” del filosofo Byung-Chul Han è un esempio di come le domande sull’Essere e sull’Arte stiano tornando alla ribalta. Non appaiono come necessarie, anzi, tornano proprio in qualità di antidoti all’ineluttabilità algoritmica, al determinismo, alla misura della digitalizzazione.

Etica relazionale e nuove tecnologie: le conseguenze morali del postumanismo

La filosofia come antidoto a un’esistenza dominata dal digitale

Cosa sia il bello e cosa definisca il reale sono domande che sembravano scomparse da secoli, messe all’angolo dalla semplicità della Certezza. Sembrava che l’unica funzione, perché pratica, della filosofia restasse quella propria della politica e dell’etica. Un piccolo spazio veniva riservato a chi si occupava di logica e di linguaggio. Per il resto il filosofo era uno strano centauro pronto ad amputarsi il tronco per sembrare totalmente qualcosa, totalmente cavallo, e per questo perdere la testa.

Eppure, le filosofie della metafisica tornano tra i dibattiti accademici e tra i libri destinati al grande pubblico proprio al climax della digitalizzazione e della virtualità. Complice la pandemia e l’eccezionale sviluppo di nuove tecnologie come la stampa 3D, il Deep Learning, i Supercomputer, l’Unreal Engine, il 5G, la blockchain, l’Internet delle Cose, la nostra esistenza sembra completamente dominata dal digitale.

Come accade nelle situazioni limite nelle quali la libertà umana compare quando è totalmente esclusa, la forza umana di trascendersi e liberarsi da un contesto in cui siamo totalmente determinati da malattia, schiavitù, apparente non scelta, anche oggi le domande sull’essere tornano quando tutto sembra a portata di dito, bidimensionale. Il mistero è l’asse z che ci dà modo di vedere prospetticamente, negando una posizione privilegiata. Eppure, sulle piattaforme online abbiamo a che fare tutti con una realtà completamente esposta, priva di profondità: la Luna non avrebbe lati nascosti essendo solo una circonferenza. Ecco forse perché si impone l’esigenza di ipotesi di mani nascoste, di complottismi con cui raccontare nuovi miti e misteri al di là delle informazioni. L’essere umano ha necessità di sentirsi dire che c’è qualcosa da scoprire, al di là del visibile deve esserci l’ignoto. Questo è “romanticizzare” diceva Novalis.

Il digitale e la necessità dell’ignoto

Ecco perché non ha senso pensare che Hegel negasse il mistero dalla sua realtà avendola ridotta alla razionalità. Quella Ragione è comunque infinita, non è la nostra logica: quella di Hegel è la negazione del principio di non contraddizione. La necessità dell’ignoto è il motivo per cui nessuno è mai riuscito davvero a stare chiuso in una stanza.

Io per prima durante i mesi di lockdown avevo sentito l’esigenza di scrivere un saggio pubblicato dall’Institute of Network Culture sull’arte, sulla verità, sulla scelta, sulla natura del complottismo e quindi del racconto, sull’io e sul tu in una realtà completamente assorbita dal web, come per fuggire, io per prima, da una routine fatta da collirio per occhi, lenti per schermare la luce blu dello schermo e poca spesa mensile destinata alla benzina.

Personalmente tendo ad essere antidualistica, nel senso che tendo a rifuggire spiegazioni duali, dividendo reale e virtuale, scienza e società, natura e cultura, mente e corpo, quindi per me è facile evitare di puntare il dito su uno dei due poli, rintracciando in esso il male e facendomi tranquillizzare da una nostalgia per il passato e per la speranza che spegnendo lo smartphone potrei tornare felice. Il mito delle origini tipico di molte culture, il senso di perdita per un’età dell’oro però riedificabile ha assunto i connotati di un mito legato all’analogico, di un ottimismo per l’esistenza di un senso pieno al di là della digitalizzazione. Ma non c’è nulla che ci convinca che sia davvero così, che la conversione al digitale comporti la perdita proprio di quel quid, divino o umano, capace di darci pienezza e senso.

Il libro “Le non cose”

Il libro “Le non cose” spesso mi ha trovata in disaccordo e questo è sempre un bene quando si tratta di filosofia. Lo scopo del filosofo è il dibattito, l’argomentazione libera e consapevole, è generare bivi alternativi al discorso, è non chiudere mai un capitolo con una serie di punti facili.

Nel testo ho ravvisato quel dualismo che io personalmente evito, quella tendenza apocalittica tesa a leggere nel web il “segno della bestia”. Io sono molto meno ottimista: il male lo trovo un po’ dappertutto. Non credo che le cose artigianali, così come quelle industriali o gli oggetti di un videogame siano o colpevoli o complici del raggiungimento dell’eccellenza umana. Cosa significa, del resto, “virtù” per un essere umano? Si dovrebbe partire da una definizione di umanità che accettiamo tutti, in grado di giustificare il fatto che felice sarà colui che porterà a eccellenza quella forma. Non siamo solo razionalità e non siamo solo corpo. Non siamo solo lavoro creativo, solo sentimento, non siamo solo natura, solo cultura, non siamo solo sostanza, solo azione, non siamo solo adattamento ai vari contesti in cui ci troviamo ad avere a che fare. Quindi, insomma, non vedo perché collezionare oggetti, togliendoli dalla loro strumentalità consueta, mi possa rendere più felice di passare il mio tempo a conversare su whatsapp con la mia amica in Olanda e fare una videoconferenza con studenti a cui insegno il valore del pensiero computazionale. Se posso sostenere tanto la tesi di Han quanto la sua antitesi, significa che la questione è aperta e che tale deve restare.

La tesi del libro è quella di specificare quanto l’essere umano abbia bisogno degli oggetti, di solidità, del fare, di legami vis a vis, di erotismo e cioè di poesia evocativa. Oggi, al contrario, tutto è informazione esplicita, pornografia, immaterialità, gioco, esperienza e questo priverebbe l’essere umano di appigli.

Mano e pensiero

Essendo in primo luogo mano e non pensiero, l’essere umano non ha più nulla da afferrare e tutto è liscio e orizzontale come lo schermo degli smartphone. Solo quando viene preso tra le mani, un oggetto, se ne capisce il suo uso. La mano ha tutta una storia nella storia della filosofia: mi tornano in mente la diatriba tra Anassagora e Aristotele, Giordano Bruno, ma anche gli stoici per i quali la comprensione era resa con il termine katalepsis, letteralmente afferrare e stringere nel pugno. Ma attenzione: non abbiamo affatto dismesso la manualità sullo schermo touch screen e nemmeno con il visore la abbandoneremo, anzi, l’indicale non è mai stato tanto utilizzato come oggi. Tra l’altro l’errore è credere che produttivi siano solo coloro che manipolano la materia. Noi creiamo anche solo mimando, anzi, soprattutto: gli oggetti che usiamo e il nostro corpo è per grandissima parte il prodotto della nostra immaginazione, della società, cioè della capacità umana di fingere simboli. Noi produciamo anche da distante, basti pensare a quando dirigiamo un’orchestra o quando gesticoliamo informazioni. La realtà non è solo un plasmare gli oggetti nel fango. Insomma, non vedo come potremmo smettere di essere umani a causa del drag and drop e a causa di acquisti sugli e-commerce: anche le banconote nel portafogli non esistevano, sono solo pezzi di carta che pensiamo abbiano valore: sono un’eggregore e quindi un atto di fede. L’essere umano non ha a che fare con quasi nulla di concreto, eppure tutto gli resiste, gli si oppone: soprattutto ciò che avviene sul web.

Le regole non eludibili del web

Fino a poco tempo fa il male erano il feticismo delle merci e la proprietà, mentre adesso viene esaltato il beneficio dell’avere cose. L’oggetto è buono perché, resistendo al nostro volere, offre una base, non tanto al realismo epistemologico, quanto alla costruzione di un’identità non narcisistica. Come anticipato non sono molto d’accordo nemmeno con questo punto: online mica possiamo tutto quanto! Anche qui, anzi, soprattutto qui, ci sono regole non eludibili: non posso scrivere sulla bio degli altri account di Instagram, non posso mettere più di un mi piace, non posso aggiungermi punti nel videogame, a meno che tutto questo non avvenga aggirando le regole di base, hackerando i sistemi, ma anche offline si possono aggirare le regole, si può corrompere o rimodellare quello che inizialmente mi opponeva resistenza. Il limite è solo la fisica: fisica che riguarda tanto il laboratorio, quanto ciò che da lì esce diventando realtà sociale.

La rigidità delle piattaforme è un dato di fatto, ecco perché non sono per nulla inclusive. Sono costruite per alcune strutture corporee e cognitive. Mio nonno ha problemi con il telecomando pensato per la smart tv. Insomma, è tagliato fuori dalle nuove cose. Non è vero che la tecnologia non complichi il nostro-essere-nel-mondo. A me sembra che generi le stesse divisioni che da sempre la tecnologia è portata a creare. L’uguaglianza è un miraggio. Nessuno può essere completamente adattato in tutte le situazioni.

Perché l’oggetto è fondamentale al nostro esistere

Certo, sono parzialmente d’accordo che web, IoT e robot provino a togliere all’essere umano le incombenze. LEsserci è cruccio e il fatto che la tecnologia tenda a eliminare molte problematicità dall’esistenza si ripercuote negativamente sull’esistere stesso.

Fichte lo affermava con chiarezza: il motivo per cui l’Io crea il Non-Io, la Materia è l’esigenza di sentirsi vivo: il divenire è continuo passaggio tra essere e non essere, mentre la stasi di un essere indifferenziato equivale alla morte. Inoltre, lo Spirito ha bisogno del suo opposto per non essere un concetto vuoto: si capisce cosa sia una cosa solo da ciò che non è. Soprattutto, però, L’Io crea il Non-Io perché abbia senso la morale. C’è bisogno di un ostacolo al volere dell’Io, cioè di un oggetto, altrimenti, senza la fatica, il merito non avrebbe significato. Lo Spirito per vivere ed esistere moralmente ha bisogno di resistenze, di sforzo nel superare gli ostacoli, in quella che deve restare una dialettica infinita.

Ecco perché l’oggetto è fondamentale al nostro esistere. Tuttavia, la crociata a difesa delle cose e contro la digitalizzazione tout court mi pare troppo semplice e ingenua. Ogni partito di questa disputa mi pare fondare il proprio manifesto su opinioni tutte condivisibili. Mi sembra che la questione assomigli alle antilogie di Protagora. Come tale lo scopo deve essere lo stesso del sofista: la difesa della tesi e al contempo dell’antitesi dimostravano l’inesistenza della verità e di valori assoluti, validi universalmente. Mi sembra, allora, che queste dispute tra apocalittici e integrati debbano comportare una rinuncia alla pretesa di verità. Non si deve cadere nello scetticismo o nel cinismo. La risposta deve essere un approccio più affettivo, compassionevole e, sì, giocoso nei confronti dell’incapacità umana di trovare una definizione univoca ad alcunché.

L’intelligenza artificiale e i crucci dell’esistenza

L’intelligenza artificiale toglie i crucci dall’esistenza: compiti ripetitivi, faticosi, smaltisce la memoria, ci fa conoscere molte cose senza doverci recare fisicamente sul luogo o in biblioteca. Questo, secondo Han, ci priverebbe della preoccupazione verso il futuro, la sua contingenza, la sua natura aleatoria. È vero: i sistemi automatizzati di apprendimento sembrano aver eliminato la “possibilità che no”, come direbbe Kierkegaard, cioè la preoccupazione di scegliere male. Deleghiamo la responsabilità della scelta all’IA, usiamo i big data per conoscere l’avvenire e impieghiamo algoritmi che ci restituiscano sempre lo stesso genere di contenuti. Non c’è più mistero nel futuro, tutto è controllabile, eseguibile, deterministico. La Provvidenza degli algoritmi è tutta esposta. Ma davvero la tecnologia ha eliminato l’angoscia? In realtà l’intelligenza artificiale non dà affatto un maggior senso di controllo, anzi…

Il problema è che siamo travolti da troppa informazione e troppa sorveglianza. Siamo assuefatti dai continui stimoli e da oggetti che dicono (gridano) solo “ego ego ego”. In ogni istante ci viene chiesto di mettere una reazione, di commentare, di condividere e in questa richiesta c’è sempre la nostra faccia, il nostro nome sotto ogni post che riguardi gli altri. In questo baccano non si è più capaci di dubitare. Essenzialmente oggi non serve, l’ego è già un dato di fatto, un’evidenza: è sempre lì, rotondo, che anche se non dice, c’è. Bei tempi quando ancora si dubitava, si criticava, quando c’era ancora la possibilità del genio maligno… il regalo al termine di tutta quella fatica, di quel cercare una soluzione agli ostacoli (spianati oggi dalla facilità dell’informazione), beh, il dono era il pensiero. Ora c’è solo Ego senza Pensare.

Anche io trovo manchi il silenzio. Tutti parliamo e quindi, nel rumore generale, non sentiamo più la nostra voce. Il baccano, paradossalmente, fa sì che tutti tacciano: è un tipo di silenzio imposto e che imponiamo attraverso il dire stesso. Per quanto si sia soli non lo siamo mai davvero, perché possiamo sempre spiare. Perché spesso siamo mossi da questa necessità di curiosare, sorvegliare, pertanto la progressiva perdita di privacy è ormai accettata, non ne vediamo un pericolo.

Anche noi assomigliamo ai dati

Se ai tempi dell’industria assomigliavamo ai prodotti in serie, oggi noi assomigliamo ai dati: anche noi informiamo su di noi e sugli altri, siamo surplus di comportamento. Non viviamo più alla maniera di ingranaggi, non viviamo nel meccanicismo delle epoche precedenti, siamo piuttosto soggettioggetti (la funzione non si può capire se non nel macro-contesto: la mela è tanto l’oggetto quanto il soggetto di frasi diverse) probabilistici. L’essere umano tende ad assomigliare alla modalità di produrre e agli elementi del paradigma scientifico dominanti.

I “mutanti digitali” fuggono i legami, i possessi e si dedicano solo all’esperire. Se in precedenza cercavamo l’oggetto e ci affezionavamo ad esso, oggi non è importante avere il libro, ma averlo letto. Ma è davvero un male? All’urgenza tipica dell’homo faber si sta passando all’homo ludens, alla sua leggerezza. Questo qui è un segno negativo, apocalittico? Nietzsche celebrava il nichilismo attivo dell’Oltreuomo, celebrava la distruzione dei valori, l’instabilità, il Nulla, perché solo da qui è possibile porre i propri scopi, senza più finti fardelli del dovere, del lavoro, di Dio, della morale a trattenerci. Il gioco, aiòn, anche secondo Eraclito era il modo in cui fu creato il mondo. Come un fanciullo si diverte a inventare nuove regole per giocare ai dadi, così iniziò il nostro mondo. Il filosofo spiegava così la coesistenza e la coincidenza di necessità e caso, di obbedienza alle regole e contingenza, di logos e creatività. Tutto nacque da un fanciullo che rise. Quindi perché squalificare questa componente ludica e non gioire del fatto che la nostra esistenza appaia meno obbligata, pesante?

Conclusioni

“Le non cose” è un libro che solletica il pensiero: sia quando si accolgono le opinioni del filosofo Byung-Chul Han, sia (e forse ancora di più) nel contro-argomentare le sue tesi. Hobbes diceva che la libertà si dà solo nel silenzio della legge. Ecco perché oggi, in un’epoca dominata dai mezzi-fini, la metafisica, l’ontologia, l’estetica sono essenzialmente luoghi di recuperata libertà: perché in questi ambiti non esiste legge e si può tornare a discutere e contraddirsi. Il resto del nostro mondo è dogma: non si può uscire dallo step-by-step algoritmico e pratico. Le nostre catene sono fatte con il buon senso dell’utilitarismo. Come in epoca Medievale i teologi si divertivano a pensare, a discutere nei luoghi lasciati liberi dai dogmi, su quaestiones che un uomo pratico odierno reputerebbe inutili, mere quisquilie e perdite di tempo, anche il nostro esistere torna ad avere bisogno dell’al-di-là della fisica per liberarsi e finalmente cadere in contraddizione. Questo il senso del ritorno delle filosofie più inattuali, in un mondo che pensava di aver bandito ignoto e carisma.

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