la riflessione

Le nostre vite gestite dalle Big Tech: le sfide per cultura, democrazia e regolazione

In un contesto in cui la comunicazione cessa di essere di massa e diventa struttura portante della nuova formazione ‘sociale’, la delega alle Big Tech della presa in carico di valori universali quali pluralismo e libertà di espressione ha implicazioni su più livelli. Ma istituzioni e governi faticano a comprenderle

Pubblicato il 30 Lug 2021

Mario Morcellini

Professore ordinario emerito in Sociologia della Comunicazione e dei Media digitali alla Sapienza Università di Roma

videoregistrazione da remoto

Neppure un evento traumatico quanto il Covid è riuscito a imporre un momento di svolta e stimolazione del dibattito inerente alle grandi compagnie della comunicazione digitale e il loro potere sulle società.

È come se la vittoria degli Over the top sul terreno della conquista dell’attenzione dei pubblici venga percepita senza conseguenze per capire il tempo in cui viviamo, entro quali meccanismi di socializzazione alleviamo i nuovi venuti e quanto le forme della società siano radicalmente cambiate.

Le big tech ora fanno paura: così i Governi si organizzano, a Occidente e Oriente

Eppure, stiamo parlando di tematiche che riguardano la politica, la dottrina democratica degli Stati e addirittura il nodo sovranità[1].

In questa riflessione[2] si insisterà allora su alcuni campi specifici in cui osservare l’impatto della nuova formazione sociale ispirata al potere di poche company, partendo anzitutto dalle esitazioni del mondo del diritto e da quello della regolazione democratica del nuovo: è in genere il combinato disposto tra elaborazione giuridica e prontezza istituzionale a evitare una mancata tutela dei diritti individuali.

GAFA, i quattro colossi che gestiscono le nostre vite

Negli ultimi anni, quattro sono i giganti del web che più hanno rivoluzionato il mondo, i “GAFA”: Google, Apple, Facebook ed Amazon si contendono la leadership nel campo digitale. Facendo leva sulla convergenza tra informatica, telecomunicazioni e industria dei contenuti essi appaiono come l’arma più imponente di egemonia culturale del nostro tempo (Galloway 2017). I prodotti sviluppati, sia nel campo dei servizi online che dal punto di vista degli smart object (l’esempio più chiaro è dato dagli smartwatch al polso, o gli smart assistant sui mobili delle nostre case) costituiscono le macchine culturali del nostro tempo (Mezza 2018), riconfigurando il modo di approcciarci alla vita quotidiana, all’informazione, allo studio e alla conoscenza[3].

A fronte di questi imponenti cambiamenti, così incalzanti da lasciare attoniti i ricercatori di ogni campo, quanto hanno fatto le istituzioni e la ricerca scientifica interdisciplinare per reggere il passo con questa evoluzione? È molto recente, troppo recente, ad esempio, la presa d’atto che abbiamo di fronte una “società delle piattaforme” (Van Dijck et al. 2018), in cui pochi soggetti privati impattano direttamente sull’organizzazione della vita individuale e di quella pubblica, alterando o ridisegnando le prassi delle stesse istituzioni sociali. Questo assunto è solo apparentemente scioccante poiché esemplificato di recente da una serie di fatti che ne hanno dato prova: Capitol Hill è solo l’ultimo, e quello che più ha provocato un rialzo non congiunturale dell’attenzione pubblica.

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La libertà di espressione nell’era degli algoritmi

La vicenda del bando censorio di Twitter nei confronti di Trump, dopo i messaggi e le dichiarazioni che eccitavano gli animi degli assaltatori di Capitol Hill, contro la proclamazione di Biden, ha riacceso i riflettori sul tema della libertà di espressione nell’era degli ‘algoritmi di ultima generazione’ in versione social. In molti, di fronte alle esternazioni dell’ex Presidente, hanno alzato la voce invocando, come il famoso mugnaio di Potsdam di brechtiana memoria, l’intervento di un giudice a Berlino e salutando la decisione di Twitter (poi emulata, in varie forme, da Facebook, Instagram, Snapchat, Twitch, Youtube, nonché da Apple, Google e Amazon che hanno rimosso dai loro server il social dell’ultradestra Parler) come l’agognato verdetto pronunciato contro l’imperatore Federico II di Prussia. In altre parole, si è delegato ai Codici etici aziendali delle Big Tech, e alle loro corti surrogate come l’Oversight Board di Facebook, la presa in carico di valori universali quali pluralismo e libertà di espressione, vale a dire i fondamenti essenziali delle società democratiche.

Sullo sfondo, si stagliano domande che dovrebbero suonare retoriche, ma che invece restano inevase in tempi di asimmetria patologica fra organi politico-istituzionali e superpoteri tecno-economico-finanziari[4]. Le regole delle piattaforme, infatti, impattano direttamente sulla costruzione dei valori pubblici, poi riconfigurati dalla lente high-tech; come affermano gli autori del volume The Platform society, esse «offrono servizi personalizzati e contribuiscono all’innovazione e alla crescita economica, aggirando in modo efficiente le organizzazioni esistenti, le normative ingombranti e le spese inutili» (Van Dijk et al. 2018).

Il chiaro legame tra social network e costruzione del consenso

Se a livello di movimento di opinione emerge con chiarezza una presa di coscienza del potere oligarchico e monopolistico delle big tech, istituzioni e governi hanno ancora molta strada da percorrere per opporre una voce decisa contro il loro strapotere. Gli avvertimenti della comunità scientifica, a quanto pare, non hanno ancora un vigore tale da essere ascoltati dalle istituzioni preposte a regolare il mercato della comunicazione e della concorrenza, forse per una mancanza di unitarietà e convergenza interna che implichi un chiaro percorso di responsabilizzazione su questi temi. È soprattutto dal punto di vista politologico, infatti, che si nota una difficoltà a prendere consapevolezza dell’eppur limpido link tra social network e processi di costruzione del pubblico consenso, anche se non mancano brillanti e rare eccezioni, come la ricerca di Ateneo che Beniamino Caravita dirige presso Sapienza, e che mira ad unire gli sforzi di giuristi, fisici, politologi e scienziati della comunicazione su questi annosi temi.

Ragionare sul nesso tra social network, consenso politico e istituzioni politiche chiama in causa una ricognizione preliminare sull’impatto della nuova tecnologia sulle dinamiche sociali e culturali. L’interrogativo preliminare è come il mezzo in sé incida sul comportamento dell’individuo nelle relazioni “orizzontali” tra individui e gruppi di individui e in quelle “verticali” con le istanze del potere politico ed economico. È necessario indagare quale impatto produce il targeting sui social network nella comunità: in particolare il cosiddetto granular microtargeting, specialmente nel campo politico-elettorale. Questi aspetti, infatti, spingono verso la segregazione dell’utente dei social nelle cosiddette echo chambers oppure in filter bubbles, a seconda del tipo di algoritmo – basato o meno sulle scelte dell’utente – in cui si confronta solo con persone con opinioni affini o identiche, rinforzando drammaticamente la selettività nell’esposizione e percezione online.

È necessario dunque mettere in luce gli effetti dell’utilizzo dei social network nella relazione degli utenti con i soggetti economico-politici per comprenderne gli esiti sul piano della possibile alterazione (fake news), sterilizzazione del dibattito e quindi della manipolazione della libertà di convincimento politico finalizzata all’esercizio di un voto libero (e segreto).

Gli algoritmi e la crisi del concetto di pluralismo: quali (pericolose) conseguenze

Difatti, gli algoritmi dei motori di ricerca e degli Internet provider impiegati nella gerarchizzazione dei contenuti visualizzati dall’utente in modo da intercettarne le preferenze hanno messo in crisi dapprima il concetto di pluralismo, centrale nel processo di formazione delle società democratiche; successivamente hanno inondato lo spazio pubblico di pericolosi fenomeni di propaganda, determinando una radicale criticità sull’incontrollabilità dei flussi di informazione e le relative conseguenze per la stessa democrazia (Lokot, Diakopulos 2017).

È suggestivo registrare che il carattere vistosamente censorio del colosso big-tech sia assurto a piena evidenza in merito all’attacco portato a Capitol Hill, luogo altamente simbolico, dove solo pochissimi anni prima Mark Zuckerberg, fondatore di Facebook, è stato chiamato a spiegare i fatti di Cambridge Analytica, la più imponente violazione di dati privati da parte di una corporation di cui oggi siamo a conoscenza[5]. In quella sede Facebook dovette inoltre, solo nelle repliche, ammettere pubblicamente la sua responsabilità in merito a dati e contenuti pubblicati sulla piattaforma e dunque riconoscere di essere a tutti gli effetti una media company. Non più un mero host, come a lungo e in precedenza veniva assicurato, ma una controparte attiva nei processi che intervengono nella pubblicazione e diffusione dei contenuti[6].

Lo scandalo Cambridge Analytica e la misura del potere degli OTT

Lo scandalo Cambridge Analytica è un caso utile a illustrare la tesi di un’inadeguatezza delle comunità scientifiche a comprendere e poi criticare il potere degli Over the Top. Le contromisure adottate da Facebook per impedire il ripetersi delle manipolazioni condotte da CA, infatti, hanno comportato la disabilitazione dell’accesso ai dati della piattaforma da parte di entità terze, in gran parte centri di ricerca universitari. Pur subendo questa arbitraria limitazione delle proprie possibilità di ricerca, molti studiosi hanno accettato di sottoporsi a un processo di autenticazione e autorizzazione per riottenere l’accesso ai dati, anziché evidenziare il fatto che le soluzioni individuate da Facebook, se da un lato avessero limitato gli abusi da parte di terzi, dall’altro non sarebbero intaccati minimamente le capacità di Facebook stessa di raccogliere ed elaborare dati estremamente sensibili.

Alla luce di quel che può essere dunque contrassegnato come un momento di svolta nella storia dell’informazione 2.0, non si può non guardare a vicende che hanno giocato un risvolto attivo e profondo sulla politica internazionale, in particolare in relazione alla campagna elettorale USA del 2016, al termine della quale diversi Osservatori hanno messo sotto accusa i social network, e in particolare Facebook, per aver facilitato la circolazione di notizie false che avrebbero favorito il candidato repubblicano[7]. Ma è rilevante anche la campagna per la Brexit, in cui eserciti di profili bot hanno dato risonanza artificiale al voto proLeave (Bastos, Mercea 2017; Bessi, Ferrara 2016).

Conclusioni

Occorre allora avvicinarci con estrema attenzione all’interazione fra soggetti e comunicazione, scarsamente regolata da valori circostanti e dunque per molti versi disintermediata. La comunicazione cessa di essere bruscamente definita di massa e diventa personale e persino personal; dismette l’abito di sovrastruttura per conquistare quello di struttura portante della nuova formazione ‘sociale’ che si intravvede, così come slitta da reale a virtuale, da esperienza fisica ad una continua smaterializzazione. C’è quanto basta per cominciare a parlare con maggior precisione di cambiamenti antropologici che coinvolgono lo spazio e il tempo, la mente e il corpo, avvicinandoci a una diversa ricostruzione del complicato rapporto tra strutture sociali in crisi e comunicazione che si avventa su tutti i vuoti a perdere dell’esperienza storica contemporanea. Ma in generale, è indispensabile introdurre idee e matrici esplicative nuove quanto i fenomeni che abbiamo di fronte.

Bibliografia

Bastos, Marco, and Dan Mercea. “Parametrizing Brexit: mapping Twitter political space to parliamentary constituencies.” Information, Communication & Society 21.7 (2018): 921-939.

Bessi, Alessandro, and Emilio Ferrara. “Social bots distort the 2016 US Presidential election online discussion.” First Monday 21.11-7 (2016).

Galloway, Scott. The four: the hidden DNA of Amazon, Apple, Facebook and Google. Random House, 2017.

Lokot, Tetyana, and Nicholas Diakopoulos. “News Bots: Automating news and information dissemination on Twitter.” Digital Journalism 4.6 (2016): 682-699.

Mezza, Michele. Algoritmi di libertà: la potenza del calcolo tra dominio e conflitto. Donzelli Editore, 2018.

Van Dijck, José, Thomas Poell, and Martijn De Waal. The platform society: Public values in a connective world. Oxford University Press, 2018.

  1. Per un approfondimento su questo tema cfr. Mediacovid. Ritorno alla mediazione, in “Formiche”, n. 170, giugno 2021.
  2. Questo saggio completa il discorso avviato nell’articolo Big Tech, i ritardi della politica sono rischi per i nostri diritti, già pubblicato su questa Rivista in data 21 aprile 2021.
  3. Interessante sul tema dell’intelligenza artificiale il recente numero monografico della rivista “Comunicazionepuntodoc” Intelligenza artificiale e conseguenze sociali, Fausto Lupetti, Bologna 2021.
  4. Su questo punto è molto interessante il punto di vista di Luciano Floridi in un’intervista all’Huffington Post “I social sono nell’infosfera. Servono nuove regole: ” https://www.huffingtonpost.it/entry/intervista-floridi_it_5ffeacd2c5b6c77d85eb5143
  5. In generale, includendo anche i governi, la più grande violazione di dati privati è avvenuta tra il 2001 e il 2013 con i programmi svelati da Snowden.
  6. Il principio della neutralità (e dunque non responsabilità) degli intermediari, asse portante della dottrina Clinton sul digitale formulata nel 1997 con il Framework for Global Electronic Commerce, rappresenta la norma principale che ha consentito una crescita non regolata delle grandi piattaforme digitali. Questo principio, codificato nella legislazione comunitaria con la Direttiva e-Commerce del 2000, è finito di recente sotto attacco da parte della Commissione Europea con la presentazione delle proposte di Regulation note come Digital Services Act e Digital Markets Act. Esse mirano a definire regole particolari per quelle che vengono definite “very large platforms”. Regole che comprendono l’obbligo di “supervisione pubblica” degli algoritmi, nonché una serie di disposizioni che configurano un ruolo proattivo delle piattaforme nella regolazione dei contenuti immessi sui propri server.
  7. Cfr. la ricerca del Pew Research Center: https://www.journalism.org/2016/05/26/news-use-across-social-media-platforms-2016/

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