mis-informazione e linguistica

Le parole sono importanti, anche se straniere: ecco come usarle in modo corretto

Da triage a lockdown passando per smart working, sono tanti i termini stranieri ormai entrati nel nostro quotidiano. E amplificati dall’uso nei social, dove pure abbonando i puristi. È giusto e corretto? Potrebbero essere sostituiti da parole nella nostra lingua? Ecco perché, come sempre, in medio stat virtus

Pubblicato il 18 Giu 2020

Vera Gheno

sociolinguista specializzata in comunicazione digitale e traduttrice dall'ungherese. Docente a contratto presso l'Università di Firenze, collaboratrice Zanichelli

Photo by Raphael Schaller on Unsplash

“Non usate anglicismi o americanismi. Non lockdown ma chiusura, non triage ma smistamento, non smart working ma telelavoro, … Amate la lingua italiana! (Francesco Sabatini, linguista e presidente onorario dell’Accademia della Crusca)”.

Così si legge in un post pubblicato da una giornalista professionista, Mariella Colonna, sul suo profilo Facebook il 17 maggio 2020, e che nel momento in cui scrivo consta di più di 56.000 condivisioni e 2.500 reazioni positive.

L’enorme risonanza ricevuta da questo messaggio a mio parere evidenzia l’esistenza di un nervo scoperto sulla questione dell’uso dei forestierismi – in particolar modo degli anglismi – in italiano. Su questo, tornerò nel seguito.

L’enigma della citazione su internet

Per il momento, vorrei soffermarmi sul post. Come prevedibile, molti rilanci e ricondivisioni definiscono queste righe una “dichiarazione” del professor Sabatini, come se fosse un virgolettato. Poiché io, per ragioni di studio e di lavoro, mi misuro spesso con le parole altrui, tengo molto alla precisione filologica delle citazioni, soprattutto quando vengono fatte passare per essere letterali, cioè tali da riportare esattamente le parole che sono state pronunciate (o scritte); per questo, la prima cosa che ho fatto è stata chiedere alla persona che aveva pubblicato il post la fonte della dichiarazione. Devo essere sincera: mi pareva strano che un linguista raffinato come il professor Sabatini potesse avere fatto un’affermazione così semplicistica, cadendo in una vera e propria falsa dicotomia; non è che usare anglismi o americanismi equivalga per forza a non amare la lingua italiana, nella quale, per inciso, si ritrovano parole derivanti da almeno una trentina di lingue diverse. In più, la citazione contiene anche un errore: triage è francese, non inglese: possibile che un linguista competente come Sabatini abbia commesso una svista così marchiana?

Prima di continuare, vorrei riportare qui un passaggio del bel libro del professore “Lezione di italiano“ (2016, Mondadori), con il cui contenuto sostanzialmente concordo:

A questo punto, è bene ricollocare il dibattito sotto la luce di principi più generali che dovrebbero stare a cuore al parlante e trasformarsi in suoi criteri di condotta. Sono sostanzialmente quattro, e tutti di ugual valore per un abitante della moderna polis, e potrebbero essere diffusi in vari luoghi pubblici (uffici, scuole…):

  • “Sei veramente padrone del significato di quel termine?”
    “Lo sai pronunciare correttamente?”
    “Lo sai anche scrivere correttamente?”
    “Sei sicuro che il tuo interlocutore lo comprende [sic]?”

Quando anche uno solo di questi requisiti non è rispettato, vuol dire che:

  • “stai facendo una brutta figura”;
    “oppure usi quel termine per pigrizia”;
    “oppure disprezzi il tuo interlocutore”.

Il cittadino semplicemente seguace dell’andazzo potrebbe così accorgersi di essersi adagiato nell’uso di un italo-anglismo liquido e di avere, in sostanza, delegato ad altri parlanti, di un altro popolo, l’interpretazione esatta del mondo mediante le parole. Oppure, saprà che implicitamente ha rifiutato di far parte della comunità in cui vive così com’essa è e che non intende impegnarsi a migliorarla.

Anche in questo brano Sabatini dichiara di essere sostanzialmente contrario all’abuso degli anglismi, ma la sua posizione appare molto più ragionata di quella espressa nelle poche righe pubblicate su Facebook. Credo che a questo punto sia comprensibile il mio disagio nel leggere quel post: non mi basta che Sabatini dica “più o meno la stessa cosa”, perché in un caso dà un’opinione motivata, nell’altro sembra “sparare” un’affermazione apodittica e pure imprecisa.

Una ricostruzione dei fatti e l’importanza della rete

Poiché, nonostante la mia richiesta, non ho ricevuto informazioni in merito alla fonte della citazione, ho continuato le ricerche, e grazie al contributo della mia preziosissima rete di relazioni social, ho ricostruito la probabile dinamica dei fatti: la pseudo-citazione letterale sembrerebbe in realtà essere il “collage” di vari interventi del professore durante la trasmissione televisiva “Unomattina in famiglia”, alla quale ha la consuetudine di partecipare con un “Pronto soccorso linguistico”: brevi pillole di consulenza linguistica in base alle richieste che gli arrivano dagli spettatori. E i consigli che aveva dato, riguardo alle tre parole citate nel post, sono certamente più articolati (per quanto molto semplici: siamo pur sempre in televisione!) delle parole che gli sono state attribuite.

In particolare, per lock down Sabatini propone coprifuoco o serrata obbligatoria (cfr. qui circa a 1h53’). A proposito di smart working, il professore dice «sappiamo che è molto pesante […] anche se è uno strumento necessario». Dopodiché cita come possibili traduzioni lavoro agile, telelavoro, lavoro da casa: «sono espressioni che dobbiamo inserire stabilmente [nella nostra lingua]» (cfr. qui circa a 1h07’). Per quanto riguarda triage, Sabatini dapprima spiega che si tratta di un termine francese, entrato in italiano da diverso tempo, che in francese significa fondamentalmente smistamento, dopodiché concorda con lo spettatore sulla possibilità di aggiungere, negli ospedali, la traduzione italiana accanto al termine francese.

In generale, il professore, nelle varie registrazioni (anche altre, oltre a quelle citate), ritorna spesso sulla questione dei «forestierismi arrivati d’urgenza e spesso innecessari», ma non dice nulla di così tranchant come farebbe intendere il post. Nel frattempo, quest’ultimo continua a ricevere una marea di commenti positivi. Evidentemente, è davvero funzionale a un enorme, ingombrantissimo bias di conferma dell’idea assai diffusa che gli anglismi siano il male tout court.

In medio stat virtus

Vorrei precisare che, quando mi capita di parlare della questione degli anglismi in italiano, tendo a non assumere posizioni estremiste: non sono né pro anglismi senza nessun distinguo né contraria al loro uso in ogni caso; piuttosto, traccerei una linea di demarcazione molto netta tra anglismi necessari e innecessari, soprattutto riflettendo sul motivo che porta a usarli, di volta in volta.

Quando la volontà è quella di essere poco comprensibili (come succede spesso in politica) o di “darsi un tono” (come in certi contesti professionali, nei quali sembra che se non dici “Il how to di questo project richiede delle skills…” non sei nessuno), sono la prima ad avversare gli anglismi: ma quello non è nemmeno inglese, è… inglesorum. In generale, ci tengo a ribadire che la mia opinione è in linea con quanto affermava Tullio De Mauro: il miglior modo di amare la propria lingua è quello di perseguire la via del plurilinguismo; chi “usa male” l’inglese, per scopi diversi da quelli della chiarezza comunicativa, di solito lo fa perché non conosce bene quella lingua (come altre), e quindi le assegna una sorta di status speciale, quasi mistico. In altre parole, chi conosce bene l’inglese tende a usarlo meno “a vanvera”.

L’importanza delle rettifiche

So che questo mio contributo di parziale rettifica cadrà più o meno nel vuoto, perché in generale qualsiasi tentativo di debunking, ossia di decostruzione di una notizia falsa o data in maniera imprecisa, è notoriamente meno efficace della notizia falsa o imprecisa in sé.

Per fare alcuni esempi che mi hanno coinvolta in maniera diretta, rimanendo in ambito linguistico vorrei ricordare che ancora adesso, a distanza di anni, mi trovo a controbattere a persone che pensano che petaloso sia stato inserito nei dizionari dalla Crusca (due informazioni false: petaloso non è nei dizionari, se non nella sezione Neologismi del Vocabolario Treccani, e non è compito della Crusca scegliere i neologismi da inserire nei vocabolari, tanto più che la Crusca non svolge attività lessicografica dal 1923); che Laura Boldrini pretendesse di farsi appellare presidenta (era l’invenzione di alcune testate giornalistiche a lei ostili, che peraltro non hanno mai pubblicato alcuna smentita; la stessa falsa convinzione ritorna anche nei commenti al post succitato, dove un utente scrive, questa volta per screditare Sabatini: «E’ la stessa persona che ha benedetto i deliri boldriniani? PresidentA al posto di presidentessa? Ministra al posto di Ministro?»); che gli accademici abbiano dichiarato esci il cane forma corretta (anche lì, pasticciaccio brutto compiuto da una testata giornalistica che aveva riportato in maniera parziale il contenuto di una risposta di consulenza pubblicata sul sito web della Crusca, che diceva semplicemente che l’uso transitivo di verbi che sono intransitivi secondo la norma dell’italiano è stabilmente presente in molti dialetti e italiani regionali meridionali).

Il fenomeno della recrudescenza della bufala è forse paragonabile a quello che il linguista Federico Faloppa, nel suo libro fresco di stampa per UTET, #Odio. Manuale di resistenza alla violenza delle parole, cita come “effetto diavolo” o “corna del diavolo”, «un bias cognitivo per cui le informazioni negative sono più resistenti di quelle positive, e tendiamo quindi ad attribuire loro un peso sproporzionato rispetto al quadro generale». In questo caso, possiamo dire che le informazioni errate o distorte sembrano molto più resistenti di una qualsiasi smentita, probabilmente proprio perché funzionali a qualcosa a cui le persone vogliono credere.

Quindi, in breve: prevedo che queste righe non cambieranno minimamente l’opinione della maggior parte di coloro che, leggendo il post su Francesco Sabatini, hanno provato una profonda soddisfazione: la soddisfazione dell’“l’avevo detto io!”; e leggendo i commenti sotto a quel post, c’è poco di cui sorridere. Uno dei commenti che mi hanno colpito maggiormente è di un utente che scrive «Grazie prof io odio le altre lingue non le capisco Grazie». Un bell’esempio di xenofobia, cioè di odio per ciò che non si conosce, rivelatore di una mentalità ristretta in maniera allarmante, per quanto mi riguarda.

Come la vedo io

A questo punto, vorrei dire la mia opinione non solo riguardo ai tre termini citati nel post da cui sono partita, ma anche per aggiungere alcune considerazioni su altre tre espressioni. Vediamole in ordine.

  • Lockdown: le possibili traduzioni sarebbero blocco, chiusura, serrata, isolamento, isolamento domiciliare preventivo, clausura. Tutti questi termini sono sicuramente molto più “trasparenti” dell’inglese. Tuttavia, ho la sensazione che per una parte di coloro che stanno vivendo questa esperienza, il termine inglese sia diventato quasi il nome proprio della situazione conseguente alla pandemia. Non un lockdown, una chiusura qualsiasi, ma il Lockdown. Un po’ come quando si danno i nomi agli uragani: tutti sappiamo cosa fu Katrina. Quindi, è come se la trasparenza semantica della parola fosse diventata una questione secondaria rispetto all’icasticità del suo nome. Secondo me, a questo punto è abbastanza inutile chiedere che le persone sostituiscano il termine con un corrispettivo italiano. Anche perché, mentre lockdown lo riconduciamo immediatamente alla situazione appena vissuta da tutti noi, se usiamo “chiusura” o un altro qualsiasi dei termini elencati, rimane il bisogno di specificare qualcosa: “durante la chiusura (conseguente all’emergenza COVID-19)”… Infine, teniamo conto di un ultimo fattore: quando le notizie cominciavano ad arrivare da Wuhan, a gennaio, già le testate internazionali parlavano di lockdown. Sarebbe stato difficile contrastare un termine così diffuso a livello internazionale. Se da una parte, del resto, hanno una certa responsabilità i mezzi di comunicazione di massa, che hanno assunto il termine derivato dall’estero senza pensare a un’alternativa italica, è anche vero che lockdown è stato, in un certo senso modo, “adottato” dalla comunità dei parlanti per nominare un vissuto difficile da comprendere per chiunque, una situazione senza precedenti.
  • Triage: termine francese, dal verbo tri(er) ‘fare una scelta’, prima occorrenza in italiano 1992 (Zingarelli 2020), definito come “metodo di classificazione delle urgenze in un pronto soccorso, in modo che vengano assistiti prima i pazienti più gravi”. Intervenire a posteriori su un francesismo usato in campo medico a livello internazionale (per esempio, in inglese, in tedesco e in ungherese) e molto noto, anche in Italia (e da tempo, come testimonia la data di prima attestazione), sia a chi lavora in campo ospedaliero sia a chi, più modestamente, è magari fan di qualche telefilm medico (o medical drama), mi pare un filo anacronistico. L’idea del professor Sabatini di aggiungere alla segnaletica la traduzione italiana, invece, mi pare, nel caso, più condivisibile.
  • Smart working: qui la storia si fa più complessa e coinvolge questioni più ampie che non la semplice linguistica. Intanto, è un termine di cui si parla da anni; già nel 2016 il gruppo Incipit della Crusca aveva approvato la scelta istituzionale di chiamarlo “lavoro agile” (anche se all’epoca venne osservato che questa espressione sarebbe più precisamente la traduzione di agile working). Il lavoro agile è «una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato caratterizzato dall’assenza di vincoli orari o spaziali e un’organizzazione per fasi, cicli e obiettivi, stabilita mediante accordo tra dipendente e datore di lavoro; una modalità che aiuta il lavoratore a conciliare i tempi di vita e lavoro e, al contempo, favorire la crescita della sua produttività». Questo, peraltro, non corrisponderebbe al telelavoro, precedentemente normato da leggi non emergenziali. Come spiega Licia Corbolante, «Il prefisso tele- (“da lontano”, “a distanza”) si ritrova anche in telelavoro, una forma di lavoro da remoto introdotta nella legislazione italiana nel 2004 e che si differenziava dall’attuale lavoro agile perché la postazione di lavoro era fissa e predeterminata nel contratto (con il lavoro agile invece si può lavorare dove si vuole) e anche gli orari di lavoro erano fissi e determinati dal contratto (con il lavoro agile invece non ci sono vincoli)». Dal punto di vista linguistico, notiamo che smart working è di fatto uno pseudoanglismo, dato che in lingua inglese l’espressione non è in uso con questo esatto significato (non è nemmeno lessicalizzata dai dizionari), ma casomai si impiegano “work from home” o altre espressioni simili. Insomma, smart working nel significato di ‘lavoro agile’ l’abbiamo praticamente inventato noi italiani (come il baby-parking, l’auto-stop, il bancomat o il cotton fioc, del resto: nel settore degli pseudoanglismi andiamo fortissimo!). Aggiungo che, a mio avviso, chi ha pensato di usare l’una e l’altra espressione per la situazione attuale probabilmente non ha mai avuto bisogno di praticarlo davvero, questo famoso lavoro agile… perché in quello che stiamo vivendo negli ultimi mesi personalmente ci vedo davvero poco, di agile!
  • Movida: assieme a party, entrambi usati da Giuseppe Conte in alcuni suoi discorsi ufficiali, ecco due termini che mi riportano subito agli anni Ottanta. Movida è una parola spagnola, dal verbo mov(er) ‘muovere’; la sua prima attestazione italiana risale al 1985. Originariamente, il termine veniva impiegato in Spagna per indicare “stile di vita anticonformista e spregiudicato” (ci ricorda Treccani che in particolare era riferito al “clima sociale e culturale tornato vivace dopo la fine del regime franchista”), assumendo poi per estensione il significato di “animata vita notturna, specialmente di una grande città” (Zingarelli 2020). Il termine ricorre, nell’archivio di Repubblica, dal 1985 in poi, ben 15.271 volte. Di queste occorrenze, 386 risalgono al periodo tra il 1° maggio e il 1° giugno 2020. La presenza di movida nella lingua del quotidiano è abbastanza stabile, anche se indubbiamente abbiamo assistito a un’impennata nelle ultime settimane. Dunque, movida è ospite ricorrente dei giornali, forse un po’ insolito in bocca a un rappresentante di spicco della politica nazionale, e sicuramente ancor più ostico per il largo pubblico. Ovviamente, movida ha il dono di essere un termine sintetico ed espressivo, visto che l’alternativa potrebbe essere “vita notturna” o qualcosa del genere; rimane la domanda: avevamo davvero necessità di questo termine, che ha un che di “artificiale”? Apprezzo, comunque, le neoformazioni semiserie, probabilmente “volatili”, fatte derivare da movida, ossia covida (da COVID, chiaramente) e Movid-19 (idem).
  • Social distancing o distanziamento sociale. L’espressione identifica una serie di misure il cui scopo è rallentare la diffusione del contagio da Covid-19 tra le quali, come ricorda anche la terminologa Corbolante, «isolamento domiciliare, quarantena dei soggetti esposti, chiusura delle scuole, limitazione degli assembramenti, restrizioni sugli spostamenti, chiusura di servizi e attività produttive e commerciali non indispensabili che non possono ricorrere al cosiddetto lavoro agile». Dunque, non si tratterebbe di mera distanza sociale e nemmeno di solo distanziamento fisico, cioè del tenersi a distanza di sicurezza dagli altri. Quanto elencato corrisponde alle prime indicazioni date dai CDC, Centers for Disease Control and Prevention, all’inizio della pandemia (che però chiosano l’espressione con physical distancing!), riprese nella sostanza anche dall’Istituto Superiore della Sanità con la traduzione distanziamento sociale. Dunque, sebbene non andasse a genio a tutti, è parso sinora che ci fosse una logica nell’usare distanziamento sociale, anche se, anche in ambito anglofono, voci autorevoli si erano dichiarate si dall’inizio scettiche rispetto alla correttezza e necessità del termine. Poi, ecco il colpo di scena: recentemente, l’OMS stessa ha sconsigliato l’uso dell’espressione, dato che, anche secondo loro, mai come adesso abbiamo bisogno di dare valore alle relazioni sociali (seppure a distanza). Il 20 marzo 2020 l’OMS ha così annunciato di consigliare l’uso di distanziamento fisico invece che distanziamento sociale «because it’s important to remain physically separate but socially connected». Sarà perché ho molti amici del cuore che conosco solo virtualmente, ma l’idea che non ci possano essere relazioni sociali senza contatto fisico mi è sempre sembrata un po’ balzana.
  • Covid-19. E ora, last but not least, uno degli interrogativi scottanti del momento (si fa per dire), che riguarda il genere di questa sigla: il o la COVID-19? La sigla COVID sta per COronaVIrus Disease, cioè ‘malattia da coronavirus’; tenendo conto di questo, sarebbe più corretto usarla al femminile, la COVID, come consigliato dal virologo Pregliasco; lo hanno ribadito anche vari linguisti in più occasioni. Non è la prima volta che succede che il nome del virus sia maschile (si parla del SARS-CoV-2 in quanto coronavirus) e la malattia provocata dal virus femminile: era già successo, per esempio, per l’HIV (human immunodeficiency virus, virus dell’immunodeficienza umana), maschile, e l’AIDS, nominalmente femminile (acquired immuno-deficiency syndrome, sindrome da immunodeficienza acquisita); ma esattamente come nel caso della sigla AIDS, registrata oggi dai dizionari italiani come di genere prevalentemente maschile, anche questa volta sembra che nell’uso abbia prevalso il maschile, al di là del suo significato in traduzione: al 1° giugno 2020, una ricerca effettuata su Google limitatamente a contesti in lingua italiana dà come risultato 18.900.000 occorrenze di “il COVID” contro 423.000 di “la COVID”.

Su questo punto, aggiungo alcune informazioni. Normalmente, quando un forestierismo arriva in italiano (magari da una lingua in cui i sostantivi non hanno genere), questo tenderà ad assumere il genere del traducente italiano più vicino a esso (pensiamo a GPS, global positioning system, ‘sistema di posizionamento globale’, da cui il GPS). Ma il passaggio non è sempre così automatico: abbiamo molti casi di oscillazione, da e-mail (il cui genere, nel 2002, era ancora soggetto a incertezze) a Wi-Fi (a seconda che lo si accosti a rete o a servizio) a, per cambiare totalmente contesto, i molti dolci di origine americana. Insomma, non ci sono regole stringenti in merito al genere assunto dai forestierismi in italiano, tanto meno nel caso delle sigle.

In conclusione, se ha prevalso l’accostamento semantico con il coronavirus invece che con la malattia (peraltro, disease potrebbe venire tradotto pure come morbo), non c’è nulla di sbagliato: come ribadisco spesso, alla fin fine la lingua viene fatta soprattutto dai suoi parlanti. E in questo caso, la maggioranza che ha adottato il maschile è davvero schiacciante. Alla fin fine, va bene così.

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