La riflessione

Le radici storico-culturali del nostro digital divide

Un possibile spiegazione “ideologica” dei ritardi digitali italiani rispetto all’Europa: il predominio strisciante del crocio-gramscianesimo

Pubblicato il 08 Mag 2014

Paolo Ferri

Professore Ordinario di Tecnologie della formazione, Università degli Studi Milano-Bicocca

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Il digital divide in Italia esiste e non stiamo parlando di quello “interno” ma di quello che ci fa essere fanalini di coda rispetto all’Europa. Se, infatti, si analizzano i dati di Eurostat, relativi al terzo trimestre del 2013 si constata con sconforto che gli italiani che non hanno mai usato Internet sono più di un terzo. Inoltre è molto evidente la distanza che ci separa dall’Europa sia in termini di alfabetizzazione digitale che di banda larga. Eurostat segnala, infatti, che il 34% della popolazione italiana non ha mai navigato. Un dato che ci posiziona in fondo alla classifica europea, sotto al Portogallo (33%) e di poco sopra Grecia (36%) e Bulgaria (41%). La media dei “connessi” a Internet, le famiglie che hanno accesso alla rete, nei paesi dell’UE, è del 79%. E in particolare il 76% di loro dispone di un accesso a banda larga. E anche qui l’Italia si colloca al di sotto della media europea, registrando il 69% delle famiglie connesse (di cui il 68% con la banda larga). Analogo ragionamento vale per l’uso quotidiano del Web, solo il 54% degli italiani dichiara di usare Internet ogni giorno, a fronte di una media europea del 62%.

Male anche per quanto riguarda il rapporto tra pubblica amministrazione (e-government) e privati: solo il 21% dichiara di usare i servizi digitali offerti dalla Pubblica Ammistrazione, a fronte di una media europea pari al 41%. Ci siamo più volte soffermati in questa sede sulle ragioni “recenti” della lontananza e a volte ostilità degli italiani alle tecnologie della comunicazione digitali, ma vorremmo qui sviluppare un ragionamento differente che va a ricercare alcune delle cause profonde della distanza dalle tecnologie digitali degli italiani e della loro classe dirigente.

A nostro avviso questa distanza può essere letta come una deriva diffusa del paradigma culturale crocio-gramsciano che ha dominato a lungo la scena intellettuale italiana come ha acutamente notato il critico letterario Romano Luperini. Con il termine crocio-gramscianesimo Luperini intende quelle tendenze idealistiche in filosofia e nelle scienze umane che sono state trasmesse anche al marxismo italiano, considerato anche il grande influsso che Croce ebbe su Gramsci. La scienza, per Benedetto Croce, era solo “un libro di ricette di cucina”, e ancor meno valeva la tecnica. La vera cultura si faceva in altre sedi. Si tratta si uno sviluppo della tradizione culturale italiana che Luperini individua nella triade De Sanctis, Croce, Gramsci e che salda l’idealismo e il materialismo storico “umanista” di Gramsci e Togliatti, insieme a componenti della cultura cattolica e liberale italiana. Un tradizione che anche oggi è molto presente nel dibattito, invero un po’ provinciale, sulla tecnologia in Italia. Molto spesso come sostiene Luperini, in un recente articolo gli intellettuali “umanisti” italiani si arroccano su “un difesa unilaterale, priva di sfumature e spesso retorica, del passato” (Luperini R).

L’“umano” si contrappone, in questa visione, alla “tecnica” alienante e quindi alla cultura scientifica e tecnologica che della tecnica è il motore. Ovviamente di concerto con il “grande capitale” internazionale e in particolare angloamericano. Queste posizioni “reazionarie” non tengono conto del fatto che, come nota Luperini: ”La democrazia moderna è nata in Inghilterra da una tradizione fortemente collegata al metodo scientifico, all’empirismo e allo sperimentalismo (anche in campo filosofico: basti pensare alla linea che va da Guglielmo d’Ockam a Newton, passando attraverso Locke, che è stato, come è noto, uno dei padri dello Stato liberale quando da noi “umanisti” imperavano la Controriforma e l’alleanza fra Trono e Altare” (Luperini, R).

Ed è proprio a causa della “fortuna” del crocio-gramscianesimo e delle sue derive post-moderne che in Italia, come ha notato anche, Michele Marsonet, il distacco tra le “due culture” è ancora così evidente. Nel nostro Stivale perciò non esiste, salvo rare eccezioni e molti premi scienziati premi Nobel, sia nelle élite dirigenti sia nell’intellettualità diffusa un sufficiente coscienza del fatto che noi dobbiamo imparare a “pensare con le macchine” – come sostiene Stefano Moriggi in un recente e fortunato saggio dal significativo titolo Connessi: “La recalcitrante diffidenza a pensare con le macchine – nota Moriggi – è certamente uno dei sintomi più evidenti della grave carenza di quella cultura e di quella educazione alla scienza e alla tecnologia che invece dovrebbero costituire il bagaglio, non solo dei professionisti della ricerca, ma di ogni individuo che ambisca ad essere un cittadino a pieno titolo.

Anzi il dibatto italiano sulle tecnologie è ancora più arretrato di quello sulla scienza. La tecnologia invece è ancora considerata nell’opinione comune un strumento di reificazione e alienazione, quando non una strumento di asservimento al “Grande Fratello” del mercato capitalistico. Per citare ancora Moriggi, “c’è chi si lancia in invettive contro l’uso e l’abuso di tablet, cellulari e computer responsabili di smaterializzare, svuotando di significato ogni relazione interpersonale”. I i nostri intellettuali “umanisiti” o “post-moderni” come reazione alla pervasività delle macchine considerano la tecnologia e i suoi strumenti come pericolosi corpi estranei da esorcizzare. E così si generano le forme più bizzarre di irrazionalismo contemporaneo. E, magari, “alla ‘contraffazione’ della tecnologia si cerca di rimediare con l’autenticità della natura” (Moriggi, S., Connessi. Beati quelli che sapranno pensare con le macchine, Edizioni San Paolo, 2014, pp. 17-18). Oppure si contrappone alla virtualità disumanizzante del Web il libro gutemberghiano inteso, esso stesso, come un “naturale” prolungamento della natura umana.

In realtà, se si guarda con occhio critico alle grandi svolte del pensiero tecno-scientifico, e allo sviluppo dell’innovazione tecnologica, vi si coglie sempre una creatività in grado di travolgere qualsiasi steccato disciplinare. La separazione tra le culture discende dalla tesi che vede le acquisizioni umane quali entità fisse, sospese in un cielo platonico di idee pure e indipendenti dalla realtà empirica. Al contrario, le teorie scientifiche e le innovazioni tecnologiche, e come ci ricorda Luperini anche le forme della democrazia moderna sono realtà dinamiche in incessante trasformazione, che interagiscono con la società e le soggettività individuali e collettive.

La Scienza e la tecnologia sono “cultura” nel senso più pregnante del termine e sono anche “metafisiche influenti” da analizzare con grande attenzione critica. L’impresa tecnico-scientifica è, infatti, uno dei più grandi fattori di rinnovamento sociale, intellettuale e civile. Ad esempio, oggi, molti dei problemi morali che i filosofi affrontano nascono in ambito scientifico e tecnologico: si pensi alla genetica e alle neuroscienze. Per chiudere con Popper, filosofo della scienza e teorico della società aperta, “Vi prego di non credere che dietro l’attacco generale alla scienza e alla tecnica si nasconda qualcosa di serio o addirittura di filosoficamente profondo” (Popper, K., Tecnologia ed etica, Rubettino, Genova, 2013, p. cit. pag. 187).

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