Le ipotesi di condotte fraudolente a carico delle società controllanti l’exchange Bitfinex e la stablecoin Tether – destinatarie di un ordine di esibizione da parte della Procura generale dello Stato di New York (‘NYAG’) – hanno portato alla ribalta una serie di possibili criticità di gestione e di potenziali conflitti di interessi da tempo oggetto di attenzione da parte di stampa e autorità di regolazione.
Uno scenario complesso e una trama costellata – secondo quanto risulta dalle indagini del Procuratore generale – da gestioni promiscue e torbide relazioni che ricostruiamo di seguito.
Struttura societaria e cointeressenze
La struttura societaria in cui si articolano le cointeressenze di DigFinex Inc. – che controlla tanto iFinex Inc., cui fa capo l’exchange, quanto Tether Holdings Limited che emette la valuta virtuale comunemente nota come USDT (che a sua volta detiene le quote di Tether Limited, Tether Operations Limited e Tether International Limited) – è molto complessa e maschererebbe, appunto, relazioni inquietanti, come vedremo meglio anche di seguito.
I veicoli che gestiscono l’exchange e la stablecoin condividerebbero uffici e dipendenti, oltre ad avere in comune numerosi componenti del management. Tra questi figurano gli italiani Giancarlo Devasini e Paolo Ardoino, rispettivamente CFO e CTO di iFinex, ed entrambi soci – insieme a J.L. van der Velde (CEO), Phil Potter (Chief Strategy Officer), Stuart Hoegner (General Counsel) e Perpetual Action Group (Asia) Inc. – di DigFinex.
Le informazioni sulla corporate governance del gruppo sono note in quanto ad aprile 2017 iFinex – che aveva inizialmente sede alle Isole Vergini britanniche per poi trasferirsi a Hong Kong – e Tether intentarono congiuntamente una causa contro Wells Fargo per il rifiuto opposto dalla banca rispetto alla prosecuzione dei rapporti contrattuali, e in particolare della gestione di bonifici in uscita dai conti dell’exchange, senza previa due diligence rispetto alle identità dei destinatari dei fondi. La causa fu abbandonata dopo appena sei giorni ma dall’indagine del NYAG emergerebbe che il gruppo DigFinex non sia riuscito a trovare un partner bancario affidabile che gestisse le richieste di prelievo degli utenti della piattaforma, procurandosi la liquidità necessaria all’operatività di Bitfinex mediante lo smobilizzo sul mercato delle proprie riserve di Tether, circostanza che sembrerebbe confermata dai numerosi ritardi riscontrati dai traders nell’accedere ai propri conti online.
Una inquietante relazione
A partire da agosto 2017, un blogger noto con lo pseudonimo di “Bitfinex’ed” iniziò a pubblicare numerosi post in cui segnalava una inquietante relazione tra la cessazione dei rapporti bancari di Bitfinex e un vertiginoso incremento nell’emissione di USDT (pari a oltre 100 milioni di dollari tra il luglio e l’agosto 2017).
Il lancio di Tether era stato annunciato da Bitfinex a gennaio 2015, dichiarando che ciascuna unità di valuta virtuale – il cui valore era destinato a rimanere ancorato all’andamento del dollaro statunitense, essendo garantita da una corrispondente quantità di valuta fiat – sarebbe stata pienamente trasparente al fine di dimostrare la presenza delle relative riserve monetarie in ogni momento. In particolare, si prevedeva che la società Tether Holdings Limited sarebbe stata sottoposta a revisione contabile, circostanza questa che, nonostante sia stata sollecitata numerose volte nel corso degli anni, non è mai avvenuta. La stessa società ha implicitamente confermato l’intenzione di non dar seguito a tale iniziativa, modificando le proprie FAQ alla voce “Is Tether transparent?” mediante la soppressione dell’inciso «and is regularly audited».
Come riportato da Bloomberg, a dicembre 2017 la Commodity Futures Trading Commission statunitense (CFTC) aveva notificato una richiesta di informazioni a iFinex e Tether, alimentando i sospetti su possibili alterazioni del meccanismo di liquidità sottostante alla gran parte delle exchanges. La stablecoin, secondo quanto recentemente affermato dagli stessi avvocati del gruppo, non sarebbe garantita integralmente dalle riserve monetarie della società emittente – come da sempre dichiarato – ma la copertura ammonterebbe a circa il 74% del valore degli USDT in circolazione e sarebbe inoltre composta da un misto di valute e titoli.
Le accuse di Bitfinex’ed parrebbero suggerire che DigFinex abbia risolto i problemi bancari emettendo USDT a proprio piacimento, senza alcun controvalore reale, distribuendo in prestito la propria valuta in maniera da favorire le scorte di liquidità di tutto il sistema dei cambiavalute virtuali. Infatti, la maggior parte delle piattaforme, in particolare quelle cinesi, non consente lo scambio crypto-fiat ed avrebbe incontrato insormontabili difficoltà ad operare senza la stablecoin nel caso in cui si fosse dovuto assumere il rischio di volatilità della principale valuta virtuale.
Inoltre, il cash-in ed il cash-out effettuato mediante USDT non necessita di controlli AML sulla provenienza dei fondi, il che avrebbe favorito la circolazione di capitali di dubbia provenienza. La circostanza sarebbe confermata dallo stretto rapporto che avrebbe a suo tempo legato Bitfinex ad alcune discusse exchanges quali BTC-e, il cui fondatore è stato arrestato per riciclaggio.
La stablecoin per manipolare il prezzo delle criptovalute
A ciò si aggiungerebbe che la stablecoin, per sua natura resiliente rispetto alle fluttuazioni speculative, secondo uno studio di due ricercatori dell’università di Austin, Texas, sarebbe stata utilizzata per manipolare il prezzo delle altre criptovalute ed incrementarne in maniera considerevole la volatilità. L’impennata del valore di Bitcoin sul finire del 2017 sarebbe in parte dovuto alla circostanza che gli exchange che Tether aveva foraggiato con i propri USDT avrebbero realizzato operazioni coordinate volte ad influenzare l’andamento dei token scambiati sulle proprie piattaforme, al fine di rientrare del prestito grazie al profitto realizzato mediante la successiva liquidazione massiva di BTC.
Il potenziale conflitto di interessi tra i gestori e gli utenti delle piattaforme di exchange è stato denunciato dal Procuratore generale dello Stato di New York in un documento di settembre 2018, il Virtual Markets Integrity Initiative Report. Dal ‘Rapporto’ emergono le rilevanti esposizioni in valuta virtuale di soci e funzionari delle exchanges, che alimenterebbero l’interesse di costoro all’incremento dei prezzi e della abitudine di questi a effettuare negoziazioni sulle proprie piattaforme direttamente nei confronti degli utenti.
Bitfinex, oltre al ruolo che sembrerebbe assimilabile a quello di una banca centrale (emissione di moneta e prestiti interbancari) appare incarnare il modello di banca universale in quanto, al pari di numerosi altri exchanges offre, oltre alla funzione di cambiavalute, anche il servizio di custodian wallet provider, conservando le chiavi private dei portafogli digitali degli utenti.
Un problema di centralizzazione
Il problema, come da anni evidenziato da alcuni dei personaggi più autorevoli dell’ambiente che ruota intorno alle valute virtuali, non è della tecnologia blockchain ma della centralizzazione, che consente di realizzare le peggiori deformazioni del sistema bancario tradizionale esponendo gli utilizzatori delle piattaforme a un triplice rischio di perdita del patrimonio. Da un lato la conservazione accentrata e promiscua dei fondi (come nel caso del fallimento di Bitgrail, espressamente qualificata come deposito irregolare) aumenta esponenzialmente la possibilità di furti. Dall’altro, la mancanza di controlli sulla correttezza dell’operato delle piattaforme, anche nell’evitare situazioni di conflitto di interessi, favorisce la possibilità di manipolazioni del prezzo di mercato delle valute. Infine, l’offerta di servizi tradizionalmente riservata agli intermediari finanziari, come il margin trading e la concessione di credito, in ambienti contraddistinti dall’assenza di meccanismi mediante i quali tutelare e indennizzare i consumatori-investitori comporta una maggiore facilità nello sfruttamento dell’asimmetria contrattuale e informativa da parte dei contraenti forti.
In un’ottica regolatoria, sembrerebbe auspicabile quantomeno l’imposizione di una effettiva separazione tra l’attività di piattaforma cambiavalute e la gestione dell’infrastruttura monetaria rappresentata dalle stablecoins. Inoltre, recuperando la distinzione tra banche di credito e banche di investimento abbandonata solo negli anni Ottanta del Novecento occorrerebbe anche tenere distinta l’attività di custodian wallet provider e quella di exchange, quantomeno sino ad una maturazione dell’ecosistema blockchain tale da evitare il groviglio di interessi ad oggi riscontrabile.