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L’economia dell’IA: come la sostituzione cognitiva cambierà il lavoro



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L’IA sta trasformando il mercato del lavoro attraverso la sostituzione cognitiva. L’analisi economica suggerisce nuovi equilibri basati su competenze avanzate, formazione interdisciplinare e soluzioni ibride che valorizzino la creatività umana accanto all’efficienza delle macchine

Pubblicato il 16 apr 2025

Sebastiano Bavetta

Università di Palermo e Co-founder@SandB



AI Continent Action Plan,

Se c’è una dimensione dell’intelligenza artificiale (IA) sulla quale siamo tutti d’accordo è la rapidità con cui avanza. Tuttavia, è probabilmente la dimensione della quale abbiamo la minore consapevolezza.

Intelligenza artificiale: la crescita esponenziale

Un recente tentativo di dare una misura quantitativa apprezzabile da un largo pubblico si trova nel sito Our World in Data della Banca Mondiale.[1]

La Figura 1 descrive la crescita dell’IA a partire dall’invenzione, nel 1951, di Theseus, un topo-robot capace di uscire da un labirinto nel quale è intrappolato. L’oggetto della misura (nell’asse verticale) è la training computation vale a dire la quantità di risorse computazionali impiegate per addestrare un modello di IA nel tempo (asse orizzontale). L’unità di misura è il FLOPs (Floating Point Operations), cioè il numero di operazioni in virgola mobile necessarie per addestrare il modello. In soli dieci anni siamo passati da AlexNext, 470petaFLOP, 2012, a Google Minerva, 2022, un modello in grado di risolvere problemi matematici e scientifici attraverso la combinazione di diverse tecniche di ragionamento (2,7 miliardi petaFLOPS).

Il potenziale dell’intelligenza artificiale nel confronto con le capacità umane

Una descrizione più intuitiva – e forse più preoccupante – dell’avanzamento misura la performance dei modelli di IA rispetto agli esseri umani. Vent’anni fa il confronto non avrebbe avuto senso, ma oggi, su tutti i domini misurati, l’IA realizza risultati migliori tranne sul ragionamento predittivo dove ci ha appena raggiunto. Ancora una volta il sito Our World in Data offre una rappresentazione grafica facilmente comprensibile, riportata nella Figura 2.

La Figura 2 utilizza due normalizzazioni: la prima è la performance iniziale dei modelli di IA, fissata a -100, la seconda è la performance umana, fissata a 0, per ciascuna delle capacità prese in considerazione. Ancora una volta, il tempo è descritto nell’asse orizzontale. Nell’asse verticale invece misuriamo la performance dei modelli di IA, su sei capacità della mente umana ciascuna rappresentata con un colore distinto.

Un paio di osservazioni. Anzitutto, la velocità di sviluppo delle tecnologie di intelligenza artificiale è aumentata nel tempo. Tuttavia, il grafico è fuorviante: la crescita di reading comprehension e di image recognition è fulminea, non perché siano improvvisamente sorti modelli estremamente efficaci, ma perché i test sulla performance relativa rispetto agli umani sono molto recenti. Più in generale, ecco la seconda osservazione, i risultati si basano su test di riferimento specifici. Al di fuori di questi test, i modelli di intelligenza artificiale possono fallire in modi inaspettati e non sempre raggiungono prestazioni comparabili a quelle umane in maniera affidabile.

A parte queste due osservazioni, la crescita dell’IA è impressionante e legittima le preoccupazioni di molti esperti. Infatti, una dimensione dell’IA largamente condivisa è che la sua crescita esponenziale sia una mixed bag, cioè una circostanza che comporta una varietà di conseguenze, alcune buone altre cattive.[2]

Da una parte, infatti, i benefici dell’IA sono indiscutibili.[3] D’altra parte, essa pone rischi esistenziali significativi, in particolare per il ruolo degli esseri umani in una società in cui una parte crescente dell’intelligenza è prodotta dalle macchine. Proverò a discuterne utilizzando la scienza economica. Essa dispone di numerosi strumenti analitici che indicano futuri probabili. Non ci dice quale di questi si verificherà ma ci permette di costruire un approccio pragmatico alla comprensione delle conseguenze.

Intelligenza artificiale: le caratteristiche di una tecnologia rivoluzionaria

Ho suddiviso queste riflessioni in cinque parti. La prima descrive le caratteristiche economiche dell’IA intesa come tecnologia, cioè come insieme di conoscenze e procedure che permettono di risolvere dei problemi o produrre dei prodotti. Conoscerne le caratteristiche permette di mappare lo spazio in cui si annida il rischio di futuri distopici. La seconda parte fa tesoro dell’esperienza storica e, con uno sguardo macroeconomico, suggerisce che innovazioni con caratteristiche tecnologiche dirompenti – l’IA è tra queste – non hanno, in passato, prodotto quegli effetti catastrofici che al momento della loro apparizione si temevano.

Tuttavia, se la storia qualcosa insegna è che non si ripete mai. La terza parte, quindi, mette in discussione la conclusione macroeconomica. Analizzando da vicino le caratteristiche del lavoro umano getta luce sulle complessità della sfida posta dall’IA e sul perché essa imponga risposte creative e pragmatiche. Combinando il Landscape of Human Competence di Hans Moravec e la teoria del vantaggio comparato che dobbiamo a David Ricardo (1772—1823), la quarta e la quinta parte provano, sulla base di una visione pragmatica dell’IA, a immaginare futuri prossimi possibili e a suggerire come alcuni miglioramenti nel sistema della formazione universitaria possano contribuire a governarli.

Gli effetti dell’intelligenza artificiale sull’economia e sul lavoro

Dal punto di vista della scienza economica la tecnologia di produzione dell’intelligenza offerta dall’IA è una general purpose technology (GPT).[4] Le GPT sono innovazioni che hanno un impatto diffuso e trasformativo sull’intero sistema economico. A differenza delle tecnologie specifiche, una GPT non solo migliora la produttività in specifici ambiti, ma crea un effetto a catena su numerose industrie, generando nuove opportunità economiche, nuovi modelli di business e spingendo in avanti la crescita economica. Esempi storici di GPT includono l’elettricità, il motore a vapore, l’informatica e, secondo molti, l’intelligenza artificiale.

Le GPT possiedono tre caratteristiche che le distinguono dalle tecnologie specifiche. Anzitutto hanno un ampio spettro di applicabilità che le rende utilizzabili in diversi settori produttivi. La GPT al cuore della Prima Rivoluzione Industriale è stata il motore a vapore. Automatizzando il moto alternato del pistone e trasformandolo in un moto rotatorio attraverso un sistema di trasmissione il motore a vapore divenne utile per un’enorme platea di settori industriali. Infatti, le applicazioni furono numerose e trasversali, dal trasporto – il treno, simbolo della Rivoluzione Industriale – all’estrazione dell’acqua nelle miniere di carbone, alla meccanizzazione dei telai dell’industria tessile.

Un altro aspetto che distingue una GPT è il miglioramento continuo. Anche le tecnologie specifiche migliorano. Per esempio, il motore a reazione è diventato più efficiente e il reattore nucleare più sicuro. Tuttavia, l’impatto economico del loro miglioramento è rimasto limitato soprattutto ai rispettivi settori industriali. Il miglioramento di una GPT invece si propaga trasversalmente attraverso molteplici settori, accrescendone l’efficienza e diventando il motore della crescita economica. È il caso della digitalizzazione dei processi realizzata dall’informatica. Una volta introdotta, la digitalizzazione ha progredito di pari passo alla crescita della potenza computazionale (come previsto dalla cosiddetta ‘legge di Moore’), alla miniaturizzazione dei dispositivi, all’accrescimento dell’accessibilità con l’avvento di Internet. Il minor costo della potenza computazionale ha reso più efficiente la produzione di digitalizzazione ma, ecco il punto per una GPT, ha consentito una riduzione dei costi in tutti i numerosi ambiti di applicazione della tecnologia, favorendo la distruzione creatrice e la discontinuità tecnologica che sono alla base della crescita economica.

Infine, una GPT è complementare con altri investimenti, anche intangibili. Questo aspetto discende dalla centralità della GPT nel processo di evoluzione tecnologica. Poiché molti settori sono spinti ad utilizzarla, devono realizzare i necessari investimenti. Un settore che voglia avvalersi dell’IA nella fornitura del proprio prodotto dovrà realizzare investimenti ulteriori rispetto alla mera acquisizione della tecnologia. Per esempio, un fornitore di servizi educativi che usi l’IA dovrà anche investire su cloud computing e dotarsi di capitale fisico. Non solo: dovrà anche investire in intangibles, fra tutti il capitale umano, poiché la gestione dell’IA richiede nuove competenze.

Sottolineare la natura di general purpose technology dell’IA ha conseguenze nell’analisi dei rischi ad essa associati. Noi siamo portati a ritenere che un rischio importante di un futuro distopico dipenda dalle caratteristiche dell’industria che produce l’intelligenza artificiale. Poiché il costo fisso di produrre l’IA è enorme mentre il costo di distribuirla è decrescente, l’industria dell’IA tende naturalmente ad organizzarsi come un oligopolio in cui pochi player, molto grandi, controllano il mercato.[5] Inoltre, poiché in oligopolio i produttori sono pochi, è facile la collusione tra le imprese a danno dei consumatori. Non c’è dubbio che un’industria fatta da pochi player sia potenzialmente problematica per il benessere sociale rispetto a un’industria con basse barriere all’ingresso.

Tuttavia, poiché l’AI è una GPT, essa ha importanti effetti sui settori industriali che la utilizzano attraverso gli investimenti complementari che essi fanno. La più grossa parte del rischio distopico si annida proprio nelle caratteristiche di questi investimenti. Semplificando, dall’osservazione delle forme che essi potranno prendere misuriamo il rischio distopico, per lo meno sulla dimensione di significato esistenziale del lavoro.

Futuri macro-possibili

Quali futuri possibili discendono dall’osservazione che l’AI sia una GPT? Per rispondere utilizzo un’immagine (Figura 3) introdotta da Erik Brynjolfsson, direttore dello Stanford Digital Economy Lab, e mi concentro su due possibili equilibri, come direbbero gli economisti, due futuri possibili nel linguaggio informale di queste pagine, le cui caratteristiche dipendono da come chi utilizza la nuova tecnologia governerà le opportunità che essa offre.

Descriviamo le attività già svolte con il lavoro umano come puntini di una nuvola verde (Figura 3). Per intenderci, il professore universitario che tiene una lezione o l’avvocato che scrive un ricorso utilizzando la tecnologia oggi esistente sono due punti della nuvola verde. L’avvento di ogni nuova tecnologia cambia le opportunità, tanto più se si tratta di una GPT. Il professore potrebbe fare lezione attraverso una chatbot liberando tempo per i dottorandi o l’avvocato lasciare che sia l’IA ad impostare il ricorso e dedicare più attenzione alla strategia giudiziale con il cliente.

In entrambi i casi, la nuvola verde si allarga sino ai confini di ciò che è possibile, la nuvola blu. In questo allargamento ci sono dentro modi migliori di fare le stesse cose (automazione) ma anche nuove cose (integrazione).

Figura 3: Futuri possibili delle capacità umane.
Fonte: mia elaborazione da Erik Brynjolfsson (2022). “The Turing Trap: The Promise and Peril of Human-Like Artificial Intelligence”, Stanford Digital Economy Lab, https://digitaleconomy.stanford.edu/news/the-turing-trap-the-promise-peril-of-human-like-artificial-intelligence/

Una parte delle nuove opportunità derivano dall’automazione dei processi produttivi ai quali si applica la nuova tecnologia. Prendiamo spunto dalla storia. Prima dell’elettrificazione, la produzione siderurgica si basava su altiforni alimentati a carbone e vapore, con un elevato impiego di manodopera per la movimentazione delle materie prime, il controllo della temperatura e la gestione della fusione del metallo. L’elettricità trasformò il processo produttivo. Permise l’introduzione del forno elettrico ad arco, l’automatizzazione dei laminatoi e del trasporto dei metalli incandescenti. In tutti questi casi, l’elettrificazione accrebbe la produttività sostituendo il lavoro umano con macchine capaci di realizzare in modo più efficiente attività che prima dovevano essere realizzate da persone. Nel caso del professore la chatbot potrebbe sostituirlo nelle esercitazioni di un corso di base.

Quando le nuove opportunità derivano dall’automazione l’economia e la produttività crescono ma, nella Figura 3, sono modi migliori di fare, attraverso le macchine, la stessa cosa – cioè punti della nuvola rossa, contenuta nella verde. Lo spazio delle opportunità si allarga ma, soprattutto, sostituendo persone e riducendone lo spazio.

Innovazione però non è sinonimo di automazione. L’innovazione, infatti, innesca processi di creazione di nuove mansioni in cui il lavoro umano mantiene un vantaggio comparato rispetto alla macchina. Questo fenomeno, noto come effetto di integrazione, compensa l’effetto di sostituzione. Non a caso, nella storia non si è assistito solo a un’ampia automazione, ma anche a un costante processo di creazione di nuove occupazioni. In termini della Figura 3, l’effetto di integrazione è un punto al di fuori della nuvola verde e all’interno della nuvola blu.

Un esempio di effetto di integrazione, spesso citato tra chi riflette sui rischi dell’IA, è la radio diagnostica. La profilazione, la descrizione, la predizione e persino la prescrizione su immagini mediche beneficiano significativamente della crescente disponibilità di set di dati di immagini e annotazioni di esperti, nonché dei progressi nella potenza di calcolo. E tutto ciò in molti campi della medicina. È noto che l’IA svolge queste attività meglio dell’uomo tanto che, qualche anno fa, era comune sentire che il radiologo fosse un mestiere a rischio di estinzione.[6] E invece l’IA non è stata capace di sostituirlo. Dal 2022 l’organizzazione professionale dei radiologi americani lamenta la carenza di personale e avverte pubblicamente che la capacità formativa del sistema educativo non è al passo della domanda di lavoro. Semplicemente l’IA ha sostituito solo una parte delle attività che sono in capo al radiologo liberando tempo per fornire nuovi servizi ai pazienti che le macchine non possono offrire.

Un primo futuro possibile è quindi da qualche parte all’interno della nuvola rossa dove le applicazioni dell’IA a valle saranno soprattutto concentrate su automazione. Potremmo assistere alla sostituzione del lavoro umano con l’intelligenza artificiale e l’effetto complessivo sarà probabilmente svantaggioso in termini di benessere. Questo scenario cammina verso la distopia ed è problematico anche nel caso in cui l’incremento di produttività fosse talmente grande da compensare i lavoratori per la perdita della propria attività. Infatti, nessuna legge economica garantisce che la compensazione di fatto avverrebbe, soprattutto perché il potere contrattuale delle persone rimaste senza lavoro in un ipotetico contratto sociale sarebbe basso. Rischieremmo diffusa infelicità, una società poco inclusiva e istituzioni democratiche fragili.

Un altro futuro possibile è da qualche parte all’interno della nuvola blu, oltre i confini della verde. In tal caso le applicazioni dell’IA a valle, basate sulla coesistenza di intelligenza umana e artificiale, accrescono le capacità delle persone. Per esempio, disponendo di assistenti virtuali i professori potranno dedicare più tempo alle tesi di dottorato o gli avvocati concentrarsi sulle strategie giudiziali dei clienti. Anche la democrazia ne beneficerebbe: algoritmi di sentiment analysis potrebbero valutare il livello di soddisfazione e preoccupazione di una comunità locale su determinate decisioni e facilitare le partecipazioni e consultazioni pubbliche. Un simile scenario sarebbe distante dal futuro distopico che in molti immaginano.

La storia dello sviluppo tecnologico non è segnata da una prevalente sostituzione del lavoro umano con automazione. Duecentocinquanta anni di innovazione sostenibile, infatti, non hanno ridotto il contributo del lavoro al prodotto interno lordo perché le automazioni che si sono susseguite sono state accompagnate dalla creazione di nuovi posti di lavoro in cui il compito dell’uomo ha mantenuto un vantaggio comparato.[7] Come nel caso della domanda di radiologi, l’evoluzione tecnologica ha accresciuto la produttività e sostituito lavoro ma, allo stesso tempo, ha ampliato la gamma dei compiti che insieme determinano la produzione di un bene o un servizio. Un futuro non distopico è una possibilità che la storia non smentisce.

Ricombinazioni e sostituzioni cognitive

Prima di concludere che tutto è bene quel che finisce bene e sentirci sollevati dai rischi posti dall’IA, ricordiamo che non sempre il passato è un buon predittore di ciò che ci riserva il futuro. In fondo la storia ha la cattiva abitudine di non ripetersi e di essere fortemente determinata da episodi circostanziali sui quali è difficile costruire previsioni generalizzabili. Lasciamo quindi l’ottimismo macroeconomico: il diavolo sta nei dettagli, in questo caso nelle ricombinazioni dei fattori produttivi che l’IA promette di rendere possibili.

Ogni nuova tecnologia, infatti, modifica il modo in cui gli imprenditori utilizzano gli input capitale e lavoro. Se la nuova tecnologia rende più conveniente l’automazione, gli imprenditori avranno incentivo a realizzare una ricombinazione dei fattori in cui aumenta la quantità di capitale utilizzata nel processo produttivo e diminuisce la quantità di lavoro. Le sorti del lavoro, quindi, dipendono dall’effetto della tecnologia sui prezzi dei fattori produttivi e dalla sostituibilità di ciascun fattore nel processo produttivo.

Una strategia analitica redditizia per esplorare i dettagli delle ricombinazioni è immaginare ogni lavoro come un insieme di compiti. Un po’ come dividere il minuto in secondi, ciascun compito è una particolare attività che fa parte di un lavoro e, tutti insieme, ne descrivono le caratteristiche. I compiti di un professore sono insegnare, fare ricerca, contribuire alla raccolta di fondi per la ricerca, sbrigare la rendicontazione delle attività svolte, e così via.

Com’è facile immaginare, più complesso, creativo e suscettibile di interpretazione originale è ciascuno dei compiti di un lavoro, più difficile è disegnarne i confini e più facile estenderne la portata. Inoltre, più complesso e creativo è un insieme di compiti di un lavoro, minore il grado di sostituibilità e maggiore la sua capacità di adattamento in processi di ricombinazione innescati dall’evoluzione tecnologica. Il labile confine dei compiti e la possibilità di ridefinirli con successo al mutare del contesto tecnologico rendono le attività complesse e creative suscettibili di continue ricostruzioni che le mettono al riparo dai mutamenti della tecnologia.

Se guardiamo ai rischi dell’IA dalla prospettiva macroeconomica, come abbiamo fatto nella sezione precedente, il contributo degli economisti si concentra soprattutto sulle politiche fiscali e industriali che favoriscono investimenti complementari pieni di ricombinazioni integrative, cioè portatori di natalità positiva dei compiti di un lavoro. Ma, se guardiamo ai rischi dell’IA dal punto di vista dei compiti che caratterizzano ciascun lavoro, il rischio distopico prende una forma diversa e la sfida si fa più dura.

L’intelligenza artificiale infatti è una tecnologia capace di sostituzione cognitiva, cioè di replicare o sostituire le funzioni cognitive tradizionalmente svolte dagli esseri umani. Per dimensione e profondità questa capacità dell’IA è una circostanza non sperimentata nella storia. Diversamente delle precedenti general purpose technology che sostituivano principalmente il lavoro fisico ma integravano i compiti cognitivi, l’IA fa il contrario: non è (ad oggi) molto brava a sostituire i compiti manuali (non può fare il barbiere o il meccanico) ma sostituisce sempre meglio i compiti cognitivi: il riconoscimento di immagini e testi, l’elaborazione del linguaggio naturale, l’assunzione di decisioni e persino il ragionamento e l’apprendimento.

Capite bene che non siamo di fronte soltanto a un tema di incentivi offerti agli investimenti complementari. Il punto è scoprire in un contesto in cui la marea dei compiti cognitivi efficacemente realizzati dall’IA si alza quali parti della costa rimarranno ancora praticabili, cioè quali nuovi compiti nella dimensione cognitiva del lavoro l’IA non sostituirà.

Il riferimento alla marea richiama un’immagine – il Landscape of Human Competence – introdotta da Hans Moravec, ripresa da Max Tegmark e riprodotta nella Figura 4.[8]

L’intuizione di Moravec nasce da considerazioni evoluzionistiche. Il ragionamento di alto livello (matematica, risoluzione di problemi logici, processo decisionale strutturato) è composto da compiti cognitivi strutturati ed è uno sviluppo relativamente recente nell’evoluzione umana. Al contrario, le capacità sensomotorie (visione, movimento, coordinazione, giudizio intuitivo) sono state affinate nel corso di milioni di anni attraverso la selezione naturale e consistono di un coacervo di interazioni con il mondo fisico che richiedono adattabilità ad ambienti dinamici e imprevedibili. In quanto tali, esse sono soprattutto compiti cognitivi non strutturati in cui non ci sono regole rigide e predefinite e in cui gli aggiustamenti del comportamento dipendono dal contesto. Mentre i compiti che richiedono un ragionamento strutturato sono relativamente facili da codificare nell’IA, i compiti che coinvolgono destrezza fisica, intuizione o percezione, proprio perché non facilmente codificabili, sono distanti dalle sue capacità.

Intelligenza artificiale e lavoro: vantaggi comparati e adattabilità

Ma c’è di più. A dispetto degli enormi progressi descritti all’inizio, l’AI fatica nel pensiero laterale poiché esso si basa sia sulla creazione di connessioni inaspettate tra concetti apparentemente non correlati che richiedono intuizione e astrazione, sia su euristiche ed esperienze del mondo reale per affrontare problemi non strutturati. L’IA tende a rafforzare le strutture esistenti anziché romperle in modi nuovi. Per esempio, sebbene generi delle forme artistiche – come i disegni di DALL-E – imita gli stili anziché crearne di nuovi.

Da una parte, tutte queste differenze tra le caratteristiche dei compiti contribuiscono a dare vita alla mappa di Moravec. La porzione di terra ricoperta dall’acqua è l’insieme dei compiti prima esclusivo appannaggio dell’uomo e oggi realizzati più efficacemente dall’IA (attenzione la figura ha già 8 anni, il livello dell’acqua è salito parecchio). Si tratta soprattutto di compiti che compongono lavori cognitivi strutturati. Più muoviamo verso la vetta delle montagne, più incontriamo compiti cognitivi basati sul ragionamento laterale o dipendenti da euristiche, intuizioni ed esperienze non strutturate del mondo reale.

Dimostrare un nuovo teorema, girare un film o scrivere un libro capace di portare idee originali in un dibattito sono lavori dai compiti non strutturati. Sebbene l’IA oggi possa contribuire a scrivere una sceneggiatura o a generare delle immagini, l’ideazione di un film richiede una visione artistica che non segue schemi predefiniti. “2001: Odissea nello spazio” di Stanley Kubrick introduce un linguaggio visivo, narrativo e simbolico innovativo che rompe con le convenzioni e anticipa i desideri del pubblico in modi che un modello statistico non può prevedere. Inoltre, ed è il punto, l’introduzione di un certo grado di sostituzione cognitiva attraverso l’IA spinge la creatività oltre i confini sinora definiti proprio perché i compiti che costituiscono il lavoro “fare un film” sono continuamente suscettibili di rimodellazione e il contributo umano difficilmente sostituibile.

Da un’altra parte, tutte queste osservazioni mettono in evidenza fondamentali differenze nel modo in cui gli esseri umani e l’IA elaborano le informazioni, che cristallizzano una specializzazione dei compiti, un equilibrio nel linguaggio degli economisti, che sembra stabile per lo meno in un futuro prevedibile. Fin tanto che le manifestazioni di intelligenza dell’IA dipenderanno in larga misura dall’apprendimento statistico e dal riconoscimento di pattern, è probabile che l’equilibrio persista. Almeno sino a che nuovi progressi nella scomposizione di compiti non strutturati o nell’autoapprendimento non cambieranno le produttività relative di uomini e macchine.

Oggi gli LLM o Large Language Models come GPT-4 eccellono nell’elaborazione di grandi quantità di dati, ma mancano di ragionamento astratto e comprensione causale. L’IA prevede le risposte più probabili, non sviluppa idee concettualmente nuove. E fintanto che l’IA funzionerà su modelli di apprendimento basati su correlazioni e non su un’autentica comprensione del mondo, la sua capacità di sostituire l’intelligenza umana in compiti non strutturati rimarrà limitata.

Vantaggi comparati

Alla luce di queste considerazioni emergono due conclusioni. Anzitutto, l’evidenza empirica sugli investimenti complementari che l’IA sta generando non conferma l’ipotesi di un significativo effetto di sostituzione. Semmai, conferma un’ipotesi più intrigante. Sembrerebbe che le ricombinazioni dei fattori produttivi non riguardino soltanto il rapporto tra capitale e lavoro ma, all’interno del fattore lavoro, la struttura delle sue competenze. In particolare, gli investimenti complementari all’IA spingono verso trasformazioni nella struttura e nell’organizzazione del lavoro all’interno delle imprese, favorendo un ricambio generazionale e un maggiore impiego di lavoratori altamente istruiti e con competenze tecniche avanzate.[9]

Questa conclusione non è solo compatibile con l’esistenza di una ampia struttura di vantaggi comparati tra compiti assegnati al lavoro umano e alla macchina ma, soprattutto, con un’indicazione di quali compiti all’interno del solo fattore lavoro saranno in futuro più richiesti e quali conseguenze essi avranno sull’organizzazione della produzione. La spinta verso competenze tecniche avanzate e, in generale, verso lavori che richiedono alti livelli di istruzione dimostra che per adesso l’IA sta modificando soprattutto i confini dei compiti suscettibili di ampia latitudine nella loro interpretazione, senza realizzare sostituzione.

Dal punto di vista individuale, l’effetto principale dell’IA non dovrebbe essere in un futuro prevedibile una vasta sostituzione del lavoro. Al contrario, essa orienterà la domanda di lavoro verso occupazioni che hanno alle spalle percorsi di formazione completi e sofisticati, per i quali la ricchezza di interpretazioni è significativa e l’adattabilità alle ricombinazioni tra lavoro e capitale è maggiore.

Questa pima conclusione ha conseguenze sui percorsi di formazione terziaria e continua (lifelong learning). Poiché il mercato del lavoro si orienterà sempre più verso occupazioni che richiedono percorsi di formazione sofisticati, caratterizzati da elevata capacità interpretativa e adattabilità alle nuove configurazioni tra lavoro e capitale, dobbiamo immaginare una trasformazione dei percorsi di formazione che risponda a due esigenze fondamentali: la specializzazione verticale profonda per garantire competenze tecniche di alto livello e l’interdisciplinarietà orizzontale per favorire l’adattabilità e la capacità di operare in contesti fluidi e meno gerarchici.

Formazione e intelligenza artificiale: ripensare le competenze per il lavoro del futuro

Per rispondere alla prima sfida serve anzitutto potenziare le discipline STEM integrandole, allo stesso tempo, con esperienze pratiche attraverso laboratori, simulazioni e formazione esperienziale che colmi il divario tra teoria e applicazione. È un lavoro che riguarda soprattutto sugli hard skill, cioè le capacità di risolvere problemi attraverso tecniche consolidate, ma anche attraverso l’integrazione di conoscenze che derivano da più domini del sapere.

Per rispondere alla seconda sfida bisogna lavorare sulla capacità di costruire un pensiero analitico e critico attraverso la formazione interdisciplinare in cui scienze dure e scienze umane si complementano per rispondere a domande formative di un mondo ben più sofisticato. Sto immaginando, tanto per fare degli esempi, corsi di studio più flessibili, università meno ingessate in rigidi settori disciplinari, più spazio per esperienze pratiche realizzate in collaborazione tra l’università e l’industria e, last but not least, un maggior uso dell’IA nella didattica per personalizzare i percorsi di apprendimento e migliorarne l’efficacia.

Intelligenza artificiale e lavoro: verso soluzioni ibride uomo-macchina

Una seconda conclusione è più affascinante e dai confini meno prevedibili. La vera rivoluzione deriverebbe da sistemi di intelligenza ibrida, in cui gli esseri umani aumentano le proprie capacità cognitive con strumenti di IA, creando un nuovo paradigma di intelligenza che trascende l’equilibrio attuale. Di questa ipotesi esistono già numerose istanze.

Un recente articolo del Wall Street Journal illustra, per esempio, un caso di interazione tra medici ed IA a vantaggio della salute mentale per gli studenti delle scuole. In risposta alla carenza di consulenti, alcuni istituti scolastici americani hanno introdotto delle chatbot basate sull’intelligenza artificiale che forniscono supporto alla salute mentale. “Sonny”, in particolare, sviluppata da Sonar Mental Health, interagisce con gli studenti per affrontare le loro ansie e i casi di depressione. Operando sotto la supervisione umana, con risposte controllate da professionisti in psicologia e intervento in caso di crisi, Sonny è stata introdotta in nove distretti scolastici, servendo oltre 4.500 studenti. In questo ibrido approccio alla salute mentale l’IA gestisce le interazioni iniziali, mentre i casi critici sono inoltrati a consulenti umani, colmando con successo molte lacune nei servizi di salute mentale.[10]

Sonny non è l’unica applicazione. È noto che le migliori idee nascono in gruppo. Sistemi di intelligenza ibrida sono stati applicati anche per migliorare i processi di ideazione collaborativa. La ricerca sull’intelligenza collettiva aumentata (ACI) combina le intuizioni umane con le capacità dell’IA di affrontare argomenti complessi. Le considerazioni sulla progettazione degli esperimenti in questo campo sottolineano l’importanza della selezione dell’argomento, della diversità dei partecipanti e di metodi di valutazione robusti. Studi empirici suggeriscono che tali agglomerati di intelligenza artificiale e umana performano meglio degli sforzi individuali, portando a soluzioni più innovative.[11]

La possibilità di rafforzare con soluzioni ibride le capacità cognitive ha significative conseguenze sul sistema della formazione. Alcune strategie meritevoli di un approfondimento sono l’incremento dell’uso dell’IA nei processi di apprendimento attivo e nella valorizzazione della creatività e dell’intuizione umana. Nel primo caso l’IA potrebbe analizzare le discussioni di un gruppo e suggerire nuove direzioni per il dibattito identificando collegamenti tra concetti complessi. Nel secondo caso i percorsi formativi, anche universitari, dovrebbero includere corsi su creatività applicata, design thinking e innovazione guidata dall’IA sfruttando la sua capacità di generare nuove idee.

Poiché è improbabile che il futuro prossimo sia caratterizzato da una massiccia sostituzione del lavoro umano, mentre è possibile che sia pervaso da un’intelligenza ibrida in cui uomini e macchine collaborano per risolvere problemi complessi e generare innovazione, è auspicabile rimodellare sin d’ora il sistema educativo per formare persone capaci di sfruttare al massimo questa nuova forma di intelligenza collettiva.

L‘intelligenza artificiale e il futuro del lavoro: un equilibrio possibile

Gli economisti parlano spesso di equilibrio. È la conseguenza dell’avere costruito la propria scienza come trasposizione della fisica allo studio della società. Un’ambizione che ha ben servito la nostra conoscenza, seppure non senza difficoltà o limitazioni. L’equilibrio nei modelli economici, come in fisica, è rappresentazione di bilanciamento tra forze – per esempio, in economia, la domanda e l’offerta. Al contrario, il ricorso all’equilibrio che discende dalle riflessioni in queste pagine fa appello ad un’interpretazione ben diversa.

Nell’analisi dei rischi legati all’evoluzione dell’IA la scienza economica offre buone ragioni per un cauto ottimismo. Le GPT non hanno ridotto il contributo del lavoro alla creazione di benessere e, sebbene il rischio oggi sia qualitativamente diverso a causa della sostituzione cognitiva, l’evidenza empirica che abbiamo è consistente, ancora una volta, con una relazione positiva tra innovazione e lavoro.

Di più: lo studio dei processi di ricombinazione dei fattori ci dicono cosa stia succedendo e ci permettono, se non di prevedere, per lo meno di attrezzarci per le difficoltà. Uno degli investimenti complementari più importante è l’investimento in capitale umano. L’espansione dell’IA richiede non solo che cresca, ma che si adegui al cambiamento portato dalla sostituzione cognitiva. Nel breve periodo il rischio per il lavoro non è l’evoluzione tecnologica ma la densa struttura di interessi costituiti nel mondo dell’educazione terziaria che frenerà la ricerca di modelli di formazione al passo con la sfida che ho descritto.

Nel lungo periodo, invece, la cautela è d’obbligo. Se nel breve termine l’IA appare come un complemento alle capacità umane, un acceleratore di innovazione e produttività, in un futuro più distante potrebbero emergere sfide imprevedibili: la crescente autonomia dell’intelligenza delle macchine, inattesi impatti sul lavoro intellettuale o la possibilità di un’IA che ridefinisca i propri obiettivi senza supervisione umana. Sino a che punto gli esseri umani riusciranno a mantenere il controllo dell’IA nel futuro distante, come faranno a garantire che l’evoluzione dell’IA rimanga un’opportunità per l’umanità e non una minaccia è una sfida alla quale la scienza economica da sola non può rispondere.

Nel lungo periodo dovremo appellarci all’equilibrio, inteso come bilanciamento tra ottimismo e prudenza, ma soprattutto come buon senso – correttamente inteso, direbbe Tocqueville – cioè denso di attenzione non solo verso le legittime istanze e ambizioni individuali ma anche verso l’interesse delle comunità in cui gli individui vivranno.

Note


[1] L’articolo che esplora l’avanzamento dell’IA è: Charlie Giattino, Edouard Mathieu, Veronika Samborska and Max Roser (2023). “Artificial Intelligence”, published online at OurWorldinData.org, retrieved from: ‘https://ourworldindata.org/artificial-intelligence’ [Online Resource]. Il sito OurWorldinData.org mette a disposizione altre risorse e dà, con un linguaggio non tecnico, sistematicità alla misurazione dei progressi dell’IA.

[2] Mi riferisco soprattutto a quella parte dell’AI che alcuni chiamano Artificial General Intelligence (AGI), altri Powerful AI, altri ancora Human-Like Artificial Intelligence (HLAI). Secondo la definizione di Google, HLAI è “l’intelligenza ipotetica di una macchina che possiede la capacità di comprendere o apprendere qualsiasi compito intellettuale che può essere compreso o appreso da un essere umano”. La definizione è estratta da: https://cloud.google.com/discover/what-is-artificial-general-intelligence?hl=it.

[3] La letteratura sui benefici e i rischi dell’IA è ormai enorme. Mi limito a pochi contributi. Il primo è Dario Amodei (2024), “Machines of Loving Grace. How AI Could Transform the World for the Better”. https://darioamodei.com/machines-of-loving-grace. Amodei è il fondatore di Anthropic, una delle organizzazioni che hanno sviluppato un modello di IA. Il suo contributo mette in luce le incredibili potenzialità dell’IA nelle scienze naturali e della salute. Il secondo contributo è Erik Brynjolfsson (2022), “The Turing Trap: The Promise & Peril of Human-Like Artificial Intelligence”, Dedalus, Journal of the American Academy of Arts & Sciences, 151(2).

[4] Un modello matematico di funzionamento delle GPT si trova in Timothy Bresnahan e Manuel Trajtenberg (1995), “General Purpose Technologies ‘Engines of growth’?”, Journal of Econometrics, 65, pp. 83-108. Una trattazione più completa che ne esamina le implicazioni è Timothy Bresnahan (2010), “Chapter 18 – General Purpose Technologies”, in Bronwyn H. Hall, Nathan Rosenberg (a cura di), Handbook of the Economics of Innovation, North-Holland, Volume 2, pp. 761-791. Ci sono poi diversi tentativi di stabilire empiricamente se IA sia una GPT. In tal senso si veda Kerstin Hötte, Taheya Tarannum, Vilhelm Verendel e Lauren Bennett (2024), “Measuring Artificial Intelligence: A Systematic Assessment and Implications for Governance, arXiv, 2204.10304, https://arxiv.org/abs/2204.10304.

[5] Una posizione in tal senso si trova nel dibattito italiano sui rischi dell’IA in Paolo Benanti e Sebastiano Maffettone (2024), Noi e la macchina. Un’etica per l’era digitale, Luiss University Press.

[6] Si veda Andrew McAfee (2024), “Generally Faster. The Economic Impact of Generative AI”, Technology & Society at Google Report. Sulla complementarietà tra AI e competenze umane in radiologia si veda Nikhil Agarwal, Alex Moehring, Pranav Rajpurkar e Tobias Salz (2024), “Combining Human Expertise with Artificial Intelligence: Experimental Evidence from Radiology.” NBER Working Paper Series #31422.

[7] L’osservazione storica è tratta da Daron Acemoglu e Pascual Restrepo (2019a), “Automation and New Tasks: How Technology Displaces and Reinstates Labor”, Journal of Economic Perspectives, 33 (2), pp. 3-30. L’idea di interpretare ciascun lavoro come un insieme di compiti (task) ha origine in diversi altri paper, tra i quali: Daron Acemoglu e Pascual Restrepo, (2018a) “The Race Between Machine and Man: Implications of Technology for Growth, Factor Shares, and Employment.” American Economic Review 108(6):1488–1542. Daron Acemoglu e Pascual Restrepo, (2018b), “Robots and Jobs: Evidence from US Labor Markets.” NBER Working Paper #23285. Daron Acemoglu e Pascual Restrepo, (2019b), “Artificial Intelligence, Automation and Work.” In Ajay Agrawal, Joshua Gans e Avi Goldfarb (a cura di), The Economics of Artificial Intelligence: An Agenda. University of Chicago Press, pp. 197-236.

[8] Max Tegmark (2017), Life 3.0. Being Human in The Age of Artificial Intelligence, Penguin. Trad. It. Vita 3.0. Essere umani nell’era dell’intelligenza artificiale, Raffaello Cortina Editore, 2018.

[9] Tania Babina, Anastassia Fedyk, Alex X. He e James Hodson (2023), “Firm Investments in Artificial Intelligence Technologies and Changes in Workforce Composition.” NBER Working Paper Series #31325.

[10] Julie Jargon. “When There’s No School Counselor, There’s a Bot.” Wall Street Journal, 22 febbraio 2025.

[11] Emily Dardaman e Abhishek Gupta (2023), “Augmented Collective Intelligence in Collaborative Ideation: Agenda and Challenges.” ArXiv, 2303.18010.

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