Una domanda “interessata” che – in questo particolare momento che stiamo vivendo – molti si pongono, nell’ambito delle tech company più innovative e delle strutture finanziarie che vivono intorno a esse, riguarda il ruolo che le tecnologie digitali e i business model su esse costruiti potranno giocare in un mondo che presumibilmente la disruption avrà reso molto diverso.
Se alcune forti accelerazioni della digitalizzazione che si stanno verificando forzatamente in questi giorni, a causa dei limiti posti alla circolazione e all’interazione sociale, si manterranno nella “nuova normalità” che si verrà a creare. Se ci saranno opportunità di crescita per tutte le tech company, a prescindere dai comparti sempre più variegati in cui esse operano o andranno a operare.
Non azzarderò previsioni puntuali: già difficili da fare in condizioni di normalità, impossibili in una fase di crisi di durata al momento indeterminata. Ma cercherò di raccontare come leggo io quello che sta accadendo, quali sono le aspettative che mi sembrano al momento più condivise, quali le scommesse che il mercato finanziario fa (pur con tutti i suoi limiti di shortermismo) nel momento in cui – nel quadro di uno sgonfiamento medio generale dei titoli – si mostra piuttosto selettivo nel valutare le singole imprese.
L’effetto coronavirus sulla vita nostra e delle imprese
La rapidissima diffusione del coronavirus su scala mondiale non solo ha duramente colpito un numero elevato di persone (1,2 milioni i contagiati e 65 mila circa i morti secondo le cifre ufficiali in data 5 aprile), ma ha spinto i governi di un numero sempre più elevato di Paesi a “mettere in coma farmacologico” le economie [il termine non è mio ma di un brillante articolo apparso su The Wall Street Journal], con una serie molto ampia di restrizioni sulle persone e sulle imprese e con una serie di interventi pubblici di supporto – molto differenziati per Paese (sulla base del livello di indebitamento ma non solo) – volti a mantenere in vita le une e le altre durante il “coma”. L’enormità delle cifre messe in gioco (con le ovvie conseguenze sul debito pubblico) – il 13% del PIL ad esempio in Danimarca per i soli primi tre mesi e il 10% negli Stati Uniti per una cifra equivalente al PIL italiano di un anno – e i rischi che comunque una parte non piccola del sistema delle imprese non sia più in vita nel momento in cui si potrà o si dovrà uscire dal “coma” fanno pensare che il mondo si trovi di fronte a una “coronavirus-driven disruption”, tanto più sconvolgente quanto più prolungata sarà la crisi sanitaria.
Come conseguenza, lo sappiamo tutti, nostre vite nel giro di poche settimane sono profondamente cambiate.
Un numero enorme di persone (io faccio parte della categoria) è confinato a casa propria e – se appena ne ha la possibilità – rimane attaccato alla rete per lunga parte della giornata.
Lo fa per operare in remote working, se l’impresa o l’amministrazione di cui fa parte ha reso attivo questo canale, partecipando anche – ad esempio con Microsoft Teams o Hangouts – a riunioni più o meno formali (dai consigli di amministrazione alle discussioni su progetti condivisi). Lo fa per acculturarsi, partecipando agli webinar più diversi.
Lo fa per incontrare gli amici in eventi virtuali: grande successo stanno ad esempio avendo gli aperitivi di gruppo con Zoom.
Lo fa per vedere un film o una serie televisiva su Netflix o Prime o Disney+.
Lo fa per accedere all’ecommerce soprattutto di Amazon, anche se con meno scelta del passato sia per la priorità posta da Amazon stessa sui beni ritenuti più essenziali sia per le difficoltà di approvvigionamento causate dalle rotture sempre più frequenti nelle supply chain di molte filiere. Lo fa per cercare di farsi portare a casa la spesa da Esselunga o Coop, con difficoltà crescenti però della grande distribuzione nel rispondere all’enorme volume di richieste.
Lo fa molto meno che nel passato, invece, per prenotare viaggi o alberghi, per lavoro o per vacanza, con riflessi ovviamente negativi per tech company come Booking e Expedia che avevano quasi soppiantato le agenzie tradizionali, per Google (ancorché con un impatto percentuale infinitamente minore) che stava cercando con un certo successo di impadronirsi di parte dei loro spazi, per Airbnb che era a un passo da un IPO estremamente promettente e che ha visto svanire – come peraltro le compagnie aeree e le catene di alberghi – il suo mercato.
Sono cambiate, e in misura spesso radicale, le vite delle imprese. Diverse delle grandi dell’auto hanno dovuto chiudere gli impianti: per la necessità di ristrutturare i processi produttivi garantendo il rispetto delle distanze di sicurezza, ma anche per il calo drammatico delle vendite conseguente ai vincoli posti ai movimenti delle persone in almeno la metà del mondo: vincoli che hanno pesato anche sui servizi offerti da Uber e dai suoi cloni.
A fianco delle chiusure volontarie e/o forzate dalle paure dei dipendenti (laddove era necessaria la presenza fisica), si sono diffuse sempre più le chiusure obbligate: non solo di bar e ristoranti, ma anche di tutti i negozi – da quelli di abbigliamento (lusso compreso) o elettronica ai concessionari di auto – che non vendono beni ritenuti essenziali. Con una ovvia pesante ricaduta sull’advertising in generale e con la prima grande inversione di rotta – dopo anni di tumultuosa espansione – del digital advertising dominato da Google e Facebook (con una recente apparizione sulla scena di Amazon).
Esplode il mercato – per quanto visto sopra – di imprese giovanissime come Zoom, che nella settimana fra il 26 marzo e il primo aprile ha visto ben 3,2 milioni di persone o imprese scaricare la sua app e che ora – nonostante le accuse di scarsa attenzione alla privacy e alla sicurezza dei dati – vale in Borsa quattro volte la nostra Telecom Italia.
Le grandi piattaforme – dopo aver toccato il minimo di popolarità per il loro (stra)potere crescente ed essere state messe poste sotto inchiesta quasi ovunque dalle authority antitrust nonché multate da quelle UE – sembrano vivere una fase di forte recupero sia nell’immagine sia nella capacità di influenzare le decisioni politiche.
Le piattaforme cloud – quelle di Amazon, Microsoft e Google in prima linea – si sono rivelate determinanti nel permettere alle imprese il passaggio al remote working senza costosi e defatiganti investimenti in nuove infrastrutture; le piattaforme di ecommerce, quella di Amazon in primo luogo ma anche quelle delle grande distribuzione tradizionale, stanno permettendo (seppur sottoposte a uno stress fortissimo) di compensare i vincoli ai movimenti delle persone e stanno facendo nuove assunzioni in un momento in cui la disoccupazione esplode; il social network di Facebook è divenuto punto di riferimento nelle discussioni sul Coronavirus e il nostro primo ministro ha addirittura scelto la “diretta Facebook”, invece che la tradizionale diretta TV, per annunciare l’arrivo di nuove rilevanti misure restrittive; la guerra alle fake news, da parte sia di Facebook (anche su Instagram) sia di Google (su YouTube), è diventata molto più radicale che nel passato, anche in Europa, con tagli che in periodi meno critici sarebbero stati bollati come censure arbitrarie; l’enorme quantità di dati di cui dispone Google, insieme con la sua capacità di geolocalizzazione, è stata messa a disposizione delle autorità sanitarie – a partire dagli Stati Uniti – per evidenziare i punti sul territorio (supermarket, ecc.) ove meno rispettati sono gli obblighi di social-distancing. E in Cina, un mondo sempre più separato nell’ambito digitale, le grandi piattaforme come Alibaba e Tencent stanno facendo la loro parte in stretta interazione con il governo.
Le big tech non si distinguono solo per il recupero di immagine e di peso politico, ma anche per i loro bilanci che rimangono floridi e per la liquidità spesso elevatissima di cui dispongono, nonostante le politiche generose di distribuzione di dividendi e di buyback portate avanti negli ultimi anni soprattutto da Apple (forte di un utile netto che è arrivato a rasentare i 60 miliardi di dollari) e da Microsoft. Più differenziata la situazione delle tech company di dimensione minore, con possibili criticità nei bilanci derivanti dallo stato di salute (anch’esso molto differenziato) dei loro clienti e con possibili problemi – analoghi a quelli delle imprese più tradizionali – di carenza di liquidità. È un problema quest’ultimo spesso drammatico per le tech start
up, anche per molte di quelle denominate unicorni per i valori (superiori al miliardo di dollari) loro attribuiti nei round di finanziamenti privati, che in larghissima maggioranza privilegiano la crescita rispetto al conseguimento di profitti e alla prudenza finanziaria.
Quale futuro per le tech company
Su diversi punti mi sembra ci sia un consenso generale, e ne cito solo alcuni dei principali.
L’organizzazione del lavoro nelle imprese, che già stava cambiando con il diffondersi delle prime forme di smart working, non sarà più la stessa dopo il massiccio ricorso di questi giorni – un po’ ovunque nel mondo – al remote working. Sarà necessaria però la messa a punto di modelli organizzativi anche fortemente innovativi, in grado di gestire al meglio la nuova realtà.
L’uso delle videoconferenze – per gli incontri di lavoro, per la formazione universitaria e scolastica, per l’organizzazione di eventi, per i contatti privati che coinvolgono più persone – si ridurrà ovviamente rispetto allo stato di necessità attuale, ma troverà un suo ruolo rilevante anche nel post-crisi, favorito dai grandi progressi che nel frattempo si stanno verificando nella strumentazione e nel software e dal potenziamento delle reti (già previsto con la diffusione ad esempio del 5G). Una possibile conseguenza è la riduzione di viaggi e spostamenti.
Crescerà ulteriormente l’ecommerce, sia perché sta crescendo in questi giorni la percentuale di persone che si abitua a utilizzarlo sia perché si stanno organizzando per sfruttarlo imprese che (come H&M) lo rifuggivano e ne verificano i vantaggi imprese che (come Nike) lo avevano già adottato in precedenza.
Il mercato finanziario scommette sulle “tech company”, ma molto selettivamente
Le Borse nel frattempo continuano a scommettere sulle tech company, guardando alle prospettive ma influenzate anche – presumibilmente – dallo stato di salute attuale di molte di esse. Sono tech le prime sette imprese per capitalizzazione di Borsa al mondo – le Big Five statunitensi e le cinesi Alibaba e Tencent – se si esclude dal computo Saudi Aramco (che ha una percentuale di flottante incompatibile con le regole delle piazze finanziarie più importanti). Sono tech otto sulle prime dieci imprese, se si include nella categoria anche Visa, per la rilevanza dell’infrastruttura tecnologica che ne costituisce il vero punto di forza e che l’ha fatta collocare – nell’ambito dello S&P 500 (il notissimo indice dell’andamento delle Borse statunitensi) – nella categoria “Information Technology” (insieme con Microsoft, Apple e Intel) invece che in quella “Financials”. Sono tech 27 sulle prime 100 imprese, 29 se si includono anche Visa e Mastercard (che ha una configurazione simile a Visa).
Questo se si guarda ai dati al 31 marzo 2020. Ma quale impatto ha avuto finora il Coronavirus? Se si limita l’analisi alle 29 tech che fanno capo alle prime 100, e si confrontano i dati di capitalizzazione alla fine di marzo con quelli di cinque mesi prima (prima cioè dell’ultimo grande balzo di inizio 2020), si vede che le tech sono andate mediamente meglio – o molto meglio – delle imprese tradizionali, ma con forti scarti al loro interno. A fronte di un calo del 15% dello S&P 500, ben sette delle prime 29 tech hanno visto viceversa salire le loro capitalizzazioni: Amazon e Microsoft (più 10% circa), Alibaba e Tencent, Adobe, Netflix (+27%) e Nvidia. Apple, colpita dal calo del mercato cinese e dalle difficoltà nelle sue supply chain, è calata ma molto meno dell’indice generale (meno 4%). Cali moderati (meno 8% circa), ma doppi rispetto a PayPal, hanno avuto Visa e Mastercard. Alphabet-Google e Facebook sono state più penalizzate (meno 13% circa), presumibilmente per le prospettive negative del digital advertising: un fenomeno che ritengo però destinato a rientrare (se non addirittura a invertirsi) nel dopo-crisi, con la riapertura dei negozi. Mentre hanno avuto un calo più elevato dell’indice generale sette delle imprese storiche dell’IT: AT&T (meno 25%), Cisco, Comcast, Sap, Ibm, Broadcom e Qualcomm.
Perché non ha più molto senso parlare di “tech company”
Un andamento così divergente spinge a una riflessione sulla reale significatività – aggregativa e distintiva – del termine tech company: sulla significatività cioè nel definire un insieme di imprese coeso nelle caratteristiche e nelle prospettive e nel marcarne i confini rispetto a quelle che una volta erano chiamate imprese brick&mortar. Io sono convinto che il termine sia sempre più generico, perché la penetrazione di imprese tech nei comparti più diversi ne riduce i tratti comuni e perché la digital transformation è un passo sempre più obbligato per le imprese brick&mortar che vogliono sopravvivere. Sono convinto, in altri termini, che progressivamente quasi tutte le imprese saranno in qualche misura tech e che la coronavirus-driven disruption accelererà fortemente questo processo, facendo uscire di scena molte delle imprese non in grado di adeguarsi.
E il nostro Paese?
Se il nostro Paese vorrà riprendersi nel post-crisi, dovrà favorire in ogni modo la nascita di nuove imprese che – qualunque sia il comparto in cui operano – sappiano sfruttare al meglio le tecnologie digitali, costruendo su di esse business model competitivi. Dovremo lavorare sulle competenze, che rappresentano un grosso punto di debolezza non solo nel confronto con Stati Uniti e Cina, ma anche con gli altri Paesi UE. Dovremo lavorare sul reperimento di risorse finanziarie, nel clima sempre più acuto di scarsità che ci si prospetta: rinunciando prima di tutto alla nostra storica propensione a mantenere in vita imprese decotte in stato premortuale (non faccio nomi) piuttosto che promuovere la nascita di nuove.