Nel 2008, quando lasciai New York dove ero stato per sei anni corrispondente dell’Espresso, negli Stati Uniti vigeva ancora una regola non scritta secondo cui un politico che mentiva era fuori dai giochi: nell’America puritana e calvinista, almeno in politica, le menzogne non avevano diritto di cittadinanza.
Internet e fake news cambiano l’opinione pubblica?
Poi, nel 2016, quando Donald Trump viene eletto per la prima volta, PoliFact, un’organizzazione che verifica le affermazioni dei due candidati, certifica che il 70%, delle affermazioni del neopresidente durante la campagna elettorale risultano false, solo il 4% vere.
È allora che comincio a chiedermi se sia Internet, con il diluvio di fake news a cui ci ha abituati, a cambiare l’opinione pubblica in modo così radicale.
Negli anni successivi gli indizi che qualcosa di profondo stava accadendo nell’opinione pubblica globale continuano ad accumularsi.
La crisi della democrazia nel mondo e la crescita della polarizzazione
Nel 2022, un rapporto di Freedom House mostra in modo evidente quanto sia grave la crisi della democrazia nel mondo: dal 2005 al 2021 il numero di paesi “liberi” è sceso dal 46 al 20,3%, mentre quello dei paesi parzialmente liberi è salito dal 17,9 al 41,3%. Fino al 2005 il numero di democrazie era in crescita dal 1989, poi il crollo.
Presto comincio ad annotare altri indizi sorprendenti (e poco tranquillizzanti): negli anni immediatamente successivi al 2005 comincia a crescere ovunque la polarizzazione tra i cittadini, si impenna la sfiducia nei confronti dei governi mentre le vendite dei giornali vanno in picchiata.
Gli anni dell’inversione
Mi chiedo (seguendo l’opinione di numerosi esperti nei diversi settori) se esista un legame tra questa inversione di tendenza e la diffusione dei social network, che cominciano a dilagare dopo il 2004 (quando appare Facebook) e soprattutto dopo il 2007 (anno di nascita dell’iPhone).
Creo una cartella sul mio computer, la nomino “gli anni dell’inversione” e comincio ad annotare le ricerche su quel periodo. Presto emergono altre cose interessanti.
Infelicità in aumento dopo il 2011
Per esempio Jon Clifton, amministratore delegato di Gallup, storica società di sondaggi, nota che nel mondo l’infelicità delle persone subisce un vistoso aumento dopo il 2011 e che nel 2021 la percentuale di individui che dichiarano di vivere la peggiore vita possibile è più che quadruplicata rispetto a dieci anni prima. Questo è particolarmente evidente tra i giovani, tanto che in molti paesi il numero di suicidi tra gli adolescenti cresce in modo inaspettato parallelamente all’aumento dei disturbi psichici.
Proteste di massa e conflitti armati in crescita
Scavando nelle ricerche su quegli anni, saltano fuori altri indizi. Secondo un Rapporto del CSIS (Center for Strategic & International Studies) di Washington, tra il 2009 e il 2019 le proteste di massa, a livello globale, crescono ogni anno in media dell’11,5% arrivando a «eclissare gli esempi storici di epoche di protesta di massa come la fine degli anni Sessanta, la fine degli Ottanta e l’inizio dei Novanta».
Difficile crederlo, ma anche il grafico dei conflitti armati ha un momento di discontinuità: scopro su “Foreign Affairs” che, secondo l’Uppsala Conflict Data Program, i conflitti nel mondo, in discesa costante tra il 1990 e il 2007, da quella data crescono senza sosta: «Nel 2022 c’erano 55 conflitti attivi, con una durata media di circa 8-11 anni, un aumento sostanziale rispetto ai 33 conflitti attivi, che duravano in media sette anni, un decennio prima».
La nascita dei social è la causa?
Ovunque vedo grafici che, in quegli anni, cambiano verso, come se la storia umana fosse stata colpita da un’invisibile scossa tellurica. Fino a che punto l’instabilità che colpisce diversi aspetti della nostra vita, può essere attribuita alla diffusione di Internet, che proprio in quegli anni si impenna, e soprattutto all’emergere dei social network che dilagano a partire dal 2007?
«Correlation does not imply causation», diceva lo statistico britannico Karl Pearson: se due eventi sembrano correlati non è detto che tra i due ci sia un rapporto di causalità. Il fatto che a pochi anni dalla nascita dei social network molti paesi siano investiti da gravi fenomeni di instabilità non significa che il web e le piattaforme siano i principali responsabili. Anche se, guardando i numeri e le date, nasce almeno il sospetto che il digitale possa avere avuto un ruolo: nel 1990 poche decine di migliaia di persone erano collegate a Internet nel mondo, nel 2009 erano un miliardo e mezzo, nel 2023 oltre cinque miliardi. Nel giro di una generazione le reti digitali hanno invaso la nostra vita, modificato le nostre abitudini, cambiato il nostro modo di informarci, di comunicare, di passare il tempo e molto altro.
Un parallelo tra la diffusione di internet e l’invenzione della stampa
È diventata quasi un’ovvietà paragonare gli anni che stiamo vivendo – quelli della diffusione di Internet – a quelli che seguirono l’invenzione di Johannes Gutenberg, nel Quattrocento. Ma cosa accadde allora?
L’impatto della stampa sulla società
Elizabeth Eisenstein, la storica che ha scritto il testo fondamentale sulla rivoluzione della stampa a caratteri mobili, usa la parola disruption – in italiano perturbazione, rottura – per descrivere l’impatto che quell’invenzione ebbe sulla società cinque secoli or sono. È la stessa parola che viene comunemente usata oggi per illustrare le conseguenze sociali ed economiche del digitale.
L’invenzione di Gutenberg – sono le parole di Eisenstein – diede origine a un proliferare di start up (molte delle quali destinate a fallire) che in pochi decenni portò a una moltiplicazione delle tipografie. Venezia, sede di molti editori, si trasformò nella Silicon Valley dell’epoca.
L’abuso di vocaboli a cui ci ha abituato la rivoluzione informatica è giustificato dal fatto che anche quella rivoluzione, come quella che stiamo vivendo, sconvolse l’ordine sociale come nessuno aveva previsto.
Nel 1440 esisteva una sola copia stampata della Bibbia. Nel 1450 ce n’erano 50, sparse per l’Europa. Cinquant’anni dopo erano un migliaio. Cent’anni dopo si producevano 400.000 libri l’anno; nel XVII secolo 500 milioni.
La rivoluzione culturale emersa dall’invenzione della stampa
La rivoluzione culturale che emerse dall’invenzione della stampa fu sconvolgente e largamente imprevista. Il 31 ottobre 1515 Martin Lutero, quando appese le sue 95 tesi alla porta della chiesa di Magonza, non immaginava che due settimane dopo sarebbero state distribuite a Londra, né che presto sarebbe diventato il primo autore di bestseller: la sua traduzione della Bibbia in tedesco vendette 5.000 copie in due settimane e in sette anni (dal 1518 al 1525) fu ristampata in 430 edizioni.
Alla tecnologia della stampa a caratteri liberi – secondo gli storici – va attribuita la Riforma protestante, la nascita dell’Illuminismo, il fiorire della scienza moderna e l’invenzione dell’opinione pubblica. Ma anche il proliferare delle sette religiose, un paio di secoli di instabilità politica, di guerre e persecuzioni sanguinose.
«La tecnologia è un acceleratore. […] I nuovi media alimentano le turbolenze politiche a causa dell’instabilità e della perdita di fiducia del pubblico nelle istituzioni», dice Margaret O’Mara, storica alla University of Washington. L’innovazione, assieme a molti effetti positivi, può generare sfaceli.
La storia delle piattaforme digitali negli ultimi vent’anni
Nel libro che ho appena pubblicato – “La fattoria degli umani” (Treccani editore) – ripercorro la storia delle piattaforme digitali negli ultimi vent’anni. E cerco di dimostrare – rileggendo le ricerche che sono state pubblicate nel corso degli anni – che l’“inversione” a cui abbiamo assistito negli anni dopo il 2005 – la crisi delle democrazie, la crescita della polarizzazione, l’aumento del malessere degli adolescenti e molto altro – sono in larga parte da attribuire alla nuova ecologia digitale che ha cambiato la nostra vita. La rielezione a valanga di Donald Trump è, a mio parere, un altro indizio che mostra come i nuovi media stiano modificando la cultura collettiva. La personalizzazione di ogni servizio e lo spappolamento dell’opinione pubblica in un numero infinito di microcomunita ha talmente permeato le nostre vite che neanche ci rendiamo conto di come eravamo prima. I giovani non possono saperlo, perché prima non c’erano.