Il 15 giugno 1987, l’allora Comunità Europea promuove per la prima volta il programma Erasmus – EuRopean Community Action Scheme for the Mobility of University Students – (oggi Erasmus+) con l’obiettivo di favorire l’apprendimento universitario per mezzo della mobilità studentesca.
Il programma, tutt’ora considerato uno degli strumenti più efficaci per la promozione dell’apprendimento all’estero, offre la possibilità a studenti di Università partner di frequentare dai 3 ai 12 mesi in una Università ospitante all’estero. Il suo successo è immediato e segna quasi una intera generazione. Per molti studenti, infatti, il programma Erasmus rappresenta la prima vera occasione di vivere all’estero in modo indipendente.
Erasmus+, focus sui partenariati di cooperazione: chi può partecipare e impatti attesi
Questo vuol dire che un progetto, nato con finalità di tipo principalmente didattico, diventa con il tempo un vero e proprio progetto culturale che, proprio per questo, non a caso, ha ispirato prodotti artistici di diverso tipo: libri, opere d’arte, ma soprattutto film e serie tv. Senza andare troppo in là con gli anni, solo per fare un esempio potremmo citare il film italiano “Un figlio chiamato Erasmus” uscito nel 2020, in pieno periodo di isolamento da pandemia e che racconta la storia di un gruppo di ragazzi italiani che, dopo aver stretto amicizia durante l’Erasmus in Portogallo, si incontrano di nuovo 10 anni dopo per una nuova avventura insieme.
Grazie allo studio nell’Università ospitante è possibile apprendere abitudini e particolarità di una nuova cultura, ma anche sviluppare un senso di comunità che comprende tutti gli studenti di nazionalità diversa da quella ospitante. L’Erasmus è un’occasione per imparare a convivere con culture diverse, oltre che un momento in cui lo studente inizia ad assumere delle responsabilità proprie e a prendere una posizione su questioni transnazionali.
L’Erasmus “virtuale” in tempo di Covid
Nel 2020 il progetto Erasmus, come tutti i programmi di mobilità all’estero, ha subito un brusco arresto. Nel giugno 2020, alla fine della “prima ondata” dell’emergenza, la Commissione Europea ha invitato le Agenzie Nazionali Erasmus Plus a promuovere l’integrazione della mobilità virtuale nei progetti di mobilità KA1*. Anche la mobilità, come la didattica, diventa quindi blended, ovvero adotta soluzioni miste tra mobilità virtuale e geografica in cui la parte virtuale mira ad arricchire, integrare e preparare la mobilità fisica reale.
Ma la domanda che da più parti è sorta spontanea all’interno degli uffici internazionalizzazione accademici è: la mobilità virtuale può garantire davvero un processo di apprendimento autentico? E allo stesso modo, possono preparare davvero al mondo del lavoro i tirocini on line? Che pure in questo 2020 hanno del tutto sostituito le esperienze in presenza?
Queste domande sono, dal mio punto di vista cruciali, in questo momento, sono state sviscerate in molti modi quest’anno anche durante NAFSA 2021, la fiera internazionale dell’Educazione più importate al mondo e che ha avuto luogo, online, a maggio. Da un lato la constatazione di un crescente trasferimento del lavoro dagli uffici in presenza, allo smart working (Kate Lister, presidente del Global Workplace Analytics, citato da Vox, dichiara che nel 2025, circa il 70 percento della forza lavoro, lavorerà in remoto almeno 5 giorni alla settimana), cosa che giustifica in qualche modo la preparazione dei giovani ad abituarsi ad una nuova modalità di apprendimento e che quindi ha portato molti relatori ad affrontare in modo costruttivo un nuovo approccio alla mobilità on line, dall’altra le loro voci, che da qualche mese a questa parte, quando si avvicinano all’ufficio internazionalizzazione per informarsi sulla possibilità di partire, sottolineano di voler “partire davvero”.
Gli scambi virtuali durante la Guerra Fredda
Gli scambi virtuali di carattere internazionale non sono di certo una novità ed hanno origini molto lontane. Sperimentazioni nel campo delle telecollaborazioni fra scuole avvengono già alla fine degli anni ’80, quando lo scambio tra giovani studenti di scuole americane e russe sembra una buona idea per abbattere stereotipi e tensioni sociali legate alla guerra fredda. L’idea è quella di sfruttare la tecnologia per migliorare la qualità dell’apprendimento e della conoscenza promuovendo la consapevolezza e il rispetto delle diversità.
Gli scambi virtuali sono diventati parte integrante del programma Erasmus Plus nel 2017, quando l’isolamento a cui ci avrebbe costretto la pandemia da Covid non era in nessun modo immaginabile. Gli Erasmus Virtual Exchange (EVE) sono stati implementati nel periodo 2018 – 2020 a seguito della firma della Dichiarazione di Parigi nel 2015 da parte dei ministri europei dell’istruzione. Durante il triennio di attività hanno intercettato più di 35.000 studenti e facilitatori, diventando, di fatto, per molti giovani, parte integrante del proprio curriculum.
Ma mentre nel 2018 si trattava di esperienze che non escludevano la mobilità geografica, anzi, spesso, ne rappresentavano una prima fase, diverso è il caso di questi due ultimi anni accademici, in cui gli studenti non hanno avuto possibilità di scelta e ora si trovano a dover far fronte ad un cambiamento di approccio alla mobilità dettato dai numeri.
Il caso delle Accademie d’arte
E qui vorrei riferirmi essenzialmente al caso delle Accademie d’arte, in cui lavoro a più livelli da diversi anni (sia nella parte didattica che in quella dedicata agli scambi internazionali) ed in cui la creatività è al centro del processo educativo stesso. L’apprendimento all’interno di queste Istituzioni è garantito dallo scambio e dall’accoglienza della diversità per definizione. Il confronto, l’osservazione, l’esperienza, l’accettazione, sono parte di un processo che permette la stessa produzione culturale degli studenti. In questi due ultimi anni accademici ho assistito non solo ad una normale frustrazione degli studenti legata alla instabilità della situazione nazionale e internazionale, per cui sono stati costretti all’immobilità e all’isolamento come tutti, ma ho assistito anche e soprattutto ad un significativo calo della loro produttività in termini creativi.
Quando manca il confronto/scontro reale con l’altro, l’osservazione diretta del diverso, la riflessione concreta sull’incompreso, vengono a mancare gli stimoli per crescere come individui e, con essi, il desiderio di prendere una posizione precisa. Cosa che un creativo deve essere educato a fare. Pena la sua difficoltà di inserirsi nella comunità che dovrebbe accoglierlo.
Ora, seppure chiaramente la discussione in atto non sia relativa a quando e come la mobilità si trasformi in esperienza virtuale, poiché una tale trasformazione tradirebbe la sua stessa natura, constato però che la discussione vira sempre di più e sempre più pericolosamente, secondo me, su come far sì che queste esperienze possano migliorare al fine di sostituire, se necessario, e quando necessario quelle geografiche. Personalmente ritengo che alcune esperienze si possano fare solo in un modo, e se non si possono fare così, evidentemente non si possono fare.
Quindi perché non discutere su come fare in modo che questi giovani, a cui la pandemia ha negato la possibilità di fare esperienze di mobilità e di lavoro in presenza possano essere “risarciti” o “ricompensati” piuttosto che domandarsi come trasformare altri giovani in creativi a metà?