Usare le informazioni del futuro e del passato per interpretare e guidare il presente. L’uomo e la natura da sempre si sono confrontati con trasformazioni o evoluzioni disruptive, quella digitale è solo l’ultima arrivata. Allora forse si possono trovare spunti per interpretare l’evoluzione digitale negli Haiku di un poeta sconosciuto del ‘700 giapponese, che ho trovato fortuitamente in un volumetto acquistato sul lago di Como e che userò per introdurre ogni tema della rubrica, ma anche dai monasteri benedettini, dai broccoli romaneschi, dal Bushido, dalle esperienze di chi è già nel futuro, dalla Divina Commedia, da due medici sperduti nel Vietnam rurale e dalle cattedrali romaniche.
L’evoluzione digitale spiegata con gli “Haiku”: il ciclo delle rondini e la filosofia Agile
Digitalizzazione e giovinezza
Vi propongo, allora, il terzo Haiku:
“L’anima è vecchia,
Se guarda e non vede più
L’opportunità.”
Il terzo Haiku che vorrei condividere parla di giovinezza, anche se non sembra. Perché la giovinezza (o la sua assenza) sta nello sguardo.
La foto che vedete in apertura è stata presa nel labirinto del percorso “Lo Spirito del Bosco” di Canzo. Per chi lo ha sperimentato, è certamente un’esperienza interessante. Come non smarrirsi? Forse basta alzare lo sguardo e vedere, tra i tronchi fitti e slanciati, la posizione del sole. Un piccolo esempio di opportunità (letteralmente: ciò che ti spinge verso il porto – dal latino ob e portum).
Ne volete un altro? Sono sempre stato affascinato dalla teoria dei “devianti positivi”[2]. Tutto inizia da una coppia di medici che lavoravano per Save the Children, i coniugi Sternin. Questi studiarono i comportamenti di alcune madri nel poverissimo Vietnam rurale degli anni ’90. Scoprirono che, a parità di condizioni di povertà e disagio, alcuni bimbi non erano denutriti come gli altri. Incuriositi, andarono a fondo e si accorsero che le madri di questi fortunati non si comportavano esattamente come le altre. Ad esempio, aggiungevano qualche gamberetto al riso, forzavano i bambini a mangiare anche quando non stavano bene, frazionavano i pasti in modo che fossero sempre consumati completamente. Con questi semplici accorgimenti riuscivano a crescere figli forti e sani in comunità in cui i bambini erano quasi tutti denutriti.
Gli effetti della “malnutrizione culturale” cronica
Anche nelle nostre aziende c’è una “malnutrizione culturale” cronica. Negli ultimi anni, e ancor più durante il periodo della pandemia, abbiamo accelerato sempre più i percorsi di digitalizzazione e la maggior parte delle persone non ha avuto gli strumenti culturali per stare al passo.
L’iperattivismo propositivo e l’entusiasmo acritico
Osservo due effetti. In qualche caso, anche a causa del fenomeno della “consumerizzazione” dell’IT, vi è un iperattivismo propositivo. La semplicità dell’ultima app viene fraintesa, facendo scivolare ogni discussione nei luoghi comuni tipo: “Lo voglio come Amazon, che ci vuole” oppure “basta fare un’app che costa poche migliaia di euro e abbiamo risolto” o ancora “io mi compro i servizi IT che mi servono sul cloud”. Non si riesce a capire che dietro l’apparente banalità di alcune app, che sono solo la punta di un iceberg, c’è un’architettura complessa, un pensiero strategico e meccanismi organizzativi e logistici impressionanti. Non è un caso se Jeff Bezos ha detto che Amazon è un’azienda di logistica. Non un sito di e-commerce, non un’app. Chi ha una cultura digitale vede la punta dell’iceberg e riesce a valutare la massa di lavoro sommerso che sostiene quella punta, chi non ha questa cultura iper-semplifica cadendo nella trappola di quelli che P. Watzlawick chiamava “i semplificatori terribili”.
Rassegnazione di fronte alle difficoltà
In altri casi i benefici dell’evoluzione digitale sono invece stroncati dalla rassegnazione apatica rispetto alle difficoltà organizzative e relazionali che in ogni società umana complessa sono inevitabili. Allora diventa impossibile ogni cambiamento perché il Top Management non è abbastanza direttivo, oppure perché lo è troppo. Una iniziativa che non coinvolga tutti gli attori non può avere successo, ma ogni progetto a cavallo tra più direzioni è impraticabile per mancanza di fiducia e capacità di collaborazione. E poi quelli dell’IT ogni volta che chiedi qualcosa ti fanno 1000 domande e non se ne viene mai a una, oppure i key users non sanno mai cosa vogliono e ti fanno girare in tondo inseguendo requisiti che sono più “buone intenzioni” che espressioni di un’idea compiuta.
L’evoluzione digitale spiegata con gli “Haiku”: il nesso tra tecnologie, vette e obiettivi
In entrambi i casi, che ci sia sgomento e paura di fronte della complessità dell’evoluzione digitale o entusiasmo acritico, si perde la capacità di vedere le opportunità che il digitale mette a disposizione.
I devianti digitali positivi in azienda
Vi garantisco però che in tutte le aziende ci sono dei “devianti positivi”. Per rendere possibile una vera evoluzione digitale, bisogna partire da quello che abbiamo, dalle persone culturalmente più pronte. I “devianti digitali positivi” vi stupiranno perché non hanno età: a volte sono i più giovani, ma a volte anche persone “di esperienza”. I devianti digitali positivi sono ricchi di molte risorse, ma soprattutto hanno un talento innato per empatizzare e collaborare con gli altri, trovano soluzioni creative ai problemi, vedono le opportunità, non cercano mai un colpevole da accusare perché sanno che un’accusa è un muro, mentre loro costruiscono ponti.
Le possibili soluzioni per valorizzare le potenzialità umane
Come far emergere le potenzialità umane delle nostre organizzazioni, valorizzando i devianti positivi, per trarre il meglio dall’evoluzione digitale? Vorrei poter condividere una ricetta, ma non ne ho. Ci sono però alcune cose che ho visto funzionare e che potrebbero aiutare a svecchiarci e a “vedere il porto”.
Ho visto funzionare l’innesto di nuovi professionisti (spesso giovani) in organizzazioni tradizionali: chi è in azienda da anni (a volte da decenni) ne trae stimoli nuovi apportando un contributo fondamentale di esperienza, i nuovi ingressi portano l’entusiasmo e una visione esterna che non guasta mai.
Ho visto funzionare operazioni di “cultural hacking”, ossia piccoli cambiamenti che stimolano un nuovo modo di pensare e di agire. Da momenti di auto-formazione in cui un membro della squadra forma gli altri, alla formazione tradizionale ma accompagnata dalla presenza di un percorso di coaching post-formazione.
Ho visto funzionare i momenti di condivisione per favorire il networking con altre realtà simili, per evitare di reinventare sempre la ruota.
Ho visto funzionare azioni di miglioramento continuo come le analisi post-mortem (e a volte pre-mortem) degli eventi critici.
Ho visto funzionare i team misti IT-Business (fusion team li chiama ad esempio Gartner) e i momenti di confronto informale (pranzi, colazioni…) e di formazione cross-team.
Ho visto funzionare la revisione dei processi in ottica Lean abbinata a percorsi di evoluzione digitale, in modo da considerare e ottimizzare tutti gli aspetti del servizio.
Cosa non fare
Invece non ho mai visto funzionare una trasformazione/evoluzione digitale in un contesto non disponibile al cambiamento culturale, dove le opportunità vengono trasformate nel tentativo spasmodico di evitare i rischi o nel trasferirli nel “campo” di qualcun altro.
Non ho mai visto funzionare l’evoluzione digitale dove non vi è una cultura digitale (metodologica, tecnologica, architetturale) di base diffusa tra tutti gli attori e una capacità da parte dei professionisti IT di capire i processi e le priorità del business.
È finito il tempo in cui culture diverse, poco comunicanti, potevano portare avanti processi di cambiamento in modo più o meno indipendente con il modello “a silos”. Le connessioni e le dipendenze sono aumentate esponenzialmente, il Covid lo ha dimostrato.
E la comunicazione e la collaborazione tra professionisti IT e tutti gli altri stakeholder (portatori di interesse) non è mai stata così cruciale come ora. Le opportunità ci sono tutte, basta vederle.
Conclusioni
Anche nei momenti più bui. Come diceva Italo Calvino ne “Le città invisibili”: “L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.” Ma per riconoscere ciò che inferno non è e farlo crescere serve un’anima giovane, a qualunque età!