Human-centered design

L’evoluzione digitale spiegata con gli haiku: la foresta e il metaverso

Camminare nella foresta fa bene all’umore e al sistema immunitario: perché non progettare gli spazi, anche digitali, in funzione del nostro benessere? In un mondo che va di corsa, riscoprire lo “scambio immoto” può essere una chiave di sostenibilità: ecco come

Pubblicato il 03 Ott 2022

Giuliano Pozza

Chief Information Officer at Università Cattolica del Sacro Cuore

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Usare le informazioni del futuro e del passato per interpretare e guidare il presente. L’uomo e la natura da sempre si sono confrontati con trasformazioni o evoluzioni “disruptive”, quella digitale è solo l’ultima arrivata. Allora forse si possono trovare spunti per interpretare l’evoluzione digitale negli Haiku di un poeta sconosciuto del ‘700 giapponese, che ho trovato fortuitamente in un volumetto acquistato sul lago di Como e che userò per introdurre ogni tema della rubrica, ma anche dai monasteri benedettini, dai broccoli romaneschi, dal Bushido, dalle esperienze di chi è già nel futuro, dalla Divina Commedia, da due medici sperduti nel Vietnam rurale e dalle cattedrali romaniche.

Il nono haiku: i benefici del bagno nella foresta

“Alberi e foglie

Si incontrano in bellezza

Scambio immoto”

Di tutti gli Haiku che abbiamo visto finora questo è forse il più oscuro: ognuno di noi può trovarci il significato che vuole. Di seguito una interpretazione, una delle tante possibili. Non è anche questa la bellezza della poesia e dell’arte in generale?

La prima cosa che mi fa venire in mente questo haiku è un’altra moda giapponese: lo Shinrin-yoku, che qualcuno traduce con “bagno nella foresta”. Negli anni ’80, in Giappone, alcuni scienziati cominciarono a studiare gli effetti benefici sull’umore e sul sistema immunitario delle passeggiate nella foresta.

Sì, lo so, sembra un’ovvietà, ma questi studi riuscirono a misurare e oggettivare quello che dice il buon senso, ossia che se passeggio in una foresta sto meglio che se cammino a Tokyo[1]. Pare che alcune sostanze emanate dalle piante per proteggersi dagli insetti (quel “buon odore di natura” che sentite passeggiando in un bosco) chiamate fitoncidi abbiano un ruolo fondamentale, ma se volete saperne di più vi rimando ai testi citati.

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Lo scambio immoto e il ruolo della prossimità

Ciò su cui vorrei focalizzarmi ora, mentre immobile sfreccio verso Roma sul Frecciarossa sorseggiando del tè verde giapponese, è la bellezza e lo “scambio immoto” di cui parla il poeta.

Avete mai la sensazione (al lavoro soprattutto, ma spesso anche in famiglia) di correre come delle trottole o come le palline dei flipper con cui quelli della mia generazione giocavano qualche anno fa? E per quanto a volte si cerchi di rallentare, è come se tutto il contesto ti spingesse a riprendere la corsa il prima possibile. Tutto questo correre, paradossalmente, ci fa essere lenti nel centrare gli obiettivi che contano. Detto all’inglese: stiamo barattando l’outcome (ossia il risultato) con gli output (ossia le singole azioni, i prodotti).

Facciamo molte cose, corriamo molto, ma verso dove? Che sia necessario ogni tanto fermarsi per gustarsi la bellezza e ritrovare l’armonia? Che sia bello e forse anche utile avere degli “scambi immoti” e non finalizzati ad obiettivi specifici? Credo proprio di sì.

Ci sono diversi studi interessanti che dimostrano come il creare spazi per i team perché possano avere momenti di relax, di bellezza, di scambi casuali (potremmo dire “immoti” come per gli alberi, ossia non finalizzati a un obiettivo) sia un modo non solo per aumentare il benessere delle persone (esito già di per sé nobilissimo), ma anche di aumentare la produttività e la creatività.

Uno studio interessante mostra come durante la pandemia, in cui sono mancate queste modalità di scambio non strutturate, i team hanno intensificato le interazioni interne mentre sono crollate quelle verso altri team. Diversi autori, tra cui il già citato Logan[2], sottolineano come la prossimità anche fisica tra le persone sia fondamentale per dare i giusti messaggi alla nostra amigdala e far crescere confidenza e fiducia. E, se ci sono le condizioni giuste, le persone tendono a trovare i propri spazi e le giuste vicinanze o distanze, come avviene per gli alberi della foresta.

Ma, tranne in pochi casi, tutto questo non avviene naturalmente come per gli alberi. Allora come favorire questo meccanismo?

Architettura e benessere: l’esempio del chiostro

Vi confesso che da questo punto di vista ho una grande fortuna: lavoro praticamente in un chiostro rinascimentale! Chi abbia provato a passeggiare nei chiostri del Bramante di Università Cattolica sa di cosa parlo. Oppure andate a visitare un qualunque monastero medioevale: da Chiaravalle a Milano alla Certosa di S. Martino a Napoli, per citarne due tra le migliaia che abbiamo. Il chiostro è un luogo di raccoglimento, di riflessione, ma anche di scambio. È il luogo in cui tutti passavano per andare alle celebrazioni, al refettorio alla biblioteca e in cui l’abate può incontrare l’ortolano come l’erudito. E quanta pace e quanta innovazione si è sviluppata intorno ai chiostri dei conventi nei secoli!

Nelle università che hanno la fortuna di avere un chiostro, questo è il luogo in cui studenti, personale amministrativo, docenti, presidi e dirigenti… prima o poi passano e si incontrano. Ogni volta che devo entrare o uscire da università passo dai chiostri del Bramante, anche se potrei fare altre strade: e quanta bellezza e quanti incontri/scambi ho avuto modo di vivere! Il tema è per me così affascinante che ne ho scritto altre volte.

Tutto bello, direte, ma per chi non ha la fortuna di vivere un chiostro perché lavora in un’azienda normale? Ecco, io penso che il chiostro sia un’idea, una metafora prima che uno spazio fisico. Dovremmo ripensare gli spazi aziendali con in mente l’idea antica ed innovativa del chiostro. Suggerisco di leggere a tal proposito un’interessantissima tesi di laurea che ho trovato in rete dal titolo: “Reciprocal influences between the design and architecture of workplace and the development of innovation”.

Progettare il metaverso a misura di uomo

Faccio un passo oltre. Ormai il workplace è sempre più digitale. Capita sempre più spesso di partecipare a riunioni online con persone da tutto il mondo, incluso magari il nostro vicino di scrivania. Ormai lo spazio digitale è quello in cui ci muoviamo per la maggior parte del tempo. Ora che lo stiamo ripensando, grazie anche al fatto che le tecnologie di realtà virtuale e aumentata sono ormai mature, perché non “riprogettarlo” prendendo spunto dalle idee migliori dell’umanità per favorire i rapporti sereni e creativi tra le persone, tra cui il chiostro?

Dovremmo cominciare a pensarci seriamente e affrontare il tema non solamente dal punto di vista tecnologico. Dovremmo far lavorare insieme architetti, esperti di storia, psicologi, sociologi, filosofi, designer, specialisti digitali per progettare spazi veramente a misura d’uomo. E forse la prima cosa da fare sarà rinunciare agli effetti speciali e togliere i fronzoli dal metaverso, per raggiungere quella semplicità che è la prima garanzia di qualità e innovazione, come vedremo nel prossimo haiku.

Se sapremo fare questo percorso, allora il metaverso non sarà solo un luogo di lavoro o di evasione, due estremi che se polarizzati diventano alienanti. Il metaverso (qualunque cosa poi significherà nella realtà, perché ancora nessuno lo sa bene) sarà allora anche un luogo di bellezza e di scambi immoti.

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Note

  1. Yoshifumi Miyazaki (2018) “Shinrin-yoku. La teoria giapponese del bagno nella foresta per ritrovare il proprio equilibrio”. Ed. Gribaudo
  2. Logan, D; King, J. (2009). “Tribal Leadership: Leveraging Natural Groups to Build a Thriving Organization”. Ed. HarperCollins

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