Lo scenario

L’IA leva per un nuovo modello socio-economico sostenibile: ecco come

L’emergenza sanitaria ha imposto un cambiamento, in cui l’Intelligenza artificiale può rappresentare il fulcro di un nuovo modello di sostenibilità per economia e società: vediamo gli ambiti in cui l’applicazione della tecnologia potrebbe favorire questo processo

Pubblicato il 16 Dic 2020

Piero Poccianti

past president AIxIA

Gianpiero Ruggiero

Esperto in valutazione e processi di innovazione del CNR

green

L’Intelligenza artificiale può essere leva per il cambiamento imposto dall’emergenza sanitaria su grandi temi come il clima, la Sanità e le diseguaglianze sociali, ponendosi come pilastro per un nuovo modello socio-economico basato sulla sostenibilità.

L’IA è in grado di aiutare la costruzione di nuove metriche per affrontare le sfide che gli Stati hanno di fronte. Non è possibile pensare solo alle risorse disponibili e ai progetti per utilizzarle: abbiamo bisogno di una nuova strategia di crescita, definita dall’uso di nuovi strumenti matematici, da nuovi modelli di misurazione della complessità, da nuovi studi di non linearità nel ciclo economico. Vediamo in che modo questo può avvenire e quali sono gli ambiti di impatto.

Il contesto attuale

Del resto, la pandemia da Covid-19 ha avuto un impatto enorme sulla vita dei cittadini, causando numerose vittime, e sull’economia, generando una grave recessione, in Italia, in Europa e a livello mondiale. Come usciremo da questa crisi? Nelle misure di stimolo alla ripresa economica a livello europeo, ma non solo, vi è un’indubbia maggiore attenzione alle tematiche ambientali. C’è anche tanta speranza che in tempi brevi, grazie al ritmo crescente della trasformazione digitale e a tecnologie come l’Intelligenza Artificiale, che alzano sempre più l’asticella del potenziale della tecnologia, si possano affrontare alcune delle più grandi sfide della società, soprattutto se si guarda a temi critici come il cambiamento climatico, l’assistenza sanitaria e l’ingiustizia sociale.

L’intervento dell’IA, infatti, non si ferma alle sole azioni a scopo di lucro. Con l’aiuto dell’IA è possibile generare una migliore qualità di vita per i cittadini, promuovere nuove collaborazioni economiche, stabilire ecosistemi intelligenti, reperire molteplici informazioni oggettive per aiutare grandi imprese, ma anche artigiani e piccole imprese, oltre che l’intero settore pubblico. È ormai chiaro che il cambiamento non è più una scelta, ma diventa un must nel mercato post-Covid. Ma per poter avviare realmente una nuova normalità, occorre capire bene il contesto in cui collochiamo l’IA e occorre interrogarsi su quali saranno le nuove chiavi di lettura del sistema economico e perché è così centrale capire il contesto in cui ci muoviamo.

Etica del digitale e interpretazione del contesto

Non ci può essere un’etica del digitale se prima non capiamo il contesto in cui operiamo. Nel mercato della nuova normalità, non è più questione di investire, ma di investire bene in progettualità che diano risposte concrete a problematiche economiche, sociali e ambientali. In tutti i centri di ricerca più accreditati al mondo, nelle imprese più importanti e nei fondi di investimento più rilevanti, si parla ormai di economia della sostenibilità impact-driven. Ri-concettualizzare la sostenibilità dello sviluppo del pianeta rappresenta l’economia che vivremo nei prossimi anni.

Nell’economia che sta arrivando, la sfida più grande da affrontare, per non farci trovare impreparati, è quella di provare a legalizzare la complessità del valore, considerando per valore non soltanto quello che è stato contabilizzato attraverso le metriche finanziarie, ma anche a quello che è estendibile a dimensioni che le metriche finanziarie, a oggi, non sono in grado di catturare. Prendere coscienza che quello che abbiamo contabilizzato finora, da quando Kuznest presentò nel 1934 al Congresso degli Stati Uniti il suo primo calcolo del PIL (da allora diventata la misura basilare usata in macroeconomia e il principale parametro di valutazione del sistema economico[1]), è solo una parte dell’intero spettro del valore. Esiste una parte più nascosta dello spettro del valore, molto preziosa, che non viene ancora colta dai sistemi di contabilità nazionali, quella della dimensione sociale (come il volontariato, il lavoro domestico) e della dimensione ambientale (costo delle esternalità negative, consumo suolo, prosciugamento riserve idriche, inquinamento acqua, ecc.).

La capacità di fondere queste tre dimensioni (economica, sociale e ambientale) darebbe uno spettro più ampio di valore, olistico e circolare, che consentirebbe di dare visibilità a opportunità che prima non eravamo in grado di vedere.

Riuscire a dotarsi di un “cruscotto del benessere”, sostenendo la proposta, ideata nel 1989 da Herman Daly e John Cobb, di utilizzare un indicatore alternativo al PIL, quindi, di dotarsi di un set di indicatori in grado di comprendere anche i costi sociali e i danni ambientali di medio e lungo termine, darebbe la possibilità di interpretare meglio il contesto in cui ci troviamo. Un contesto in cui lo sviluppo di un Paese non si basa più soltanto sulla mera crescita economica, ma anche su fattori sociali e ambientali che caratterizzano l’orizzonte dello sviluppo sostenibile.

Se pensiamo che il modello tradizionale dell’economia che giudica il capitale e il lavoro le risorse scarse e parte dall’assunto che quelle naturali siano inalterabili e inesauribili, dobbiamo cambiare paradigma di sviluppo. Se vogliamo un mondo diverso, dobbiamo cominciare col definire un modo diverso per misurare il costo e il beneficio della ricchezza. Perché tutto ciò che misuriamo influenza ciò che facciamo e se le nostre misurazioni sono sbagliate, le decisioni potrebbero essere distorte. Se davvero crediamo nello sviluppo sostenibile, dobbiamo allora rendere visibile l’invisibile e fare scelte coraggiose, radicali e coerenti per indirizzare società ed economia nella direzione giusta che il cruscotto del benessere ha misurato e indicato. Ma come si fa a misurare la crescita, intesa come benessere di una nazione, e a costruire metriche per l’altra parte nascosta del valore? Quale cruscotto è in grado di misurare la complessità delle sfide che ci attendono?

L’economia circolare come modello

Il valore sociale e il valore ambientale sono valori complessi da misurare e spesso questa complessità spaventa e fa indietreggiare anche i soggetti più propensi al cambiamento.

Siccome siamo stati abituati a contabilizzare solo una parte del valore, abbiamo meno conoscenza e meno prassi di come si fa a fronteggiare quella parte che a oggi non viene catturata. Ecco allora che sorge l’esigenza di ridurre il problema della complessità e guardare a quei semi di conoscenza, sparsi per il mondo, che ci potrebbero aiutare.

Il rapporto sul Benessere equo e sostenibile (Bes) che l’Istat pubblica ogni anno va nella direzione auspicata. Sebbene il rapporto assuma come punto di partenza la multidimensionalità del benessere e descriva, attraverso l’analisi di un ampio set di indicatori, l’insieme degli aspetti che concorrono alla qualità della vita dei cittadini, il BES non è ancora pienamente utilizzato dai decisori politici ed è visto con scetticismo da una parte degli economisti. Ciò nonostante, l’istituzione della Cabina di regia “Benessere Italia”, collocata presso la Presidenza del Consiglio, in termini di governance è un segnale positivo e incoraggiante. Resta il fatto che il concetto di crescita economica sostenibile, della sua dimensione, qualità e distribuzione, deve essere sviscerato, studiando meglio le implicazioni a livello macro e micro della transizione alla green economy alla quale l’Europa giustamente richiama il nostro impegno.

Anche l’economia circolare può venire in aiuto alla costruzione del nuovo cruscotto, perché il concetto di circolarità ha la prerogativa di insegnare a gestire le risorse scarse – quelle realmente scarse – in maniera ottimale. L’economia circolare, infatti, per le sue caratteristiche di non consumare tutte le risorse in un ciclo aperto e di non ammettere scarti inutilizzati, ha il pregio di spiegare da che parte dirigere la crescita, contribuendo a scardinare l’idea che gli ecosistemi sono solo i luoghi di approvvigionamento delle materie prime e a individuare quel “cruscotto del benessere” in grado di misurare, con nuovi indicatori di costo, quanto consumiamo in termini di risorse scarse (ambiente).

IA e ottimizzazione delle risorse

L’utilizzo dell’IA per l’ottimizzazione delle risorse va in questa direzione. Ci sono ormai molte pratiche di utilizzo dell’IA per un’economia circolare in giro per il mondo. Questi semi di conoscenza rappresentano esperienze concrete da guardare per andare oltre le metriche finanziarie. Nel settore primario, per esempio, l’agricoltura intelligente consente di ridurre l’utilizzo di insetticidi a pioggia. Grazie all’uso dei dati è possibile prevedere l’esatto consumo di cibo in un determinato territorio, riducendo così il problema degli scarti alimentari. Si pensi al settore sanitario, dove l’IA aiuta a garantire una precisione maggiore nell’elaborazione di una diagnosi e anche più velocità dell’individuazione di una patologia.

Nel settore energetico esistono esempi di utilizzo di fonti energetiche alternative al carbone e agli idrocarburi che utilizzano l’IA per coordinarne la produzione e il consumo in modo ottimale. Stiamo costruendo città intelligenti che, grazie all’IA, promettono di ottimizzare i trasporti, ridurre o annullare i rifiuti urbani, ottimizzare l’energia per consumi industriali e casalinghi e quella relativa al riscaldamento e condizionamento degli edifici.

Senza allungare l’elenco possiamo citare il fatto che McKinsey, con una ricerca pubblicata a dicembre 2018, già citava 135 applicazioni di Intelligenza Artificiale a livello mondiale tese al raggiungimento del 17 obiettivi di sviluppo sostenibile dell’ONU. Questi esempi ci dicono che applicando la potenza del digitale (machine learning, intelligenza artificiale in generale) a queste esperienze segmentate, rendendole sistemiche in una sorta di intelligenza collettiva, saremmo in grado di capire meglio il contesto, facendo marciare all’unisono governi, economie e società verso la direzione desiderata del benessere equo e sostenibile.

L’IA per il governo dei dati a sostegno di imprese e distretti

Accanto al problema della riduzione della complessità della misurazione, si pone anche un tema di efficienza, ossia di rendere poco costoso, utilizzabile e gestibile, questo processo di cambiamento per le nostre imprese e organizzazioni. Nell’arena europea, l’economia del nostro Paese si caratterizza per essere basata su una fitta rete di piccole e medie imprese, di artigiani e di piccole eccellenze. Nel corso degli anni queste imprese si sono messe insieme, creando filiere e distretti. Dobbiamo perciò chiederci cosa può fare l’ecosistema dell’Intelligenza Artificiale per preservare e sostenere queste eccellenze italiane.

La prima cosa da fare è sicuramente quella di edificare un modello di governance dei dati, intervenendo da un lato sui dati detenuti dal settore pubblico e, dall’altro, fornendo servizi di data sharing per le imprese. Solo fornendo agli artigiani e ai piccoli imprenditori strumenti tecnologici, costruiti insieme alle Associazioni di categoria rappresentative, si riuscirà a fornire loro una base comune valida per tutti.

Una volta ottenuta un’ossatura digitale comune, da andare successivamente a personalizzare, si potrà ottimizzare il colloquio tra imprese e PA, tra imprese del medesimo distretto e tra distretti diversi. Sfruttare a pieno il potenziale di queste reti, riuscendo a collegare le funzionalità e a far dialogare i sistemi informativi di queste imprese, tra di loro e con la PA, è la sfida che il sistema dell’IA ha davanti. Una sfida che caratterizza l’intera Europa. Con la pubblicazione da parte della Commissione europea della proposta di Regolamento per promuovere la condivisione dei dati, controllo sui dati, fiducia, trasparenza, neutralità, sicurezza, diventano tutti requisiti destinati a permeare gli interventi nei settori strategici (salute, ambiente, energia, agricoltura, mobilità, finanze, industria manifatturiera, pubblica amministrazione e competenze).

Un modo di trattare e gestire i dati alternativo a quello proposto dalle piattaforme tecnologiche private – e già qui le conseguenze sistematiche e ideologiche non sono di poco conto – basato su vocabolari condivisi e ontologie per l’interoperabilità semantica[2]. È fondamentale costruire vocabolari comuni che consentano di taggare i dati in modo univoco. Dobbiamo costruire ontologie condivise per il settore della pubblica amministrazione, per i distretti industriali e le altre entità già citate.

Nella comunità europea è attivo il gruppo di Semantic Interoperability Community. La comunità dell’interoperabilità semantica sviluppa soluzioni[3] per aiutare le amministrazioni pubbliche europee a effettuare scambi di dati tra domini senza soluzione di continuità, ma anche ontologie di base di riferimento sui concetti di persona, business, location che possono costituire la base per sviluppi di altri strumenti di interoperabilità.

L’importanza della condivisione dei dati

Nel nuovo mondo in cui ci apprestiamo a entrare, uno dei fattori di successo è rappresentato dall’utilizzo e della condivisione dei dati. Per questo è fondamentale puntare su linguaggi ontologici per il web semantico, che rendono i documenti intelligenti e permettono ai sistemi informativi di riuscire a dialogare tra loro. In tale direzione, azioni di policy e progetti pilota dovrebbero riguardare anche il settore pubblico. La necessità che i servizi pubblici diventino più data-driven, per implementare nuove soluzioni basate sull’IA e fornire servizi personalizzati, è ormai evidente.

Se l’utilizzo e la condivisione dei dati (vocabolari e linguaggi comuni) rappresentano la chiave di volta per qualsiasi organizzazione, pubblica o privata che sia, ciò comporta per il Governo puntare a incrementare gli investimenti in questa direzione, consentendo alla comunità scientifica dei ricercatori di orientare gli sforzi per ottimizzare i processi di apprendimento e funzionamento. Oggi esiste la necessità di realizzare grandi cloud e data center per le enormi potenze di calcolo che il modello delle deep neural network richiede. Lo sforzo di integrazione dei diversi paradigmi che costituiscono l’Intelligenza Artificiale (simbolici e subsimbolici) promette di diminuire tali necessità consentendoci di utilizzare anche altre infrastrutture, più vicine ai dati come quelle di fog computing (server dislocati nelle aziende) e edge compunting (piccoli dispositivi capaci di elaborare le informazioni direttamente dove vengono generate).

Premesso che dove sarà opportuno le informazioni andranno centralizzate (cloud computing) e dove servirà l’elaborazione delle informazioni andrà decentrata e posta direttamente vicina a dove viene prodotta (edge computing), è indubbio che aggregazioni e analisi di big data on-site non solo consentono di prendere decisioni quasi in tempo reale, in più riducono il rischio di esposizione dei dati sensibili, poiché si mantiene la potenza di elaborazione locale, consentendo così alle aziende di controllare meglio la proliferazione di informazioni (come i segreti aziendali) o di conformarsi alle politiche di regolamentazione (come il GDPR).

Decentralizzare i servizi offre alle aziende anche una maggiore capacità di resilienza[4] e, al contempo, un risparmio sui costi, in quanto avere la potenza di elaborazione vicino alla sorgente significa ridurre drasticamente i costi della larghezza di banda per trasmettere continuamente i tuoi dati tra le sedi periferiche e il sito centrale. L’edge computing, di fatto, ben si colloca in scenari nei quali la copertura delle reti fisse e mobili è limitata e dunque la connettività tra centro e periferia e viceversa non garantisce adeguate performance.

Conclusioni

Una volta capito il contesto ecosistemico in cui agire, sarà più facile selezionare i progetti in cui l’utilizzo dell’IA potrà apportare benefici maggiori, ottimizzando al meglio il consumo di risorse sempre più scarse e consentendoci di rilanciare la crescita. Dobbiamo però puntare alla crescita del benessere e smettere di credere che questa sia corretta intimamente a quella del PIL e, spesso, dello spreco. L’Europa ha posto solide basi per lo sviluppo di un’IA affidabile grazie a strategie e approcci nazionali. Nel frattempo sta emergendo una maggiore disponibilità a condividere i dati, per combattere la crisi sociale e fornire servizi efficaci. Ora sono richieste azioni e iniziative politiche per sostenere anche nel nostro Paese un forte ecosistema di IA, dinamico e incentrato su associazioni, startup, aziende private e settore pubblico, in grado di creare nuove soluzioni per una crescita più responsabile della società e dell’economia.

In Italia ci sarebbero tutte le caratteristiche per essere pionieri e leader, oltre che follower, di questa nuova interpretazione del modello socio-economico. Tuttavia, c’è ancora molto lavoro da fare per implementare soluzioni IA su larga scala, per sviluppare una forza lavoro con le competenze necessarie per farlo e per sfruttare tutto ciò che l’IA ha da offrire.

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Note

  1. Lo stesso Kuznest metteva in guardia sul pericolo di scambiare il PIL come una misura del benessere di una nazione.
  2. L’interoperabilità semantica è definita come la «possibilità, offerta alle organizzazioni, di elaborare informazioni da fonti esterne o secondarie senza perdere il reale significato delle informazioni stesse nel processo di elaborazione» (fonte: «Linee Guida per l’interoperabilità semantica attraverso i Linked Open Data» AgID).
  3. https://joinup.ec.europa.eu/collection/semantic-interoperability-community-semic/document/process-and-methodology-developing-core-vocabularies
  4. Mantenendo la potenza di elaborazione locale, le sedi periferiche possono continuare a operare indipendentemente da un sito centrale, anche se quest’ultimo dovesse smettere di essere operativo.

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