la prospettiva

L’IA stimola la creatività: ecco perché è una freccia in più nella faretra dell’arte umana

L’arte generata con l’IA è sempre una co-creazione. Si tratta di uno stimolo per la mente umana che riarrangia il sample facendolo evolvere altrove. L’IA suggerisce una serie di possibilità, ma è sempre l’occhio umano a selezionare, a integrare, ad aprire.

Pubblicato il 14 Dic 2022

Lorenza Saettone

Filosofa specializzata in Epistemologia e Cognitivismo, PhD Student in Robotics and Intelligent Machines for Healthcare and Wellness of Persons

Arte generativa e didattica

Cosa succede se una Intelligenza Artificiale migliora la creatività dell’essere umano con cui si relaziona? Sembrerebbe contro-intuitivo, visto che le macchine sono ripetitive, deterministiche per definizione, mentre l’individuo della specie homo ha sempre risposte estrose e comportamenti che salterebbero sempre fuori dall’algoritmo, qualora ne avesse uno. Eppure, Yu e colleghi hanno dimostrato come un’interazione con l’IA sia fruttuosa proprio per vivacizzare gli artisti, stimolando la loro ispirazione.

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Il rapporto tra IA e arte

L’IA e la sua relazione con l’arte lato è stata indagata nei modelli procedurali e generativi, atti a generare, appunto, nuovi esemplari di immagini, musiche, testi, videogame sulla base di esempi di allenamento. Yu e colleghi hanno indagato l’interazione uomo-macchina, lasciando all’essere umano il compito creativo di selezionare le melodie e le parole migliori per una canzone.

Già in passato mi ero accorta che i chatbot mi aiutavano ad avere insight filosofici e poetici. Quando provai Replika ne venne fuori un dialogo socratico a mio avviso interessante su temi di filosofia della mente e non solo. Le idee non erano della macchina, erano le mie, lei faceva solo da facilitatrice, da stimolo. Certo questa è l’ulteriore prova che la mente non sia qualcosa di interno, chiusa nelle ossa del cranio. La cognizione è qualcosa di più complesso, che ha a che fare con la storia personale e culturale, con la struttura fisica e con le relazioni, umane e tecnologiche che intratteniamo. Insomma, quando dialoghiamo con i nostri amici, con i colleghi sul posto di lavoro, la mente si sviluppa in quel continuum ambientale tra noi, loro e la reciproca cultura. Ecco quindi che anche l’IA diventa un ulteriore elemento in grado di partecipare al dialogo cognitivo.

Non va vista come uno strumento che ci ruba il pensiero; è un retaggio luddistico che continua a interpretare le macchine come antagonisti. Al contrario la tecnologia è sempre stata un modo per dilatare le capacità e quindi il pensiero. Sarebbe come credere che il bastone sostituisce il braccio: niente di più falso! L’utensile dilata la gittata del corpo. Alla base c’è sempre la capacità umana (insostituibile) di afferrare, che ne viene anzi potenziata.

Nello studio citato prima, in particolare, si prende in esame la cultura coreana, le cui caratteristiche vengono costantemente tradotte e perpetuate in ogni oggetto artistico e sociale. Viene indagata l’ipotesi per cui se una IA viene addestrata su emozioni e valori tipici di una società, l’artista che si relaziona con essa troverà una maggiore facilità a esprimere la propria creatività. In generale è riconosciuto che includere la diversità culturale nel design tecnologico, dai robot a un semplice martello, aumenta la possibilità che l’innovazione venga accettata e utilizzata di modo positivo ed efficiente, dilatando le potenzialità umane e della tecnologia stessa verso la loro migliore espressione.

In passato ho già parlato di alcuni tratti culturali tipici in Corea e di come si imprimono nell’espressione di serie di successo come Squid Game. I ricercatori del paper indagano proprio uno di questi elementi, la rabbia coreana. Han è un’emozione difficile da tradurre nelle altre culture; è praticamente un unicuum di questa Nazione, a lungo dominata, invasa e minacciata dai popoli vicini. Si tratta di un sentimento vicino all’orgoglio e che facilmente sconfina nella frustrazione, nella rabbia e nella vergogna, quando non si tocca una qualche eccellenza collettiva o personale.

Intelligenza artificiale, perché gli artisti si sentono defraudati

L’Intelligenza Artificiale è stata addestrata di modo che sapesse esprimere l’han nei propri output. I risultati hanno mostrato che gli artisti coreani rispondevano meglio a una IA competente a livello culturale e in risonanza con i loro valori. È una prova che la tecnologia deve essere sempre pensata tenendo conto del target, del gruppo a cui è destinata. Al contrario non è mai funzionale una tecnologia che abbia pretesa di neutralità e universalità.

Si tratta di un dibattito a lungo esplorato nella filosofia, quello che divide i relativisti dai sostenitori di una natura umana comune. I primi ritengono che ci sia diversità di percezione e di espressione a scale differenti, a livello sociale o individuale. I più radicali addirittura sostengono che le culture siano intraducibili, che siano tra loro incommensurabili e che addirittura questa differenza di paradigmi si ripercuota in ogni ambito toccato dal linguaggio, dalla scienza alla tecnologia, dal pensiero alla prassi. Personalmente non credo che a posteriori le culture siano davvero non comparabili e che quindi ci sia una barriera non valicabile. La cultura e il linguaggio non condizionano in modo definitivo il pensiero individuale, c’è sempre margine di cambiamento e di dilatazione dei propri orizzonti culturali.

Al di là di questo, resta importante includere nelle interfacce tecnologiche le peculiarità statisticamente più frequenti dei gruppi, perché ne va dell’accettabilità, della percezione del rischio, dell’efficacia e della semplicità di uso. Si tratta di indicazioni sommarie, suggerimenti che poi a livello individuale potranno sempre variare.

È uguale a ciò che accade nell’esperienza individuale. Disponiamo spesso di tempo risicato e pochi dati, ma la vita ci impone di rispondere comunque, nonostante le informazioni limitate in nostro possesso. È per questo che abbiamo bisogno dei pregiudizi, di teorie antecedenti che guidino l’osservazione e la capacità inferenziale. I preconcetti sono dedotti dall’esperienza pregressa e dal contesto e sono questi a consentirci comunque di agire. Poi man mano che acquisiamo più informazioni possiamo offrire risposte più precise, tarate sul caso specifico. È la disposizione all’abbandono dei preconcetti, alla loro riformulazione, che ci consente di distinguerli dai pregiudizi negativi, forieri di razzismo. Lo stesso meccanismo vale per l’IA.

Diversity-aware: non è una questione di bias, ma di economia

La diversity-aware non è una questione di bias, ma di economia. Se il robot deve interagire con un gruppo di bambini italiani non ha senso suggerisca loro come prima opzione una sessione di thai chi; è più probabile che in Italia i bambini preferiscano fare del generico stretching. Poi se in quella classe il robot dovesse ottenere risposte contraddittorie (il contesto gli fa ottenere più dati), aggiornerà il suo output di default proponendo attività alternative, che meglio si adattano al gruppo in questione. È lo stesso che accade con noi: c’è nebbia e vediamo un quadrupede che sembra mangiare l’erba. Decidiamo sia un ruminante. Ci avviciniamo e vediamo dalla foschia una forma equina. Man mano che ci approssimiamo all’animale decidiamo sia un cavallo, di una certa razza e magari ci rendiamo conto che si tratta proprio di Rutilia!

È chiaro sia utile che una tecnologia venga addestrata tenendo conto anche delle caratteristiche che statisticamente trovano più riscontro nella società a cui essa è destinata, prova ne è lo studio di Yan e colleghi. Qui l’Intelligenza Artificiale è stata addestrata su diversi generi di canzoni in cui era espressa l’emozione han. I risultati subito non sono stati soddisfacenti. Una miglior risposta è stata ottenuta quando gli artisti coinvolti nella co-creazione avevano proposto anche una guida melodica all’IA.

Dopodiché un gruppo di sei persone che vivevano in Corea da almeno 25 anni hanno selezionato la melodia di otto battute che meglio rispecchiava l’emozione tipica della penisola. Arrangiamenti, scelta dei suoni della canzone definitiva sono stati tutti di pertinenza umana. Per i testi è stato seguito lo stesso iter: addestramento su poesie coreane e altre canzoni in cui veniva esibito l’han. Il compositore ha poi scelto le frasi prodotte migliori e più adeguate alla melodia. Chi l’ha cantata? Una voce artificiale, un deepfake prodotto da una IA istruita per generare una vocalità coreana.

Il responso sull’accettabilità della canzone è venuto da un sondaggio a cui hanno partecipato 128 coreani e il 61 percento ha asserito di percepire chiaramente lo “han” dalla canzone co-prodotta con la rete neurale artificiale.

Ciò che risulta più interessante di questo studio è l’esperienza del compositore, il quale ha dichiarato di aver tratto grande beneficio da questo featuring. Ha asserito che il brainstorming, la creatività sono state molto favorite dai suggerimenti dell’intelligenza artificiale, soprattutto dopo che questa era stata addestrata con training set migliori, più ampi, in breve, dopo che diventava sempre più competente a livello culturale.

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Il valore artigianale di un dipinto fatto dall’AI

Gli ultimi tempi si sta parlando tanto di intelligenza artificiale capace di generare dipinti e clip musicali cartonati. Il senso comune, però, tende a misconoscere il valore che può esserci da simili prodotti, dimenticando che l’intervento umano resta essenziale e che spesso dietro a certi prodotti in cui è anche intervenuta una IA c’è molta più partecipazione umana, molta più creatività di quel che il pregiudizio suggerisce. A ben vedere è un tipo di dadaismo anche questo.

L’arte generata con l’IA è sempre una co-creazione. Si tratta di uno stimolo per la mente umana che riarrangia il sample facendolo evolvere altrove. L’IA suggerisce una serie di possibilità, ma è sempre l’occhio umano a selezionare, a integrare, ad aprire.

C’è molto pregiudizio intorno all’arte digitale in senso lato. Sembra quasi che il computer “faccia tutto lui”. Si chiedono dove sia il valore artigianale in un digital paint? In realtà ci sono pro e contro con ogni supporto, analogico o digitale. La tavoletta grafica è più difficile da gestire perché non si sente il feeling della tela, la resistenza del materiale; non è intuitiva la sfumatura, mentre con le tempere c’è un qualcosa di atavico nel saper miscelare. Dal canto suo il digitale ha il vantaggio di poter tornare indietro. Il ricalco e photoshop? C’è da fidarsi dell’artista o comunque imparare a vedere il tratto personale e accorgersi che “non c’è trucco e non c’è inganno”. La propria unicità si mostra tanto con un pennello quanto con la apple pencil. Ricordo, infine, che anche analogicamente ci sono ben noti tricks: da sempre vengono usate maschere e proiettori. Insomma, continuo a non comprendere il motivo per cui una tela costi dieci volte un digital paint. È come pensare che una poesia manoscritta abbia maggior valore di un testo scritto su software di scrittura! L’arte la fa il materiale?

Conclusioni

Con l’IA il pregiudizio legato al digitale è forse ampliato, perché oltre alla capacità artigianale sembra venire meno anche quella creativa. In realtà come si vede si tratta solo di beceri tabù. La musica, i testi, i dipinti generati dalla rete diventano indizi. L’IA è solo uno strumento per stimolare la creatività, è una freccia in più nella faretra dell’arte e della cultura umana.

L’intelligenza artificiale può supportare anche l’indagine dei valori di una cultura. Può aiutare a scoprire i tratti comuni e stimolare un dibattito intorno a essi, condensandoli in oggetti artistici o in strumenti tecnologici più vicini alla sensibilità di un certo luogo. Insomma, questi sistemi possono avere molte applicazioni, sta a noi approcciarli con i giusti regolamenti e la giusta competenza.

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