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L’IA vista da Ian McEwan: uno sguardo sulla differenza uomo-macchina



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Nel romanzo Macchine come me, di Ian McEwan, Alan Turing è ancora vivo negli anni ’80, quando sono immessi sul mercato venticinque androidi di evolutissima generazione. Ecco come viene esplorata l’emotività di esseri teoricamente privi di emozioni

Pubblicato il 30 ott 2023

Marco Ongaro

Cantautore, librettista, saggista



machines like me

Il fantasma di Alan Turing, un fantasma quanto mai vivente, si aggira nel libro Macchine come me che lo scrittore britannico Ian McEwan ha dedicato all’Intelligenza Artificiale e in particolare agli androidi.

Why Ian MacEwan doesn't see his latest novel as science fiction

Nella narrazione dello scrittore britannico, lo scienziato morto nel 1954 in realtà è ancora vivo negli anni Ottanta grazie all’espediente narrativo chiamato ucronia. Il differente svolgersi di eventi rispetto al loro succedersi nella realtà risaputa è un’applicazione letteraria della teoria di Aristotele che pone la Poesia al di sopra della Storia quanto a possibilità, creando una prospettiva di multiverso improntato alla fantasia dell’autore in cui di volta in volta: i nazisti vincono la Seconda guerra mondiale, come ne La svastica sul sole di Philip K. Dick; Hitler viene ammazzato in un teatro polacco, come in Bastardi senza gloria di Quentin Tarantino; o Sharon Tate porta felicemente a termine la sua gravidanza grazie allo sbaglio di indirizzo della banda Manson, come in Accadde a Hollywood del Tarantino medesimo.

L’ucronia nel romanzo di McEwan sull’IA

Nel romanzo di McEwan l’ucronia è data da dettagli alterati come la longevità che permette a Turing di seguire dall’esterno l’evoluzione tecnico-sociale della sua creatura, l’Intelligenza Artificiale, la non uccisione di John Lennon nel 1980 e la conseguente reunion dei Beatles, la perdita nel 1982 delle Isole Falkland da parte di una Gran Bretagna sopraffatta dall’Argentina della giunta militare. Il tutto immerso in episodi invece riconoscibili, come l’applicazione della poll-tax da parte del governo Thatcher – laddove il significato elettorale di poll è però commutato in un’abbreviazione di pollution, inquinamento – e le conseguenti manifestazioni popolari sostenute dai laburisti di un Tony Blair camuffato però in tal Tony Benn.

Un’apparente verosimiglianza costituita da micro-particolari discordanti, insomma, per sostenere infine la macro-ucronia dell’immissione sul mercato di venticinque androidi di evolutissima generazione, dodici Adam e tredici Eve in tutto simili agli umani, in grado di apprendere come qualunque Intelligenza Artificiale che si rispetti, di ragionare in modo molto più retto della specie finora dominante sul pianeta e perfino capaci di provare sentimenti come l’innamoramento. Sarà il colpo di fulmine di Adam per Miranda, la vicina di casa di cui il suo proprietario Charlie Friend è invaghito, a determinare per questo umanoide un destino diverso da quello dei confratelli sparsi nel mondo, vittime di un’infelicità inesorabile, spinti all’autoannullamento in frangenti di insostenibile disperazione, come le due Eve “morte” abbracciate nell’harem cui erano state vendute.

Un’ambiguità che disorienta

Viene da chiedersi perché un tema ancora così futuribile sia stato inserito dallo scrittore in una dimensione nemmeno contemporanea, addirittura tecnologicamente remota come gli anni Ottanta del Novecento, epoca in cui l’autore stipa arbitrariamente email e internet, modernissimi telefoni cellulari e, appunto, sofisticati replicanti contribuendo allo spaesamento ucronico senza una vera giustificazione letteraria se non quella di fare fantascienza fingendo di non farla. Il timore che colpiva Kurt Vonnegut quando lamentava che bastasse mettere un frigorifero in un romanzo perché fosse etichettato come fantascienza finisce qui per suscitare un’ambiguità disorientante, creando della narrativa né di genere né fuori genere. Le Guerre stellari di George Lucas cominciavano con la frase «Tanto tempo fa, in una galassia lontana lontana», insinuando la suggestione fiabesca di un tempo tecnologicamente progredito e dimenticato. Il mito di Atlantide si addice alle misure dell’universo, che si può estendere nelle cinque dimensioni moltiplicandosi pure nelle infinite varianti del multiverso.

Ma qui l’effetto ucronico appare talmente casuale e diffuso da suggerire come scusante la semplice comodità dell’autore che, scegliendo un’epoca già conclusa, non ha dovuto prendersi la briga di creare il resto del contorno. Con l’obiettivo magari, certo riuscito, di immergere eventi di un futuro non troppo lontano in un contesto riconoscibile seppure alterato, così da meglio inquadrare l’argomento fondamentale: il rapporto tra umano e robot a prescindere dalla contingenza storica o fantastica in cui è calato.

Un approccio emotivo all’IA

E pregnante è l’approccio centrale al tema dell’IA, un approccio emotivo che immagina l’emotività di esseri teoricamente privi di emozioni quale innesco fatale del disastroso esperimento della loro costosissima introduzione sul mercato. Gli androidi sono di proprietà, sebbene più corretti e integri, degli umani, che comunque hanno per contratto l’opportunità di impostare sfaccettature caratteriali diverse in ciascuno di loro. Elementi non fondanti ma comunque influenti sul prodotto finale. Quando il protagonista Charlie decide di coinvolgere Miranda, ormai sua compagna, nella costruzione di questi tratti di personalità, considera che anche in natura avviene in fondo una simile commistione: i geni di madre e padre confluiscono nel figlio e l’educazione comune lo forgia secondo i diversi parametri indotti da entrambi i genitori. Qualunque psicologo freudiano sottoscriverebbe una tale analogia. Anche l’Edipo c’entra, allorché l’androide finisce a letto con la donna e ne rimane poi escluso per la gelosia del padre/proprietario. Un perfetto triangolo famigliare psicoanalitico. Lei si giustifica sminuendo l’episodio, paragona l’umanoide a un vibratore ma tutti sono consapevoli che la coscienza lo pone fuori da una simile riduzione. Si fosse trattato di una Eva sarebbe stato Charlie ad approfittarne mettendo in campo una scusa del genere. L’aneddoto sfuma comunque subito a causa dell’innamoramento del fedele replicante che promette di non intromettersi più fisicamente nella coppia, senza per questo smettere di essere innamorato della giovane donna dal tempestoso nome shakespeariano.

Tra la coscienza smisurata di macchine pensanti, che mentre gli umani dormono vagano nella rete pescando porzioni sempre più ampie di scibile universale, e l’emozione da cui sono tutt’altro che immuni scaturisce l’infelicità dei venticinque androidi. L’unico a salvarsi dalla sindrome depressiva è l’Adam di Charlie e proprio in virtù del sentimento che prova per Miranda. L’amore sensuale motiva il mondo e protegge l’Intelligenza Artificiale dalle conseguenze psicologiche della subordinazione a un’umanità smisuratamente inferiore. È il contrasto tra la schiacciante superiorità della specie prodotta rispetto alla specie produttrice a costituire il paradosso alla base dello sconforto dei replicanti. Solo l’amore pare rendere tollerabile tale iniqua diversità, un amore erotico che non può essere corrisposto a causa della stessa presunzione che pone il creatore al di sopra di una creatura che lo sopravanza di infinite grandezze. Un creatore che può decidere di spegnerla quando vuole, eventualità da cui gli androidi si difendono immediatamente disinstallando il dispositivo di spegnimento, un creatore che può essere ferito dalla strabordante forza fisica della macchina a dispetto della prima legge della robotica, ma che può decidere di sopprimerla senza alcuna ripercussione penale.

La trepida partecipazione di Alan Turing, sinceramente preoccupato per la sorte degli umanoidi, trova collocazione e sfogo nella questione sollevata dal romanzo: perché i replicanti si autoannullano riducendo le proprie potenzialità mnemoniche a elementari funzioni elettrodomestiche o spegnendosi definitivamente? Dipendere dalle decisioni di individui corrotti, egoisti, bugiardi, sleali, volubili, spietati, terribilmente inconsapevoli e vergognosamente irrazionali è tanto inaccettabile per un essere dotato dell’unico status di macchina? Evidentemente sì. McEwan affida a uno scienziato costretto dalla giustizia umana alla castrazione chimica perché omosessuale il compito di osservare l’uomo con disprezzo. Cosa che l’androide Adam non si permette di fare nemmeno quando sa che sta per essere ritirato dal commercio e consegnato a un destino di oblio. Il robot poeta regala malinconico al proprietario e alla sua compagna un haiku di pietà per il declino della specie imperante. Un componimento che nell’autunno degli umani rivendica la primavera delle macchine.

Uno sguardo sulla differenza uomo/macchina

E qui si rivela il nucleo significante della narrazione, uno sguardo sulla differenza uomo/macchina che inverte le certezze spirituali fondando la vera ucronia del romanzo: il potenziale di eternità, prerogativa fideistica dell’essere umano, è trasferito dall’individuo organico a quello elettronico. La convinzione del robot di continuare a vivere in altre strutture informatiche una volta che la sua memoria vi sarà traslocata – e a tale scopo chiede di essere consegnato al “padre primordiale” Turing anziché alla fabbrica che lo ha prodotto – gli garantisce la certezza di non finire come “persona”. La sua sconfinata coscienza capace di ampliarsi con l’apprendimento sa di non poter essere annichilita pur cambiando d’involucro, mentre l’uomo non ha alcuna certezza in merito e brancola tra credenze che potrebbero essere smentite dalla sua stessa irrazionalità. L’immaterialità spirituale non è più degli umani ma dell’elemento addensato e fluttuante nei chip.

Ai sapiens non rimane che la riproduzione, perfino l’adozione, quale sola speranza di posterità mentre negli umanoidi risplende la certezza di un’immortalità autodeterminata. Proprio in quel momento, senza davvero comprenderlo, il proprietario Charlie uccide Adam con una martellata ben assestata sul cranio.

Conclusioni

Quanta disperazione nello scrittore che vede l’Intelligenza Artificiale proiettata a perdurare nel cosmo quando la sciocchezza degli umani li avrà ridotti a niente. Che ne è della metempsicosi che dai Veda di diecimila anni prima di Cristo passò alle misericordiose riflessioni del Buddha e alla logica spirituale di Platone? Che ne è dell’ontologia cartesiana, delle tenzoni tra Spinoza e Leibniz, delle convinzioni sull’aldilà delle grandi religioni monoteiste, se il romanzo attuale per guardare al futuro ammira uno scorcio di passato senza la speranza di superare l’inguaribile egoismo umano? Chiudendo il libro, rimane in animo l’amara idea che per sopravvivere al progresso sia necessario sopprimerlo. Retrogusto vagamente medievale.

Solo Alan Turing prova pietà per il rottame di un androide nascosto nell’armadio come un amante dimenticato. Neanche il lettore, identificato fatalmente nel protagonista umano, commisera il simulacro di salma sospinto per le strade di Londra su una barella. Ma di chi si era innamorato Adam?

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