“When Hate Speech Turns Into Killing” era il titolo dell’intervento di Astrid Hoem, una sopravvissuta alla strage di Utøya del 22 luglio 2011, oggi responsabile delle politiche giovanili del Norwegian Labour Party, a WEXFO 2022 (Lillehammer, 30-31 maggio 2022), il Forum sulla libertà di espressione, di cui sono membri AIE e molte associazioni editori europee, oltre che le federazioni degli editori europei (FEP) e internazionali (IPA).
Nella due giorni di dibattito, l’intervento di Hoem è stato tra i più toccanti e allo stesso tempo analiticamente ricco: le parole d’odio che il terrorista scriveva sui social prima dell’attentato sono sfociate nell’uccisione di 77 adolescenti.
Ciò pone al centro del problema il confine, difficile da tracciare, tra libertà di espressione e necessità di porre un freno ai discorsi d’odio, un tema che ha attraversato l’intero convegno.
Hate speech o libertà d’espressione, chi stabilisce il confine: il dilemma
La manipolazione alimentata dal business model dei social
Maria Ressa, uno dei due premi Nobel per la pace 2021 presenti a Lillehammer, lo ha raccontato attraverso la sua esperienza personale di aggressioni orchestrate dal Governo filippino allo scopo di screditare il suo lavoro di giornalista. Nel suo caso, le parole d’odio si sono tradotte in aggressioni, denunce penali, arresti immotivati. A WEXFO, Ressa ha svolto una vera e propria lectio magistralis, in cui la sua storia è stata il punto di partenza di una lucidissima analisi dei meccanismi di manipolazione resi possibili dal funzionamento stesso dei social.
Il problema, ha sostenuto, nasce dal modello di business delle piattaforme, progettato per massimizzare la capacità di profilare gli utenti, così da rendere più efficiente la pubblicità. Questa impostazione, tuttavia, implica la selezione dei messaggi che gli utenti ricevono, perché siano il più possibile coerenti con il loro profilo, il che genera comunità ristrette, bolle comunicative che da un lato limitano il confronto tra opinioni diverse, dall’altro diventano strumenti efficienti di manipolazione. Prendere la mira per colpire personaggi scomodi diventa più facile.
Nel dibattito che è seguito, Messa si è confrontata con Helle Thorning-Schmidt, ex primo ministro danese ed europarlamentare, oggi co-chair del Meta’s Oversight Board, l’organo “indipendente” (ha tenuto a precisare) creato da Meta per fornire indicazioni e raccomandazioni sulle sfide connesse alla moderazione dei contenuti su Facebook e Instagram.
Il problema degli algoritmi
Secondo la giornalista filippina si tratta di palliativi, giacché non agiscono sulla causa dei meccanismi di polarizzazione propri dei social: gli algoritmi di intelligenza artificiale. Agire sulla definizione delle politiche ex ante e deliberare sui casi controversi ex post non tocca il cuore del problema.
Una critica simile è stata rivolta a Christine Sørensen responsabile dei rapporti governativi e istituzionali di Google. Nel suo intervento ha sottolineato la politica di Google verso una sempre maggiore “responsabilità” sociale, citando il gran numero di canali russi chiusi su YouTube, la riduzione delle raccomandazioni verso le risorse definite come border-line, gli 8 milioni di pubblicità bloccate. Nella felice formula del Forum, anche nel suo caso l’intervento è stato seguito da un confronto, durante il quale Helje Solberg, chair de board di Faktisk, l’organizzazione norvegese che si occupa di fact checking, ha fatto notare che il problema riguarda gli algoritmi, non gli interventi a monte e a valle di questi, che finiscono per affidare alla stessa piattaforma un potere decisionale improprio su cos’è la verità e cosa è falso, quali parole sono d’odio e quali non lo sono.
Una risposta globale
A conclusioni simili è giunta Irene Khan, “Relatrice speciale” (Special rapporteur) delle Nazioni Unite sulla promozione e protezione della libertà di opinione ed espressione. Gli effetti di polarizzazione non sono, a suo parere, un effetto distorto del modello su cui si basano le piattaforme, ma una loro conseguenza inevitabile. La risposta deve essere di tipo regolatorio e incidere su questi aspetti. Perché ciò accada deve essere internazionale, con tutte le difficoltà che ciò comporta, il cui superamento dovrebbe passare da un più ampio coinvolgimento delle società civili. “Le tecnologie sono parte della risposta”, ha aggiunto, riecheggiando in un contesto diverso la nota frase di Charles Clarke a proposito dell’impatto del digitale sul diritto d’autore: “The answer to the machine is in the machine”.
Il filo conduttore complessivo sembra essere la responsabilità delle piattaforme nel molteplice significato che nelle lingue latine questo termine assume e che in inglese si articola su più parole: perché sia efficace, la responsabilità sociale che le piattaforme riconoscono di avere (responsibility) deve essere accompagnata dalla necessità di render conto del funzionamento degli algoritmi (accountability) e da una responsabilità legale degli effetti del loro operare (liability).
Libertà di espressione e propaganda in tempo di guerra
Gli stessi dilemmi si ripetono in forme ancor più drammatiche in tempo di guerra, quando il confine da tracciare è tra libertà di espressione e propaganda. Tecnologie digitali e controllo dei media tradizionali in questo caso convergono. Ne hanno dato diretta testimonianza Dmitry Muratov, co-fondatore e attuale direttore della Novaya Gazeta, e insignito del premio Nobel per la Pace assieme a Maria Ressa e Oleksandra Matviichuk, giovane avvocata ucraina, da anni impegnata nella difesa dei diritti civili e della libertà di opinione e presidente del Center for Civil Liberties di Kyiv.
Un dialogo a distanza – giacché Muratov non ha potuto essere presente per ragioni di sicurezza – con un elemento comune: la necessità di raccogliere prove sui fatti che la propaganda tende a nascondere o manipolare. Da posizioni professionali diverse, da paesi diversi, i due relatori hanno condiviso la medesima urgenza di informare, perché, come ha detto Moratov citando Fassbinder: “Ciò che non possibile cambiare dev’essere almeno descritto”.
Testimonianze drammatiche. Muratov ha aggiunto i numeri, mai ricordati a sufficienza, di ciò che è accaduto dall’inizio della guerra: 300 media tradizionali chiusi, 260 risorse web dichiarate illegali, 58 siti contro la guerra e 25 piattaforme di raccolta fondi a favore degli ucraini bloccate, 70mila persone accusate di diffondere notizie false o essere agenti del nemico. E ha ricordato i nomi e le vicende di giornalisti russi vittime della repressione: Aleksey Venediktov, direttore di Ekho Moskvy, sulla cui porta di casa è stata lasciata una testa di maiale mozzata e disegnati simboli antisemiti; Vitaly Mansky, noto documentarista, colpito dalle esalazioni velenose di un liquido cosparso sul pavimento di un cinema; Yuliya Latynina, reporter di Ekho Moskvy, cui lo stesso liquido è stato versato nell’appartamento dove viveva con i genitori; Dmitry Bykov, della Novaya Gazeta, avvelenato con le stesse sostanze utilizzate per Navalny; Orkhan Dzhemal, giornalista ucciso insieme al regista Aleksandr Rastorguyev e al cameraman Kirill Radchenko mentre lavoravano nella Repubblica Centro-Africana a un documentario sulla compagnia militare privata russa Wagner.
Matviichuk ha raccontato il lavoro investigativo della sua associazione, spesso condotto assieme a giornalisti, perché ci sia documentazione e giustizia per i crimini commessi durante la guerra. Nel farlo, ha ricordato i 22 giornalisti uccisi dall’inizio del conflitto.
Il rapporto tra propaganda e guerra e, al contrario, il ruolo di pace che ha la libertà di espressione è stato ricordato da entrambi, come entrambi hanno sottolineato il bisogno di una reciproca solidarietà, Matviichuk con un appello a sostenere i giornalisti russi indipendenti, Muratov ricordando come Novaya Gazeta abbia deciso di mettere all’asta la medaglia del premio Nobel donando il ricavato a favore dei profughi ucraini.
Conclusioni
Certo, la propaganda non è una novità. Per capirne la natura basta leggere buoni libri – ha ricordato lo scrittore turco (curdo) Burhan Sönmez, presidente del PEN International – come “1984” di George Orwell e “Il mondo nuovo” di Aldous Huxley. Gli ha fatto eco la scrittrice russa (tatara) Guzel Yakhina, sottolineando come molti meccanismi della repressione staliniana descritti nei suoi romanzi richiamino quella della Russia di oggi.
I due giorni hanno analizzato nel profondo il ruolo della libertà di espressione oggi, perché, come ha affermato in conclusione del suo intervento la giovane Astrid Hoem, da cui siamo partiti: “C’è solo una cosa peggiore delle parole d’odio: è il silenzio” (One thing is worse than words of hate, it is silence).