diritto di critica

Licenziamento per uso improprio dei social: quando un post può costare il posto



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Nell’era dei social network, le imprese devono affrontare i rischi per l’immagine e la riservatezza derivanti dall’uso improprio dei social media da parte dei dipendenti. La social media policy sensibilizza i collaboratori sulle conseguenze di un uso scorretto. La giurisprudenza ha confermato la legittimità del licenziamento per post offensivi

Pubblicato il 18 giu 2024

Wanda Falco

dipartimento R&D di Toffoletto De Luca Tamajo



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Nell’era dei social network anche le imprese si trovano a dover fare i conti con i rischi per l’immagine e la riservatezza derivanti dall’uso improprio di tali strumenti da parte dei dipendenti.

È per questo motivo che sempre più spesso le società fanno ricorso alla social media policy, strumento idoneo a sensibilizzare e informare i collaboratori circa le conseguenze di un uso poco attento degli account social. Numerosi sono, infatti, i casi in cui la giurisprudenza ha confermato la legittimità del licenziamento disciplinare di dipendenti che hanno pubblicato post offensivi e diffamatori nei confronti del datore di lavoro.

Nel presente approfondimento ci occuperemo, pertanto, della social media policy e dei limiti al diritto di critica del dipendente con particolare attenzione a ciò che può e non può essere pubblicato sulle bacheche dei profili social, ancorché personali.

Di cosa parliamo quando parliamo di social media policy

La Social Media Policy (SMP) è il codice di condotta che regola la relazione su internet, e in particolare sui social media, tra un’organizzazione e i terzi che con essa interagiscono.

Si tratta, in genere, di un documento indirizzato:

ai dipendenti che utilizzano e amministrano gli account aziendali, recante le indicazioni su come usare le pagine/i profili creati dall’ente/impresa;

al personale con la specifica finalità di sensibilizzarlo e informarlo sull’uso corretto dei social media e sulle conseguenze disciplinari di comportamenti non conformi all’interesse datoriale in quanto danneggiano la reputazione dell’organizzazione, diffondono informazioni riservate o, più in generale, ledono il vincolo fiduciario.

I dipendenti incaricati di gestire i profili social dell’impresa datrice di lavoro devono, ad esempio, accertarsi che i contenuti condivisi forniscano informazioni verificate e siano in linea con la strategia comunicativa e con i valori della società. È, inoltre, indispensabile evitare di divulgare informazioni riservate nonché rispettare e tutelare sempre la privacy degli altri dipendenti.

Anche quando il dipendente pubblica sui profili social personali deve tenere condotte rispettose dell’organizzazione presso cui lavora ed essere consapevole delle conseguenze in caso di:

  • divulgazione attraverso i social network di informazioni riservate o di informazioni su attività, servizi, progetti e documenti non ancora resi pubblici;
  • trasmissione e diffusione di messaggi o dichiarazioni pubbliche offensive nei confronti del datore;
  • apertura di pagine o altri canali a nome del datore o che trattino argomenti e notizie apprese in ambito lavorativo.

Un’attenzione particolare merita la questione relativa alla diffusione sui social di messaggi o dichiarazioni offensive nei confronti del datore di lavoro, tematica in cui è opportuno evidenziare la linea di confine tra l’esercizio del diritto di critica e la lesione dell’onore e della reputazione dell’impresa.

I limiti al diritto di critica del dipendente

Il diritto di critica trova il suo fondamento nell’art. 21 Cost. secondo cui «tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione».

L’esercizio della libertà di manifestazione del proprio pensiero nell’ambito del rapporto di lavoro, poi, è disciplinato dall’art. 1 St. Lav. secondo cui tutti i lavoratori «hanno diritto, nei luoghi dove prestano la loro opera, di manifestare liberamente il proprio pensiero» e, dunque,possono assumere anche posizioni critiche nei confronti del datore di lavoro.

Tale diritto deve, tuttavia, essere esercitato nel rispetto di altri valori di rango costituzionale quali, ad esempio, l’onore e la reputazione del soggetto destinatario della critica ovvero del datore di lavoro.

Non solo. Un altro limite al diritto di critica è costituito dall’obbligo di fedeltà del dipendente sancito dell’art. 2105 c.c. che, come chiarito dalla giurisprudenza, ha un contenuto più ampio di quello espressamente previsto dalla norma, dovendo essere letto alla luce dei principî generali di correttezza e buona fede che condizionano le modalità di esercizio della libertà di manifestazione del pensiero sia all’interno che all’esterno del luogo di lavoro (Cass. 1379/2019).

I criteri da rispettare per garantire un equo bilanciamento dei diritti

I criteri da rispettare per garantire un equo bilanciamento dei diritti in questione (i.e. diritto di critica e diritto all’onore e alla reputazione) sono stati elaborati dalla giurisprudenza in materia di critica e cronaca giornalistica e, poi, applicati anche al contesto giuslavoristico.

Si tratta dei principî di:

continenza sostanziale (i fatti sui quali la critica si fonda devono corrispondere a verità);

continenza formale (l’espressione delle opinioni o l’esposizione dei fatti oggetto di critica devono avvenire in maniera moderata e misurata; le modalità espressive devono, dunque, essere rispettose di canoni, generalmente condivisi, di correttezza, misura e civile rispetto della dignità altrui).

Quando la condotta del lavoratore è illecita: la giurisprudenza

La violazione anche di uno solo di tali limiti implica l’illiceità della condotta del lavoratore e può, dunque, legittimare un licenziamento disciplinare.

Come evidenziato dalla giurisprudenza, i confini dell’esercizio del diritto di critica possono, dunque, ritenersi superati nel momento in cui si addebitino all’impresa o ai suoi rappresentanti «condotte riprovevoli (anche integranti gli estremi di un reato) non tenute, ovvero si attribuiscano al datore qualità apertamente disonorevoli (anche se vere), utilizzando riferimenti volgari, infamanti e tali da suscitare disprezzo e dileggio» (Cass. 1379/2019).

Più di recente la Cassazione ha, ad esempio, confermato la legittimità del licenziamento del lavoratore che abbia denunciato il datore per appropriazione indebita del TFR, pur nella consapevolezza che i fatti siano falsi. In tal caso, la condotta contestata al dipendente è «la strumentalizzazione della denuncia non scriminata dall’esercizio del diritto, atta ad integrare una violazione del dovere di fedeltà di cui all’art. 2105 c.c. perché contraria ai doveri derivanti dall’inserimento del lavoratore nell’organizzazione imprenditoriale e comunque idonea a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario» (Cass. 30866/2023).

I limiti all’esercizio del diritto di critica sono ancora più stringenti qualora la critica provenga da un dipendente in posizione apicale. Si pensi al caso del dirigente licenziato per aver espresso con toni eccessivi e coloriti il proprio dissenso rispetto ai processi organizzativi individuati dal consiglio di amministrazione della società per ripristinare l’efficienza del servizio. Toni così aspri provenienti da un dirigente sono idonei a diffondere presso gli altri dipendenti un discredito nelle capacità dei superiori, alimentando un clima non collaborativo e di non condivisione delle strategie adottate e andando oltre il legittimo esercizio del diritto di critica (Cass. 8659/2019).

Licenziamento per uso improprio dei social network

Le regole elaborate dalla giurisprudenza in materia di limiti al diritto di critica del dipendente devono ritenersi valide a maggior ragione quando la critica venga espressa sui social network in cui ogni foto e ogni opinione pubblicata hanno una potenzialità di diffusione esponenziale.

Come spesso chiarito dalla giurisprudenza, «se è pur vero che costituisce un diritto costituzionalmente garantito quello di esprimere il proprio dissenso rispetto alle opinioni e scelte altrui, appare altrettanto indiscutibile che i toni debbano comunque essere quelli di una comunicazione non ingiuriosa, a maggior ragione se l’esternazione di certi punti di vista avviene tramite un mezzo potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato o comunque quantitativamente apprezzabile di persone» (Trib. Pordenone 17/12/2020).

La pubblicazione di un messaggio offensivo sulla bacheca di un social network nei riguardi di persone facilmente individuabili integra, infatti, un’ipotesi di diffamazione aggravata – in quanto commessa «col mezzo della stampa» come recita l’art. 595 c.p. – proprio per l’idoneità del mezzo utilizzato a determinare la circolazione del messaggio tra un gruppo indeterminato di persone (Cass. Sez. I penale 24431/2015).

In tali casi non rileva assolutamente che la bacheca sia impostata dall’utente come privata e non pubblica, in quanto i social sono da considerarsi luoghi pubblici: non serve privatizzare il profilo e renderlo visibile solo a una cerchia ristretta di utenti per riservarne i contenuti, in quanto ciò che viene inserito in un profilo privato può essere comunque diffuso da ciascuno dei contatti dell’utente (ad esempio usando la funzione “condividi”, facendo circolare il post mediante uno screenshot, mostrando direttamente la schermata a terzi), rendendo potenzialmente illimitato il numero dei destinatari del post.

È legittimo, pertanto, il licenziamento per giusta causa del dipendente che contesti su un social network il proprio datore di lavoro con modalità diffamatorie e offensive della personalità morale, dell’immagine e della reputazione aziendale (Cass. 27939/2021; Trib. Pordenone 17/12/2020; Cass. 10280/2018; Trib. Milano 01/08/2014).

Tali principî sono stati ribaditi anche di recente dalla Suprema Corte che ha confermato la legittimità del licenziamento per giusta causa del rappresentate sindacale che abbia pubblicato su Facebook commenti intrisi di espressioni sgradevoli e volgari, prive di qualsiasi finalità divulgativa e finalizzate unicamente a ledere il decoro e la reputazione del datore. Un comportamento del genere, gravemente lesivo dell’immagine e del prestigio dell’impresa datrice di lavoro nonché dell’onorabilità e dignità dei suoi responsabili, travalica ampiamente i limiti della correttezza formale del diritto di critica e sfocia nella diffamazione aggravata, considerata la generale visibilità e diffusività dei messaggi postati sui social (Cass. 35922/2023).

Conclusioni

I social media sono una grande opportunità per le imprese, ma l’uso poco attento da parte dei dipendenti può causare danni anche molto gravi.

La social media policy si rivela un modo efficace per rendere chiaro a tutti i dipendenti che anche quando utilizzano i profili personali devono fare attenzione ed astenersi da contenuti lesivi della privacy, dell’immagine e della reputazione aziendale.

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