Il tasso di crescita incontrollato della tecnologia digitale potrebbe portare a una perdita di controllo o all’aggravamento degli squilibri ambientali esistenti.
I dispositivi e i servizi digitali che tutti noi utilizziamo quotidianamente – anche azioni che riteniamo “innocue” come mandare un messaggio whatsapp o prelevare al bancomat – consumano molta più energia di quanto pensiamo e l’aumento del traffico dati derivanti dall’internet delle cose e dalla nostra vita sempre più iperconnessa, è destinato a peggiorare le cose.
Non dimentichiamo poi che l’impatto del digitale sull’ambiente non si limita solo all’energia necessaria a far funzionare i dispositivi o i servizi: si pensi, ad esempio, ai problemi conseguenti allo smaltimento dei rifiuti elettronici.
Ne consegue che così come ciascuno di noi è chiamato a fare la propria parte per contenere il surriscaldamento globale, così l’industria digitale, il mondo della ricerca e della politica devono contribuire ad aumentare le consapevolezza collettiva degli impatti ambientali delle tecnologie digitali, in una sorta di “sobrietà digitale”, che è anche una fonte di efficienza per le organizzazioni: efficienza energetica, efficienza umana, efficienza finanziaria[1].
Vediamo le proposte e gli esempi concreti che potrebbero ridurre l’impatto ambientale della digitalizzazione, ma prima diamo qualche numero, per avere un’idea dell’urgenza di un’azione in tal senso.
Consumo energetico in crescita: un trend inarrestabile
La domanda di energia è aumentata nel 2018 del 2,3%, un tasso quasi doppio rispetto alle media del decennio precedente. Le fonti rinnovabili – nonostante siano in continua crescita – non riescono ancora a soddisfare nemmeno la metà delle esigenze di elettricità. È quanto emerge da un rapporto dell’Agenzia Internazionale dell’Energia, secondo cui è stato raggiunto un nuovo record delle emissioni di CO2 legate all’energia, di cui soltanto l’Europa e il Giappone non sono responsabili. Nel vecchio continente c’è stato un calo dell’1,3%, ma altrove la tendenza non è altrettanto virtuosa e la colpa non è solo dei Paesi emergenti: se in India la CO2 è aumentata del 4,8%, fa impressione il +3,1% degli Stati Uniti, un tasso addirittura superiore di quello fatto registrare dalla Cina (+2,5%), che però emette quasi il doppio degli Usa.
In una perversa spirale, le emissioni di gas serra sono trainate da una straordinaria fame di energia, a sua volta generata dal cambiamento climatico che accresce la necessità di riscaldamento o di raffreddamento degli edifici e degli ambienti di lavoro. Non a caso, un anno fa, l’Agenzia Internazionale per l’Energia ha pubblicato un rapporto dal titolo Il futuro del raffreddamento, nel quale si prevedeva che l’uso crescente di condizionatori d’aria nelle case e negli uffici di tutto il mondo sarà uno dei principali motori della domanda globale di elettricità nei prossimi trent’anni.
Previsione che è stata confermata da uno studio pubblicato di recente su Nature Communications, in cui sono stati analizzati diversi modelli climatici e vari scenari socio-economici. Secondo gli scenari previsti nel documento, i cambiamenti climatici porteranno la domanda globale di energia, nel 2050, a un aumento compreso tra l’11% e il 27% se il riscaldamento sarà modesto e tra il 25% e il 58% se sarà elevato. Vaste aree dei tropici, così come l’Europa meridionale, la Cina e gli Stati Uniti, sperimenteranno probabilmente i maggiori aumenti.
D’altronde, proprio nei giorni scorsi l’Agenzia Europea dell’Ambiente ha pubblicato il rapporto Adaptation challenges and opportunities for the European energy system nel quale si sottolinea che l’intero sistema energetico europeo, dalla disponibilità di fonti ai consumi, è “potenzialmente vulnerabile davanti ai cambiamenti climatici e agli eventi meteorologici estremi”.
L’impatto energetico del digitale
Immagini, video, film in ultra definizione per smart-tv, uso dei bancomat, sensori e immagini riprese da telecamere di sicurezza, collisioni di particelle subatomiche registrate dal CERN, pedaggi telepass, videochiamate digitali, messaggistica istantanea. Tutto questo e molto altro rappresenta un “universo digitale” in continua espansione, alimentato dai dati creati, utilizzati e richiesti ogni giorno – senza sosta – da industrie, pubbliche amministrazioni, ospedali, banche e centri di ricerca, ma soprattutto da noi utenti.
Un universo che ci semplifica la vita e di cui non riusciamo più a fare a meno, ma che inquina parecchio. Anzi, sempre di più. Basti pensare che un’ora di streaming a settimana, in un anno, consuma quanto due frigoriferi nello stesso arco di tempo. Una sola rastrelliera di server grande più o meno come un frigorifero ha bisogno di più energia di un’intera casa.
La quantità di energia richiesta dai minatori per estrarre il valore di un dollaro di bitcoin è più del doppio di quella richiesta per estrarre lo stesso valore di rame, oro o platino. La conseguenza è che i costi energetici dell’operazione di estrazione delle criptovalute sono confrontabili o superiori a quelli dell’estrazione fisica dei metalli. Guardando in avanti, è prevedibile che in futuro l’uso e l’acquisto delle criptomonete aumenterà enormemente e in parallelo l’energia usata per gestirle. Sebbene non sia facile calcolare l’impatto ambientale delle criptomonete, in termini di anidride carbonica emessa in atmosfera, basandosi su una stima media delle emissioni per unità di energia generata in India, Australia, Cina, Stati Uniti, Giappone, Corea del Sud e Canada, i ricercatori hanno calcolato che tra il 1 gennaio 2016 e il 30 giugno 2018 la rete Bitcoin ha generato da 3 a 13 milioni di tonnellate di anidride carbonica. Complessivamente, per le quattro criptovalute considerate (Bitcoin, Ethereum, Litecoin e Monero), la stima massima raggiunge i 15 milioni di tonnellate, poco meno delle emissioni, annuali, della Slovenia, o anche la metà delle emissioni, sempre annuali, della Nuova Zelanda.
Anche solo per fare piccoli progressi tecnologici, ad esempio nel mondo dell’intelligenza artificiale, occorre più energia di quanta se ne pensi, soprattutto nella formazione dei modelli di elaborazione in linguaggio naturale (NLP), un sotto campo dell’IA che si concentra sul rendere le macchine in grado di gestire il linguaggio umano.
Negli ultimi due anni, la comunità di sviluppatori ha raggiunto diversi traguardi importanti per quanto riguarda la traduzione automatica, il completamento delle frasi e altri compiti standard. Ma tali progressi hanno richiesto la formazione di modelli sempre più grandi su ampie serie di dati ottenuti da frasi prese da Internet. L’approccio è computazionalmente costoso e ad alta intensità energetica. Un gruppo di ricercatori ha pubblicato uno studio, ripreso dalla MIT Technology Review, in cui hanno dimostrato che i costi computazionali e ambientali dell’addestramento sono cresciuti proporzionalmente alla dimensione del modello e poi sono esplosi quando sono stati utilizzati ulteriori passaggi di messa a punto per aumentare la precisione finale del modello.
In particolare, hanno scoperto che un processo di sintonizzazione noto come ricerca dell’architettura neurale, che cerca di ottimizzare un modello modificando in modo incrementale la progettazione di una rete neuronale attraverso prove ed errori esaurienti, ha avuto costi associati straordinariamente elevati per un piccolo beneficio prestazionale. Insomma per avere miglioramenti marginali nella precisione di questi modelli di NPL sono ormai richiesti hardware su scala industriale, come GPU o TPU specializzati in vasti data center, in luoghi come Cina e Mongolia e occorrono enormi quantità di energia.
Un’altra cattiva notizia è l’aumento del traffico dati derivanti dall’internet delle cose e da una vita iperconnessa, che probabilmente – producendo sempre più dati – è destinata a peggiorare le cose. I driver tecnologici del futuro ci dicono che grazie alla diffusione di oggetti quotidiani che usano tecnologie digitali, la connettività diventerà una feature standard nella stragrande maggioranza dei prodotti, ma occorre interrogarsi su quali saranno i costi delle componenti per questa connettività. Con un numero di prodotti connessi, entro il 2020, stimato in 50 miliardi di unità, provando a quantificare[2] la quantità dei dati prodotti che dovranno essere gestiti e archiviati possiamo immaginare 4 monti Everest di dati
La digitalizzazione e gli impatti sui dati
Digitale, un tasso di crescita insostenibile
Poiché le tecnologie digitali sono riconosciute come essenziali per lo sviluppo economico e sociale, la digitalizzazione appare come un’esigenza assoluta per tutti i paesi e le aziende. È vero che è anche considerato un modo per ridurre il consumo energetico in molti settori[3].
Tuttavia, gli impatti ambientali diretti e gli impatti ambientali indiretti (effetti rimbalzo) legati al crescente utilizzo delle ICT sono costantemente sottostimati. Si pensi, peraltro, all’impatto che queste tecnologie hanno alla fine della loro vita utile e ai problemi ambientali conseguenti allo smaltimento dei rifiuti elettronici.
Un recente rapporto Lean Ict – Towards digital sobriety, redatto dal think tank francese “The Shift Project” ha calcolato che il consumo totale di energia delle tecnologie dell’informazione e delle comunicazione (ICT), fra produzione e uso delle attrezzature, sta crescendo a un tasso insostenibile del 9% all’anno e, ad oggi, rappresenta il 3,7% delle emissioni globali di gas serra (era al 2,5% nel 2013), con previsioni che vedono nel 2025 l’industria ICT usare il 20% dell’elettricità globale ed emettere il 5,5% della CO2 mondiale.
In uno scenario senza interventi, il consumo di elettricità potrebbe passare dai 200-300 terawattora attuali a 1.200-3.000. I data center, da soli, potrebbero emettere 1,9 miliardi di tonnellate di CO2, il 3,2% del totale globale. Secondo il rapporto, gran parte dell’intensità di carbonio associata al settore ICT non deriverebbe neppure dall’uso che ne fanno i consumatori, quanto piuttosto dalla produzione di dispositivi digitali.
- La frequenza di ricarica dei nostri smartphone rimane più o meno costante nonostante la potenza della batteria sia aumentata del 50% in cinque anni;
- I problemi di obsolescenza sono un fattore chiave dell’eccesso di produzione, poiché le versioni successive dei sistemi operativi sono compatibili con i terminali di vecchia generazione solo a costo di prestazioni degradate o una significativa riduzione della capacità utile della batteria;
- L’esplosione del traffico dati, in particolare il traffico video da streaming on demand e cloud gaming, regolarmente riviste al rialzo, si sta verificando a un ritmo che supera i guadagni di efficienza energetica in apparecchiature, reti e data center;
- La maggior parte della crescita dei flussi di dati è attribuibile al consumo di servizi forniti da Google, Apple, Facebook, Amazon e controparti cinesi come Baidu, Alibaba, Tencent, Xiaomi. In alcuni casi può rappresentare l’80% del traffico trasportato sulle reti di determinati operatori[4].
Gli autori del rapporto, oltre a temere che il tasso di crescita incontrollato della tecnologia digitale possa portare a una perdita di controllo o all’aggravamento degli squilibri ambientali esistenti, aggiungono che “l’attuale tendenza all’iperconsumo digitale nel mondo non è sostenibile rispetto alla fornitura di energia e materiali che richiede“.
Un altro punto critico è che l’intensità energetica dell’industria digitale nel mondo è in aumento solo (4% all’anno), contrariamente alla crescita industriale convenzionale, che sta diventando meno energivora dell’1,8% all’anno. Riassumono tale dinamica come segue: “consumare un euro di tecnologia digitale nel 2018 induce un consumo di energia diretta e indiretta del 37% superiore a quello del 2010. Questa tendenza è l’esatto contrario di ciò che viene generalmente attribuito alla tecnologia digitale e va contro gli obiettivi di energia e disaccoppiamento climatico dall’accordo di Parigi.”.
L’impatto ambientale della digitalizzazione – secondo gli autori del rapporto – potrebbe diventare più gestibile in presenza di pratiche digitali sobrie e significativi miglioramenti nell’efficienza energetica che la scienza e la ricerca saprà proporre in futuro.
Azioni di mitigazione dell’impatto ambientale della digitalizzazione
Ciò comporta, per i cittadini dei Paesi ad alto reddito, riprendere il controllo dei comportamenti di consumo digitale (acquistare l’attrezzatura meno potente possibile, cambiarla il più raramente possibile, ridurre inutili utilizzi a elevato consumo di energia, ecc.), ma chiama in causa anche i decisori politici di ogni Paese, ad alto o basso reddito, nella loro capacità di pianificare e dare priorità agli investimenti nel settore ICT e, quindi, garantire che essi servano in modo efficace ed efficiente le politiche settoriali. I Paesi in via di sviluppo ne potrebbero trarre così i maggiori benefici, perché le infrastrutture devono ancora essere create e quindi è possibile evitare molte spese con un’attenta pianificazione e priorità.
È fondamentale recuperare le nostre capacità individuali e collettive per mettere in discussione i vantaggi sociali ed economici dei nostri comportamenti di acquisto e consumo di oggetti e servizi digitali.
C’è bisogno di accelerare la consapevolezza degli impatti ambientali digitali tra il grande pubblico e la comunità di ricerca, così come nelle imprese e nelle organizzazioni pubbliche, come precondizione all’azione. Data la portata globale e il potere economico dei principali attori digitali, sia la sensibilizzazione che l’azione devono avvenire a livello europeo e di pari passo con le istituzioni multilaterali internazionali, facendo in modo che gli accordi internazionali sul clima siano più vincolanti e che i Paesi abbiano più interesse a stare dentro gli accordi che a starne fuori, facendo in modo, in tal caso, che i costi sarebbero più alti.
La proposta di passare da accordi di tipo volontario, come il Protocollo di Kyoto o l’Accordo di Parigi, ad accordi che abbiano natura più vincolante e con sanzioni per i Paesi che non vi partecipano o che non li rispettano, è stata sostenuta da William Nordhaus, premio Nobel 2018 in tandem con Paul Romer per aver studiato le relazioni tra economia e cambiamento climatico, in occasione dell’inaugurazione dello Eiee (European Institute on Economics and Environment), un nuovo centro di ricerca internazionale sull’economia del clima, creato dal think tank americano Resource for the Future (Rff) e dall’italiano Centro Euro-Mediterraneo sui cambiamenti climatici (Cmcc).
Il progetto Sunrise
Un altro esempio concreto, in tal senso, arriva dal progetto europeo SUNRISE Energia solare per un’economia circolare, che prevede l’abbattimento della concentrazione di CO2 atmosferica a livelli compatibili con la stabilità climatica del pianeta e un uso sostenibile del suolo e delle risorse naturali, per rendere possibile un’economia circolare secondo le linee guida stabilite dalla Commissione Europea. SUNRISE, che ha il suo partner italiano nell’Istituto per la sintesi organica e la fotoreattività del CNR, elaborerà un piano scientifico e tecnologico per produrre combustibili e composti chimici di base a partire da materie prime ampiamente disponibili (acqua, anidride carbonica, azoto) utilizzando la luce solare come unica fonte di energia. L’obiettivo di lungo termine è il superamento dell’economia basata sui combustibili fossili.
“La produzione di combustibili per mezzo dell’energia solare non ha ancora raggiunto uno sviluppo industriale, ma il potenziale del mercato è lì, su una scala di centinaia di miliardi di € l’anno. Dobbiamo mettere insieme la ricerca fondamentale, applicata e industriale per arrivare in tempo a produrre combustibili e prodotti chimici tramite energia solare per un’economia circolare a zero emissioni”, ha dichiarato Huub de Groot, coordinatore di SUNRISE.
Il tavolo sull’idrogeno
Un ulteriore contributo è atteso dal tavolo sull’idrogeno, costituito recentemente al Ministero per lo sviluppo economico e presieduto dal Sottosegretario Davide Crippa, a cui hanno partecipato anche Alstom Italia, ENEA, ENI, Environment Park, Fincantieri, Fondazione Bruno Kessler, Gruppo ESSECO, Hydrogen Park, l’Istituto per l’innovazione tecnologica di Bolzano, Industrie De Nora, Sapio, Snam, Solid Power, RSE ed esperti del CNR. Con la costituzione del tavolo, è stato avviato un percorso che permetterà la definizione di priorità, indirizzi e valutazioni di competitività nel settore delle tecnologie dell’idrogeno, con l’obiettivo di contribuire efficacemente alle future scelte che verranno assunte per adempiere agli impegni presi in ambito internazionale, come il Protocollo sottoscritto dal Governo lo scorso ottobre all’Hydrogen Energy Meeting di Tokyo.
“L’adesione del nostro Paese all’iniziativa ‘Mission Innovation’ del 30 novembre 2015 in occasione della COP 21 di Parigi – ha dichiarato Crippa – impegna l’Italia e gli altri Paesi aderenti a raddoppiare i propri investimenti pubblici per le attività di ricerca e sviluppo di tecnologie pulite entro il 2021. Proprio nell’ambito delle sfide tecnologiche previste ce n’è una proprio sull’idrogeno da fonti rinnovabili. Sia nella proposta di Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima che nel Piano Triennale 2019-2021 della Ricerca di Sistema elettrico – ha sottolineato il Sottosegretario Crippa – abbiamo riservato all’idrogeno ed alla sua filiera un interesse significativo nella prospettiva di progressiva decarbonizzazione.”.
Cosa può fare l’ecosistema delle startup
Anche l’ecosistema delle startup, in particolare quelle energetiche, può dare il suo apporto al binomio energia e digitalizzazione, come è ben messo in luce nel Rapporto sull’innovazione energetica dell’Istituto per la Competitività (I-Com) dal titolo Il rebus della transizione. L’innovazione energetica, chiave dello sviluppo. Il rapporto evidenzia, al tempo stesso, quelli che sono i punti di debolezza che ancora caratterizzano il sistema italiano dell’innovazione nel settore dell’energia. “Solo il 4,2% delle start-up energetiche ha un capitale superiore a 250.000 euro e anche quelle con un valore della produzione considerevole – superiore a 500.000 euro – sono poche, pari al 9,5% del totale. La maggioranza delle start-up energetiche ha una dimensione d’impresa molto contenuta, con un impatto ancora assai ridotto in termini occupazionali. Basti pensare che solo l’1,1% supera l’asticella dei 20 lavoratori impiegati. C’è un evidente problema in una fase iniziale di selezione e successivamente di scaling-up. Sono pochi evidentemente i progetti che hanno le potenzialità per risultare davvero vincenti e, laddove questo avvenga, le condizioni di contesto in Italia, a partire dal funding, rallentano il processo di crescita”.
Il rapporto, inoltre, fa il punto della situazione sui brevetti – uno dei principali indicatori della capacità di innovare degli Stati e dei loro sistemi produttivi – a proposito dei quali l’Italia risulta ancora molto indietro a livello internazionale. Nel 2017 le domande di brevetto in campo energetico provenienti dal nostro Paese sono state 881, soltanto lo 0,8% del totale a livello globale. In Europa la Spagna ottiene risultati analoghi ai nostri mentre fanno decisamente meglio la Francia (5% del totale) e soprattutto la Germania (8,1% del totale). In assoluto il Giappone resta primo al mondo con 30.683 brevetti concessi in campo energetico anche se la distanza con la Cina si è ridotta ulteriormente.
Tornando all’Italia, dal rapporto emerge come la gran parte dei brevetti, sia in generale che energetici, provenga dalle imprese mentre poco meno di un quarto è da ricondurre a persone fisiche e con un ruolo residuale di istituti universitari, fondazioni ed enti di ricerca pubblici. Quanto alla distribuzione geografica, la Lombardia rimane leader con 67 brevetti concessi in ambito elettrico nel 2017, pari al 28,3% del totale. In seconda posizione si trova il Lazio con 43 brevetti energetici, seguito da Piemonte (34) e Veneto (32).
Interessanti suggerimenti di better regulation orientati alla sostenibilità sono rinvenibili anche nel recente documento titolato Proposte per una Strategia Italiana per l‘Intelligenza Artificiale, elaborato dal Gruppo di Esperti MISE sull’Intelligenza Artificiale, nel quale è stata auspicata la costituzione di una struttura centralizzata di oversight, che faccia da ponte tra la regolazione e gli obiettivi di sviluppo sostenibile, in grado di generare politiche basate sui dati e orientate alla sostenibilità.
L’analisi fatta dagli esperti arriva alla conclusione che “dotarsi della capacità di giustificare investimenti e politiche pubbliche sulla base degli obiettivi di sviluppo sostenibile – gli SDG fissati dall’ONU al 2030 – significherebbe un enorme salto per il nostro paese in chiave futura, portando benefici come la capacità di massimizzare il value for money degli investimenti pubblici, la possibilità di giustificare riforme e richieste di flessibilità rispetto ai parametri di Maastricht sulla base di analisi concrete sull’importanza di date riforme per raggiungere gli obiettivi del 2030, e la capacità di selezionare investimenti e proposte di finanziamento sulla base del loro impatto economico, sociale a ambientale sulla collettività del nostro sistema-paese.”.
In occasione dell’ultimo Festival dello sviluppo sostenibile, il Premier Conte, intervenuto alla conferenza di apertura del 21 maggio scorso, ha annunciato la costituzione presso la Presidenza del Consiglio, di una cabina di regia denominata “Benessere Italia”. È un fatto positivo, concreto, soprattutto se alla struttura saranno garantite adeguate misure di governance: un ufficio presso Palazzo Chigi con personale tecnico dedicato; un comitato al quale partecipino tutti i Ministeri; il coinvolgimento di un gruppo di esperti esterni di alto profilo per la consultazione; la partecipazione dei rappresentanti delle Regioni e degli Enti locali dove concretamente vengono messe in atto misure per la mitigazione climatica.
Proprio sul ruolo centrale dei Comuni nel dare sostegno a una strategia di sostenibilità, Agendadigitale.eu segnala l’appuntamento del 16 luglio, a Milano, dove si svolgerà la 2° Conferenza nazionale delle Green City. In occasione della conferenza verrà presentata la Dichiarazione di Milano per l’adattamento climatico nelle città. Per partecipare è necessaria la registrazione a questo link:
- Una stima di IDC prevede che i dati, a livello globale, decuplicheranno entro il 2025 arrivando a 163 Zettabytes con una complessità in crescita in termini di gestione, elaborazione, conservazione e archiviazione. ↑
- L’utilizzo sempre più diffuso delle applicazioni digitali, quali ad esempio web-conference, il telelavoro e lo smart working, nonché la realizzazione di servizi on line, contribuiscono a ridurre la necessità degli spostamenti fisici delle persone. ↑
- Greenpeace USA, nel suo report “Clicking Clean – Who i winning the race to build a green internet?”(https://storage.googleapis.com/planet4-international-stateless/2017/01/35f0ac1a-clickclean2016-hires.pdf) ha realizzato una classifica delle aziende più green, comparando le performance energetiche delle compagnie leader del settore IT e valutando il loro livello di utilizzo di fonti rinnovabili, includendo anche il grado di trasparenza delle singole aziende in merito alle proprie politiche o scelte energetiche. ↑
- Piuttosto che di sostenibilità digitale si dovrebbe parlare della solita triplice e indivisibile sostenibilità: ambientale, economica e sociale, altrimenti il risultato atteso non si raggiunge e se si raggiunge non si mantiene. ↑