Il 2024 ha portato con sé una tempesta di licenziamenti nell’industria videoludica, un’onda che si è propagata dal 2022/2023 e che continua a scuotere il panorama dei giochi digitali.
Sony, Epic Games, Niantic e Microsoft hanno tagliato migliaia di posti di lavoro, e titoli già annunciati sono stati cancellati o hanno chiuso i loro server.
Problemi di approvvigionamento e calo del mercato: le origini della crisi
Dopo il boom senza precedenti durante la pandemia (questa rubrica è nata anche per questo durante il Covid), l’industria videoludica ha investito pesantemente in progetti e sviluppo. Tuttavia, con il ritorno alla normalità nel 2022, gli investimenti si sono rivelati controproducenti.
La diminuzione del pubblico e degli acquisti ha messo a dura prova molte software house, costringendole a licenziare personale per rientrare con le spese. Inoltre, il segmento hardware è stato colpito dalle difficoltà di approvvigionamento delle console next-gen, con un calo del 7,5% nel giro d’affari. In questo clima incerto, l’industria dei videogame si trova a un bivio, cercando di adattarsi e sopravvivere in un mondo sempre più competitivo e mutevole.
I cambiamenti nel comportamento dei consumatori
Ma una cosa è certa: la crisi è reale, e il futuro dei giochi digitali è tutto da scrivere.
Alcuni giornalisti ritengono che la ragione sia logistica, in prima istanza. Se durante la pandemia eravamo tutti in casa e il videogame, come ho raccontato in molti articoli, era diventata anche per i non gamer una valvola di sfogo, un’unica occasione di incontro (Vedi Among Us), oggi si preferisce spendere i propri soldi per altre attrattive: cene e viaggi. Il videogame non è una serie su piattaforma streaming. Richiede un investimento di tempo notevole, attenzione, azione: ore di game play e il contrario della passività. Tuttavia, a fine giornata, in pochi hanno le forze per non spegnersi davanti a una serie e dormire.
Posso testimoniare che rispetto agli alunni del periodo covid, i ragazzi con cui ho avuto a che fare ultimamente non erano più gamer per una notevole percentuale. Ciò riflette i miei ricordi giovanili, in cui addirittura pochi miei compagni erano fruitori saltuari, figuriamoci gli affezionati!
La nicchia dei gamer e i costi crescenti
Ed è qui il punto… La nicchia di gamer (per quanto sicuramente più copiosa in realtà rispetto a prima) non riesce ad assorbire il mercato di console, di pc, di mobile, di VR games e soprattutto i costi via via crescenti dei giochi mainstream.
Avete presente cosa succede prima di una guerra o durante? C’è un’escalation di violenza, cioè ognuno dei contendenti alza un poco l’asticella di armi e aggressività. Si parte da tensioni indirette, qualcuno si dota di un’arma, l’altro risponde con un attacco più violento e così via, fino al crash definitivo. La stessa metafora organizzativa si applichi al videogame tripla A. Per colpire il pubblico e vendere il proprio prodotto la grandi software house alzano l’asticella della dimensione del gioco, potenziando ogni aspetto, dalla grafica all’ambiente, per dimostrare che rispetto al competitor o rispetto al gioco precedente c’è stato un avanzamento di qualche sorta.
La percezione del pubblico non vale gli abnormi costi di sviluppo
Questo, tuttavia, si traduce in costi che dovrebbero diventare abnormi sul mercato, con un pubblico che tuttavia non nota la differenza tra una grafica di due anni fa e una ipermega di oggi. Questo atteggiamento non è liquidabile con “ignoranza dell’acquirente”. Passatemi un’altra analogia con la percezione della curva di rumore: siamo sensibili all’intensità dei suoni fino a una certa soglia, dopo la quale non ci accorgiamo più di cambiamenti di db. Se a volume contenuto ci accorgiamo di una differenza, di qualche decibel in più, quando ormai siamo nel traffico, nel baccano più assordante, tra strepiti e clacson, siamo giustamente sordi a ulteriori picchi. C’è una soglia entro la quale siamo sensibili all’intensità, la stessa soglia forse è presente in altri campi, come la potenza dei videogame. Tuttavia, al di là del fatto che sia percepibile l’innovazione e la dimensione ricercata, i costi sono reali.
Dietro un tripla A (alcuni CEO proponevano di aumentare le A per qualificare i gioconi che stavano producendo) ci sono ore e ore e ore di sviluppo. E chi li paga, quegli informatici e quegli artisti? L’acquirente non è disposto a spendere di più per un potenziamento di cui non gli interessa. Ecco quindi la crisi, e il profitto mancante.
Il tempo e la crisi dei videogame
Oltre a questo aspetto, possiamo rintracciarne uno sociale, che sta coinvolgendo l’esistere nella sua totalità: il tempo. O per meglio dire: “Il tempo?”, con il punto interrogativo.
Quant’è cambiato il tempo nel tempo? Già da questa domanda si può comprendere la natura emblematica, circolare, virtuosa o viziosa, della temporalità. L’Uroboro. Oggi, tuttavia, il tempo è talmente contratto che quel saettone è una circonferenza tanto stretta da inghiottirsi. L’unica possibilità per uscire dal loop del Tutto Scorre, un fiume in piena in cui nemmeno una volta converrebbe gettarsi, è l’insegnamento di Nietzsche: non <noi> mordere il serpente, giacché non è infilato (sonda di gastroscopie) nella nostra bocca, ma lui mordersi. L’immagine che mi rimanda al nuovo tempo ciclico è quella di un loop “while – continue”, un cappio sempre più stretto alla gola di chiunque. Beh, l’unico modo è che il serpente abbia la nausea e vomiti.
L’arte e il tempo contratto
Prego al tempo lineare, al dispiegarsi dell’anima nell’attesa, per quanto angosciosa, di qualcosa che, quando avvenisse, diventerebbe un ricordo. Di quelli procuranti nostalgia. Oggi, di quel serpente completamente morso e auto-inghiottito, non rimane che la testa. Inevitabile il celare il proprio sonaglio, metafora dell’artista. Ciò significa che c’è tempo per l’arte. Ecco perché non resta che l’arte immediata: edizioni musicali di interi album sostituite da singol, libri sostituiti da puntate su Wattpad o semplici-brochure o podcast da mettere in auto, quando non ci sono da sbrigare le chiamate ad amici e familiari. Non c’è più tempo! Ecco che allora anche il videogame pare stia vivendo un momento di crisi; questo specialmente per le triple A, le quali per aver ragione di essere devono avere ore di gioco a profusione, game-play e ambienti enormi, grafiche che “spostati”, prezzi ridotti alla sussistenza, per garantire che i pochi comunque acquistino.
La conclusione? Licenziamenti da tutte le più grandi software house, Sony che è stata divisa tra chi si occuperà di videogame e chi cercherà nuovi mercati da cui racimolare fondi e algoritmi di intelligenza artificiale addestrati per prevedere i gusti del mercato e non rischiare più. Questo non può che farmi pensare malissimo. L’assenza di visionari, di creativi pronti a rischiare con idee rivoluzionarie, schiacciati da un’etica dell’audience, basata sempre e solo sul motto “ti do quello che mi chiedi” impaluderà sempre più il settore.
Il genio non è statistica
La massa è la massa, non ha idea di quello che desidera. È un individuo isolato che scegliere di aprirsi un sentiero nelle sterpi (disruptive, si chiama questo tipo di processo visionario nel marketing), poi altri lo seguiranno perché lì comincia a delinearsi una via, fino a che l’intuizione primigenia e rischiosa non diventerà strada. Nel settore dell’arte, lo stesso si applichi al processo che va dalla creazione del genio allo standard dell’industria e della moda. Affidare a un’IA la previsione del gusto è l’ennesima spallata (qui sì) all’evoluzione sociale, al gusto, alla sfida e all’educazione delle persone al bello. L’IA si basa sulla statistica, il genio per definizione non è statistica.
Cosa vogliamo davvero da un videogame
Quindi la mia domanda è la seguente: cosa vogliamo dai videogame? Che diventino quello che stavano già rischiando di diventare? Il solito trito e ritrito, serie eterne numerate con dei più uno, ma con la solita meccanica, la grafica leggermente pompata ma nulla di che, la solita storia che ammicca alle ideologie e poi? Mi sembra una presa in giro. Io temo che l’arte, quando la si vorrà trovare, resterà negli indie, che tuttavia come rientreranno delle spese delle proprie visioni? Fondi? Forse… perché il fondo c’è se la comunità sente un tema come valevole democraticamente e adatto a risolvere dei problemi sociali. Tuttavia mettetevi nei panni della politica, se (per assurdo) dovesse prendere in considerare l’industria videoludica, guarderebbe necessariamente altrove, notando nel main solo che conferme ai propri pregiudizi. La si potrebbe biasimare se non dovesse scorgere potenziale formativo, medicale, creativo, democratico, valoriale, artistico-filosofico in tali media? Vedrebbe solo una serie infinita di I, II, III e giustamente penserebbe di trovarsi di fronte a una specie di dinastia feudale di Luigi. Ed ecco che quindi anche l’indie verrebbe intimorito a osare con le proprio idee avute a prescindere dal pubblico e dalla medietà: il budget risicato, la concorrenza feroce, la sterminata offerta senza visibilità, youtuber e influencer sempre più pretenziosi (ormai siamo rimasti in pochi a fare il nostro mestiere di divulgazione senza mazzette, solo per amor aristotelico, o in generale ellenico, della conoscenza in sé…). Cosa resta? Il solito mobile game con sterminati momenti di pubblicità e acquisti truffaldini in-app.
Gli anni che ormai appartengono alle generazioni degli -anta si godevano trovate geniali, proposte assurde, diversificate, soluzioni hardware e periferiche ingegnosissime (vedi la zapper). Credo che il fatto di guardare solo al profitto non sia un buon metro. Le metafore non sono una banalità del linguaggio, al contrario condizionano il pensiero e cosa ci si aspetta dalla realtà, e quindi ne determinano gli esiti. Pensiamo alla metafora che mette in relazione tempo e denaro e denaro e tempo. Tali istanze concettuali, andando di pari-passo, condizionano la rispettiva penuria. Non c’è più tempo? Beh, nemmeno denaro. Se si vuole il secondo serve il primo. Se si vuole rinunciare al tempo, bene, si rinunci al profitto, e in tal caso altre metriche devono essere prese a modello. Scegliete l’utile (non ideale) che vi piaccia di più, per il quale sacrificare il tempo che non c’è.
Il videogame come medium complesso
Senza tempo, stiamo assistendo all’atrofizzazione del pensiero laterale tout court. Il videogioco raduna, più di qualunque altro contesto, un team iper-diversificato, dando un luogo di incontro ad artisti visuali di diverse mansioni, letterati, cognitivisti, ingegneri elettronici e programmatori, attori, esperti di marketing e comunicazioni, giornalisti e divulgatori. Stavo rileggendo l’Opera Aperta di Eco, nella nuova edizione curata dal professor Riccardo Fedriga, e mi è venuto un brivido, un senso di straniamento e di malinconia, perché ci fu un’epoca in cui filosofi e artisti dibattevano sul concetto di arte e semiotica sui giornali e la gente comune si accendeva di fronte a quelle puntate argomentative. Com’è possibile che oggi siamo finiti a non avere più tempo libero per nulla, per nessun approfondimento?
Non c’è più chi si dedichi alla comprensione di messaggi più complessi di un mero scambio informativo superficiale, addentrandosi nei difficilissimi (e per essenza aperti) “Che cos’è?” socratici. Allo stesso modo non si ha più tempo per legami approfonditi di qualunque tipo, limitati a una chiamata in vivavoce nel traffico del rientro dal lavoro.
Non c’è più curiosità o entusiasmo per l’arte, se non per l’esperienza piccolo-borghese che contorna l’opera, contenitore che oggi assume più che altro i connotati di tomba dell’arte stessa. Com’è che non ci sia più tempo per stare giorni su un rompicapo alla Monkey Island o per voler scoprire un titolo diverso dai soliti che ci appassionano? Com’è possibile che un articolo più lungo di un titolo clickbait, gratis, sui social non venga letto? Tuttavia, lì sotto, fiumi di commenti (forse scoli fognari) che, se srotolati, danno l’impressione virtuale di un rotolo di papiro con impressi i debiti del peggiore d’Egitto, er più sòla de tutti, ma, ciascuno, dallo spazio-tempo dei classici commenti da bar, tra un rutto e una sorsata, con la regola che nessuno degli autori di cotanto approfondimento abbia avuto tempo per la lettura primigenia o per altre informazioni radunate da ulteriori ricerche online.
Conclusioni
La crisi dei videogame è la crisi che sta toccando il pensiero, e sì, il rischio è quello di ottenere “l’uguale sempre uguale”, un cerchio dalla dimensione della testa del serpente che nasconde la sua coda nella sua coda. Un individuo penserebbe che questa fosse una strategia del colubro, che, infido, doppia faccia come suo solito, volesse farsi credere altro da sé. In realtà nessun doppio, ché il doppio-senso richiede tempo e risorse cognitive già spente. La crisi dei videogame è la crisi legata al tempo, all’arte e al pensiero.