Nelle ultime settimane, venti di distensione sono parsi alternarsi continuamente a nubi di tempesta sull’Est Europa, mentre la battaglia mediatica combattuta nell’infosfera, di volta in volta, è parsa volgere a vantaggio o a discapito del blocco occidentale contro quello orientale.
Cosa ci insegnano gli attacchi cyber all’Ucraina: gli scenari possibili
Una guerra che si combatte anche nella sfera dell’informazione
Era il giugno 2021, quando Fiona Hill, già analista per la CIA durante le presidenze di George W. Bush e Barak Obama, capo degli affari europei ed euroasiatici del National Security Council durante la presidenza di Donald Trump, dichiarava al Financial Times che “i russi ci hanno effettivamente già dichiarato guerra molto tempo fa nella sfera dell’informazione”.[1] Una guerra quindi che, almeno alla confluenza tra spazio mediatico globale e narrazioni ideologiche, avrebbe già assunto da tempo i tipici caratteri di una polarizzazione geopolitica, molto prima che essa si manifestasse nella più stringente attualità, un conflitto già da tempo deflagrato, seppure, potremmo dire, come brace sotto la cenere di una nuova guerra fredda.
Come ormai assodato, sia in ambito accademico che militare, l’information war è solo una delle diverse dimensioni che confluiscono nel nuovo concetto di guerra ibrida, divenuto comunemente sinonimo di guerra contemporanea. Eppure, essa assume una peculiarità rispetto agli altri paradigmi propri dei conflitti ibridi, come la cyberwar, le azioni di guerra economica, di sabotaggio, di guerra elettronica, etc. In effetti, è lo stesso concetto di “information war” a detenere in sé una doppia valenza: quella di “guerra di propaganda”, da una parte, e quella di “guerra nello spazio digitale interconnesso”, dall’altra.
Una guerra di narrazioni: le armi sono il messaggio
Essa, quindi, si pone come una guerra di narrazioni agite dagli attori-utenti, attraverso i loro dispositivi di interconnessione globale nello spazio digitale, utilizzando o subendo i contenuti estrapolati dalla realtà come se fossero i proiettili di un’arma che si dispiega nella rete mediatica. In una guerra ibrida, in effetti, le armi sono il messaggio e, difatti, nel presente confronto globale, la realtà concreta delle armi è stata trasformata in ordigni digitali a uso bellico. In quanto guerra di discorsi, tuttavia, essa è anche conditio sine qua non, senza la quale una guerra reale non potrebbe avere luogo. Proprio in virtù di una contrapposizione politico-discorsiva, infatti, essa si configura in sé come necessario prerequisito di un conflitto reale. È proprio in tale prospettiva che, quindi, l’information war assume i tratti di una dimensione strategica del conflitto, un’arma preventiva e imprescindibile ai fini di qualunque sviluppo bellico.
Se la sfera narrativa piega la realtà
Tuttavia, a differenza del passato, l’attuale confronto di narrazioni che, quotidianamente, tentano di conquistare, a scapito dell’avversario, porzioni sempre più consistenti di “verità” nella sfera pubblica, è parso voler assumere, alle volte, un’ingerenza via via più invadente, sia nei confronti dell’agenda politica, che nella progressione temporale stessa degli avvenimenti reali. È come se, in qualche modo, la sfera narrativa del conflitto volesse – e molto spesso riuscisse – a piegare la realtà e condurre, quasi fatalisticamente, tutte le parti in causa verso l’inevitabilità di uno scontro reale. D’altra parte, tale processo si inscrive perfettamente nella logica della guerra ibrida, ovvero di un conflitto nel quale il rapporto gerarchico tra la dimensione informativa e quella più strettamente militare sul campo viene completamente sovvertito. In effetti, se è ancora vero l’assunto che la guerra sia «la continuazione della politica con altri mezzi»[2], è altrettanto vero uno dei mantra fondativi più di successo dello zeitgeist militare dei nostri tempi, quello che si propone come obbiettivo “winning the hearts and the minds” degli avversari, prima ancora di conquistarne i corpi. Uno zeitgeist che, tuttavia – come sottolineava Chris Ables Gray già nel 1997 – lascia, però, sempre sul terreno inevitabilmente anche il sangue e la carne delle vittime, considerate collaterali alla narrazione predominante, nell’illusione di dominare un dio della guerra meno virtuale di quanto vorremmo sperare.
Dalla guerra preventiva alla narrazione preventiva
Tuttavia, proprio perché fatta della stessa sostanza dei racconti, è la narrazione mediatica a dettare tempi, luoghi e modalità dello scontro. In particolare, ad esempio, è macroscopicamente evidente come in questa crisi siano state l’ansia della previsione e la corsa all’anticipazione del conflitto le vere protagoniste del confronto tra i blocchi contrapposti, soprattutto da parte occidentale. Al centro della scena, vi è sempre stata la combinazione tra le dichiarazioni dei rappresentanti politici e i grandi media outlet internazionali sul “possibile”, “probabile”, “certo”, “già in atto” e, infine, “già attuato” piano di attacco all’Europa da parte di Mosca. L’invasione russa dell’Ucraina è già narrativamente iniziata da tempo, addirittura progettata sin dal 1945, stando alle più recenti dichiarazioni di Boris Johnson[3] e non si tratta, a ben vedere, solo di un semplice refuso comparso e poi cancellato sul portale di Bloomberg[4]. Prima ancora che essa avvenga nella realtà, la guerra di aggressione russa nei confronti di Kiev ha assunto uno statuto ontologico di verità, al di là del fatto che essa possa prima o poi accadere o meno sul terreno reale. Anzi, ai fini delle decisioni e delle conseguenze politiche, che essa si realizzi o no, diviene del tutto ininfluente. La previsione assume i caratteri della certezza sì da incidere, non solo sulle testate dei news magazine, ma anche sulle concrete azioni politiche di ritorsione. Dalla “guerra preventiva” di George W. Bush si giunge, dunque, alla “narrazione preventiva”. È, d’altra parte, anche questa la logica strategica di una guerra ibrida.
Nel 2015, il massmediologo Richard Grusin, autore di un classico degli studi sui media emergenti, “Remediation” del 2003, pubblica un breve saggio dal titolo “Mediashock”, scritto sulla scorta delle proprie riflessioni sul processo di pre-mediazione dei media contemporanei digitali interconnessi, maturate durante i dieci anni di ricerche seguiti all’attentato alle Torri Gemelle. Mediante il meccanismo di “anticipazione” degli eventi traumatici, emergenze come le catastrofi naturali, i disastri ambientali o, appunto, i conflitti armati, assumono, nel nuovo mondo globalizzato dai media, un nuovo statuto ontologico, all’intersezione tra la loro dimensione reale e quella mediatica. In particolare, a proposito dello shock mediatico, Grusin scrive: “Nei contesti geopolitici globali del ventunesimo secolo, gli eventi catastrofici non solo sono ri-mediati e pre-mediati dalla stampa, dalla televisione e dai social media interconnessi, ma sono anche costruiti o fabbricati dai media in un altro modo più radicale. Gli stessi conglomerati multinazionali che possiedono i media o le reti invariabilmente fabbricano o producono anche i propri prodotti e i beni di consumo, oppure forniscono i servizi che causano o che sono coinvolti negli eventi stessi coperti dai media e che costituiscono poi i disastri o le situazioni di emergenza alla base del fenomeno del mediashock.” (p. 38).
La dimensione mediatica dello scontro anticipa e pre-vede quella reale
In effetti, più ancora che nelle precedenti crisi, forse ancor più di quella irachena del 2003, la dimensione mediatica dello scontro di narrazioni, protagonista dell’attuale crisi tra NATO e Russia, sembra molto spesso anticipare e pre-vedere quella reale, oltrepassando a volte i limiti che sarebbero imposti dalla logica o dal buon senso. Come altro interpretare, altrimenti, se non come una zelante manifestazione della pre-mediazione di Grusin, il countdown dei media, con tanto di diretta, avvenuto durante la notte del 16 febbraio alle 2 del mattino ora italiana, orario indicato dall’intelligence americana come quello in cui sarebbe iniziata l’invasione russa dell’Ucraina? Oppure, le varie dichiarazioni dei vertici statunitensi e NATO, riecheggiate globalmente da tutti i media, in cui, di volta in volta, la profezia autoavverante dell’imminente attacco da parte delle truppe di Mosca, assumeva gradualmente il valore della più assoluta certezza, al di là, tuttavia, dell’onere della presentazione di qualsivoglia prova? D’altra parte, se la guerra di informazioni è guerra di narrazioni, al racconto è superfluo richiedere la pedissequa aderenza ai fatti, bensì esso deve semplicemente rispettare le regole della verosimiglianza, essere, in altre parole, potenzialmente e non fattivamente vero. Il racconto di guerra non è “vero” o “falso” in base all’interpretazione razionale di un avvenimento, bensì in base all’aderenza emozionale del destinatario nei confronti del discorso ideologico che informa di sé la storia narrata. La verosimiglianza di una narrazione propagandistica – in realtà di ogni narrazione – è questione, dunque, estetica, non logica.
L’offensiva mediatica Nato, una strategia vincente?
Da un punto di vista strategico, quindi, la scelta temporale di sferrare un’eccezionale offensiva ibrida da parte della NATO proprio durante le Olimpiadi invernali di Pechino si è rivelata, almeno in un primo momento, vincente, a colpi di veementi dichiarazioni ufficiali, presunti leaks da parte dei servizi di intelligence, missioni diplomatiche, reportages giornalistici, iperattività social, schieramenti di truppe, operazioni speciali, accordi economici e militari. Essa ha ottenuto innegabilmente un duplice obbiettivo: da una parte quello di distrarre il pubblico occidentale dal gigantesco media event cinese; dall’altra quello di prendere di sorpresa i vertici militari e politici cinesi e russi, distratti, a loro volta, dall’irripetibile appuntamento mediatico-diplomatico Olimpico.
La risolutezza e l’escalation retorica, a volte apparsa quasi ai limiti dell’irresponsabilità, da parte del Governo statunitense, dei suoi alleati e dei propri media outlet più influenti ha, in effetti, ottenuto il risultato di far guadagnare terreno alla NATO sul campo di battaglia simbolico posto tra i due blocchi, oltre ad agevolare un maggiore dispiegamento di forze occidentali ai confini con la Russia sul campo di battaglia reale. La continua chiamata ad allarmi quotidiani; le minacce di ritorsioni e di blocchi economici; le indiscrezioni non confermate su fantomatiche operazioni di intelligence smascherate, le cosiddette ”false flag”; l’esasperazione verbale, prevalentemente dimostrata da parte del Presidente Biden e del Segretario generale della Nato Stoltenberg; l’uso reiterato di termini chiave che cristallizzavano definitivamente ruoli e funzioni nello schema narrativo, come “invasione”, “150.000 truppe ammassate”, aggressione all’Europa”; e, soprattutto, l’impostazione di un plot chiaro e di successo che ha saputo innestarsi su narrazioni profonde, divenendo quasi un luogo comune imprescindibile nell’immaginario collettivo, ovvero quello dell’“invasione russa dell’Ucraina”, solo per fare degli esempi, hanno sin da subito conquistato innegabilmente terreno sul campo di battaglia mediatico, dettando gli sviluppi della dimensione strategica del confronto. La narrazione di Mosca, prevalentemente basata su una strategia di debunking nei confronti dei media statunitensi e sul tentativo di dimostrazione della “falsità” delle loro affermazioni – orchestrata dalle fonti di informazione ufficiali, schierate sin da subito su posizioni difensive – non è riuscita a contrastare l’offensiva occidentale. I canali internazionali, come RT e Sputnik, gestiti dal Governo di Mosca, in effetti, non sono riusciti che a limitare le perdite, perché, per una città assediata – o sedicente tale – non c’è niente di più inutile che inviare messaggeri per annunciare al mondo la giustezza della propria causa e la denuncia di essere parte lesa.
Tuttavia, l’operazione di false flag simbolica attuata dal Governo USA, finalizzata a costringere l’avversario a difendersi dall’accusa di una invasione su larga scala che, probabilmente, non è stato mai intenzionato a compiere, per quanto efficace sul breve periodo, nel medio e lungo periodo rischia di essere controproducente, allo stesso modo di come lo fu l’operazione mediatica delle armi di distruzione di massa irachene. Il Governo russo, inoltre, grazie al possesso di risorse di soft power ingenti e non ancora completamente espresse, costruite in anni di confronto asimmetrico e di sottile penetrazione delle galassie social occidentali, combatte guerre ibride da anni su più fronti, con diversi mezzi e differenti tecniche, finendo per costruire, così, un’efficace, strutturale e solida coordinazione tra i propri vertici politico-militari, i propri media outlet e i propri narratori che, in passato, hanno dato prova di grande efficienza e adattabilità. Pur essendo probabilmente per la prima volta, negli anni più recenti, costretti sulla difensiva, è presumibile che i vertici russi tenteranno di rovesciare molto presto la narrazione strategica predominante e riprendere l’iniziativa, a maggior ragione ritenendo di avere la verità fattuale dalla propria parte. Perché, se è vero che la Nato ha condotto le proprie truppe ai confini della Russia utilizzando la narrativa della difesa comune dinanzi al pericolo incombente – e quindi divenuto “reale” – di un’aggressione russa, è pur vero che è essa stessa, tecnicamente, ad avere condotto le proprie truppe e ad avere inviato le proprie armi in territori stranieri, attorno a una nazione antagonista. D’altra parte, lo spostamento di ingenti truppe russe ai confini dell’Ucraina, l’avvio di ingenti esercitazioni in Bielorussia, la negazione continua di intenzioni belliche, non è essa stessa una guerra ibrida finalizzata a sfruttare le debolezze dell’avversario sul suo stesso terreno? Senza contare l’impatto della crisi energetica sul pubblico occidentale, altra arma ibrida in attesa di essere utilizzata in tutto il suo potenziale.
Dalla strategia alla tattica
In effetti, dopo una prima fase prettamente strategica, terminata con l’annunciato e il controverso ritiro di una parte delle truppe russe dai confini con l’Ucraina e in concomitanza con l’intensificarsi degli scontri sulla linea di contatto tra truppe ucraine e separatisti nel Donbass, le prime avvisaglie di una controffensiva mediatica russa non hanno tardato a manifestarsi.
Il ruolo di Telegram nella controffensiva mediatica russa
Essa, tuttavia, non si è espressa su un piano strategico, bensì sul piano tattico e il suo principale canale di propagazione è stato – ed è tutt’ora – l’app di messaggistica interpersonale criptata Telegram, utilizzata come vero e proprio servizio broadcast. Le informazioni veicolate sui canali Telegram – i cui gestori sono quasi sempre occulti o riferiti a gruppi paramilitari o a servizi di informazioni sia russi, sia ucraini – si caratterizzano per un tale livello di penetrazione, disintermediazione, agilità, immediatezza, verosimiglianza e capacità di replicazione, che nessun grande news media potrebbe mai avere. Se, infatti, a livello strategico, il ruolo militare e politico assunto dai grandi canali di propagazione di narrazioni occidentali come il Washington Post o la CNN, può essere paragonato a quello delle grandi corazzate o di grandi armate schierate sul campo di battaglia, i canali Telegram filorussi potrebbero essere paragonati ad agili motosiluranti, gruppi combattenti di una guerra di corsa. Su questo terreno, la capacità delle fonti russe di sabotare la grande narrazione occidentale è innegabile. Sui canali non ufficiali viene quotidianamente veicolata una mole consistente di materiale, molto spesso ripreso attraverso degli smartphone. L’affidabilità della narrazione è spesso legata all’adesione volontaria o meno dell’utente nei confronti del discorso ideologico del gestore del canale che, in tal modo, funge da gatekeeper politicamente e militarmente schierato, ma che, paradossalmente, è ritenuto a volte più credibile di una grande multinazionale dell’informazione o di una fonte indipendente, poiché in uno schema contrapposto come quello bellico, la terzietà è ritenuta meno affidabile e più sospetta della palese ostentazione di una divisa, esattamente per la stessa logica che condanna al ruolo di pària i franchi tiratori. Ma non è l’unico motivo di successo dei canali Telegram. Buona parte della sua fortuna si gioca sul meccanismo di fascinazione e di coinvolgimento emotivo dei contenuti, propri del linguaggio propagandistico, e la palese adesione partigiana a una delle due fazioni non costituisce motivo di scetticismo, ma, al contrario, funge alle volte da elemento rafforzativo nei confronti del mittente.
La polarizzazione, infatti, è strutturalmente parte costitutiva di ogni dimensione bellica, soprattutto di quella informativa, a maggior ragione in una guerriglia di informazioni, e tende a escludere sistematicamente qualunque tentativo di terzietà da parte di un soggetto, anche istituzionale. Prova ne è la graduale irrilevanza assunta nel tempo dai report quotidiani della Missione OSCE in Donbass, composta da osservatori internazionali, quotidianamente ostacolata, nel proprio lavoro di interpolazione, rilevazione e indagine, sia da parte delle truppe governative ucraine, sia da parte delle milizie separatiste, seppure, allo stesso tempo, sia stata utilizzata propagandisticamente da entrambe le fazioni a conferma o smentita delle proprie rispettive interpretazioni della realtà. Ne è un esempio il presunto bombardamento, avvenuto in pieno giorno, di un asilo, perpetrato da ignoti lo scorso 16 febbraio a Stanytsia Luhanska, in territorio controllato dalle truppe di Kiev, azione denunciata come una messinscena mediatica da parte russa e, allo stesso tempo, come un atto di terrorismo anti-ucraino su tutti i media occidentali. In seguito alla dichiarazione pubblicata da parte dei vertici dell’OSCE, di non essere stati messi in condizione da parte delle milizie ucraine di compiere indagini sul luogo dell’incidente, al fine di verificare la natura dell’ordigno e dell’arma utilizzati, nonché la veridicità stessa del racconto, la stessa missione è stata accusata di parzialità da parte dei gruppi filo ucraini. Per non parlare della confutazione continua e reciproca della veridicità dei contenuti video veicolati sui propri rispettivi gruppi di riferimento, o l’accusa da parte dei gruppi filorussi nei confronti dei corrispondenti locali dei grandi media outlet internazionali, come la BBC, di essere, in realtà, militanti neofascisti ucraini travestiti da corrispondenti di guerra.
La verità è una posta in palio
La verità, in una guerriglia di informazioni tale, diviene una posta in palio, una questione emozionale e non più razionale, come già chiaro a Churchill, per cui: “In wartime, truth is so precious that it should always be attended by a bodyguard of lies”. In effetti, come recitato nel finale del film Jarhead, diretto da Sam Mendes del 2005 sulla guerra in Iraq, “tutte le guerre sono diverse, tutte le guerre sono uguali”. Tale prospettiva di irrazionalità della verità, in tempo di guerra, non è solo una caratteristica della guerra contemporanea, bensì propria della guerra in quanto scontro violento di narrazioni contrapposte. Non appare quindi, né razionale, né lungimirante, né propriamente aderente ai concetti della logica democratica, contrastare militarmente una guerra di informazioni con gli strumenti di una censura preventiva adottata nei confronti dei contenuti non allineati con la narrazione bellica occidentale, ipotesi avanzata da un numero sempre crescente di analisti, dirigenti politici e grandi multinazionali dell’informazione o del web, nonché al centro di un progetto di legislazione del Parlamento Europeo, affidata allo Special Committee for foreign interference in all democratic processes in the EU, including disinformation (INGE). Per proporre un esempio, alcune delle più recenti narrazioni fasulle attribuite ai media e al Governo russi, denunciate da parte di EUvsDisinfo, progetto facente capo allo StratCom, divisione NATO di contrasto alla disinformazione, come la falsa accusa nei confronti del Governo ucraino di essere intenzionato a utilizzare armi chimiche, di organizzare attentati terroristici nei territori contesi o di perpetrare violenze e deportazioni nei confronti della popolazione civile, sono esattamente le stesse intenzioni che i servizi di intelligence occidentali, veicolate dai propri news media, attribuiscono al Governo russo e che lo stesso Governo russo ritiene disinformazione. La censura di una delle due parti faciliterebbe il compito di critica dell’autorità attribuito al cittadino, proprio di un regime democratico liberale, o non rischierebbe di inibirne del tutto tale capacità?
Conclusioni
Resteremo ad attendere i prossimi sviluppi su entrambi i fronti, con la speranza che il conflitto di narrazioni che, nel Donbass, continua a provocare quotidianamente sfollati, ingenti danni materiali e immateriali, nonché a lasciare sul terreno vittime tra i militanti e la popolazione civile, possa presto esaurirsi. Nel frattempo, l’Europa resta schiacciata nella contesa. Di tutte le proposte avanzate finora per una soluzione della crisi – come quella di intraprendere una riprogettazione generale della difesa europea, includendo anche in un ruolo chiave proprio la Russia – nessuna è stata capace di porsi come una possibile via d’uscita dalla polarizzazione dei due blocchi principali e come alternativa alla presente situazione di stallo, che prospetta un estenuante confronto perpetuo sulla linea rossa di una potenziale terza guerra mondiale combattuta sul vecchio continente.
Bibliografia
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Grusin, R., Mediashock, in Sharma D., Tygstrup F. (a cura di), Structures of Feelings. Affectivity and the study of culture, De Gruyter, 2015.
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- Von Clausewitz, Carl, Della guerra, I, BUR Editore, p. 24. ↑
- Ukraine: Russia plans biggest war in Europe since 1945 – Boris Johnson https://www.bbc.co.uk/news/uk-politics-60448162 ↑
- https://www.aa.com.tr/en/world/-russia-invades-ukraine-bloomberg-apologizes-for-reporting-blunder/2494783 ↑