Iniziamo assemblando alcune notizie recenti. Il 16 giugno, a Pechino, la temperatura è arrivata a 39,4 gradi, il dato più alto di sempre in tale periodo dell’anno. Nel 2022, in Europa, la temperatura media è stata di 2,3 gradi maggiore rispetto all’epoca pre-industriale (l’obiettivo era di contenere l’aumento entro 1,5 gradi…) e il Vecchio continente si sta scaldando a una velocità due volte maggiore rispetto alla media globale. Notizia che dovrebbe avere un titolo in prima pagina e l’apertura dei TG e dei social media – e invece niente.
Quanta energia consumano le big tech
E ancora. “A gennaio 2023, OpenAI, l’azienda che sta dietro a ChatGpt, ha utilizzato una quantità di elettricità pari a quella di circa 175.000 famiglie danesi in un anno. Le emissioni di carbonio dell’intelligenza artificiale possono essere suddivise in tre fattori: la potenza dell’hardware utilizzato, l’intensità di carbonio della fonte energetica che lo alimenta e l’energia utilizzata per addestrare l’algoritmo”.
A sua volta, “tra le Big Tech, Samsung produce più CO2 di qualsiasi altra società tecnologica. Mentre tra le Big Five, Amazon è quella che inquina di più”. E ancora: “circa l’1 per cento del consumo totale di energia sulla Terra è usato solo per mostrarci le pubblicità online. Le criptovalute, in particolare, hanno poi un enorme costo energetico: la creazione – o mining – di un solo nuovo Bitcoin consuma elettricità quanto una famiglia intera in nove anni. E sebbene sia difficile una stima accurata del consumo energetico di Internet, calcoli piuttosto affidabili portano a un valore di 0,06 kilowattora per ogni gigabyte di traffico trasmesso. Ciò comporta un consumo di circa il 2% di tutta l’elettricità prodotta al mondo, a cui va aggiunto il consumo dei dispositivi che usiamo per collegarci alla rete. Risultato: quest’anno l’Earth Overshoot Day – il giorno in cui il mondo finisce le risorse naturali a disposizione – cadrà il 2 agosto. Poi inizieremo a vivere a debito”[i].
Digitale e green washing
Dunque, significa raccontare favole sostenere che senza la transizione digitale non produrremo la transizione ecologica, necessaria a fermare (almeno a fermare) il riscaldamento climatico. Perché a parte alcuni usi davvero intelligenti, il digitale/i.a. è capitalismo all’ennesima potenza, permettendo l’ulteriore razionalizzazione – ma secondo la sua (ir)razionalità strumentale/calcolante-industriale – del modello tecno-capitalista per ottenere più produzione, più produttività, più consumismo, maggiori profitti privati e quindi – necessariamente, conseguentemente – maggiore riscaldamento climatico.
E quindi la profezia per cui, in questo sistema tecno-capitalista, è più facile immaginare la fine della Terra che la fine del (tecno)capitalismo va meglio specificata/esplicitata nel senso che il tecno-capitalismo è abilissimo nel farci dimenticare la fine della Terra, pur di non farci immaginare la fine del tecno-capitalismo come unica soluzione per fermare davvero il riscaldamento climatico. E lo fa attraverso tecniche che si chiamano green-washing; si chiamano Great Reset secondo il Wef di Davos; si chiama soprattutto attivare il nostro adattamento e insieme la nostra rassegnazione al riscaldamento climatico.
Del perché le scuole non insegnano a pensare ma a produrre
E se invece avessimo occhi per vedere e pensiero critico umano per capire – e se nelle scuole, ormai anch’esse aziendalizzate e funzionalizzate a produrre forza-lavoro secondo le esigenze del tecno-capitalismo, si insegnasse conoscenza per pensare invece di sole competenze tecniche a fare e a fare sempre di più assecondando sempre di più le esigenze del tecno-capitale a fare profitti sempre maggiori per sé – vedremmo che le retoriche (il mantra) del “ci dobbiamo adattare al cambiamento climatico” stanno crescendo di giorno in giorno quanto a intensità e pervasività, appunto per farci adattare al clima sempre più caldo, senza risolvere il problema a monte – e la causa è infatti il tecno-capitalismo e quindi se non ne usciamo in nome di una razionalità diversa, etica e responsabile verso le future generazione non risolveremo mai il problema ambientale[ii]).
Il tutto applicando pure al cambiamento climatico le tecniche -anch’esse irrazionali e irresponsabili come la razionalità irrazionale che le produce – di problem solving che si insegnano nelle scuole e fuori e che viene applicato anche dalla politica attraverso continui stati di emergenza cercando appunto di risolvere i problemi solo a valle, di volta in volta e un pezzo alla volta, semplificando e specializzando e parcellizzando e mai affrontando la causa (appunto, il tecno-capitalismo)nel suo insieme e nella sua complessità irrazionale e irresponsabile.
Adattamento (nostro) al riscaldamento climatico (prodotto dal tecno-capitalismo) – e si chiama anche resilienza (un altro modo, più gentile/soft, per dire adattamento), si chiamano master in comunicazione ambientale, si chiama sostegno del capitale a tutte le forme di nazionalismo/sovranismo/populismo che stanno dilagando nel mondo, con la complicità del popolo conquistato e catturato dalle tecniche di ingegnerizzazione del consenso tecnologico e populista e capaci perfino di fargli dimenticare il principio di auto-conservazione della specie (umana) – principio del tutto inutile in un sistema artefatto, artificiale, virtualizzato, matematizzato, amministrato dall’IA.
Tutte forme di negazionismo di fatto della crisi climatica, che permettono però al tecno-capitale/capitalismo digitale di guadagnare altro tempo[iii], di nascondere la mano che produce il cambiamento climatico, di continuare a fare impunemente profitto chiamando però tutto questo quarta rivoluzione industriale (prossima la quinta), quando in realtà è sempre la vecchia rivoluzione industriale con la sola differenza che i profitti passano oggi per il digitale e la digitalizzazione della vita umana – appunto: tecno-capitalismo, ma all’ennesima potenza (digitale)[iv] – e posto che il capitale è un grande affabulatore attraverso management, marketing/pubblicità, oggi social e piattaforme – per cui non si deve appunto mai andare alla radice del problema (appunto e di nuovo, il tecno-capitalismo e la sua irrazionalità strumentale/calcolante-industriale), noi continuando a dover vivere di favole.
E ancora, per ulteriore conferma: lo scorso giugno gli elettori del Cantone di Ginevra, in Svizzera, hanno respinto via referendum e con una maggioranza di oltre il 55% la proposta di aumentare l’imposta sui patrimoni superiori ai 3 milioni di franchi svizzeri, recuperando così risorse (stimate a 430 milioni di franchi in dieci anni) da destinare a progetti sociali, sanità pubblica e risoluzione della crisi climatica. Sadomasochismo ginevrino? Certo – e si potrebbe portare una infinità di altri esempi in giro per il mondo, dall’Ungheria all’Italia, dalla un tempo virtuosa Finlandia alla Grecia – cioè ormai siamo talmente pieni di ideologia neoliberale e di capitalismo e di digitale da avere ormai introiettato appunto il messaggio che non si deve uccidere il capitalismo ed è meglio morire noi al suo posto.
Dal green-washing al work-washing
Secondo The Economist non sarebbe vero che l’IA metterà fuori dal mercato del lavoro milioni di persone nel mondo, in particolare nella consulenza legale, l’amministrazione e la contabilità e le agenzie di viaggio. Certo, molti studi dicono il contrario – e non sono certo anti-capitalisti. “Ma gli economisti”, scrive il settimanale inglese, “tendono a fare previsioni sull’automazione senza averla mai provata. Una decina d’anni fa molti studiosi sostenevano che i robot avrebbero distrutto milioni di posti di lavoro. Ma pochi di loro oggi sanno spiegare perché nei paesi dove sono più diffuse le nuove tecnologie, come la Corea del Sud, la disoccupazione è bassissima”. Di più: secondo The Economist, riferendosi agli Stati Uniti, nel 2022 la quota di occupati in professioni potenzialmente a rischio di i.a. non sarebbe crollata, ma anzi aumentata dello 0,5%.
Il lavoro non diminuisce (forse) ma peggiora
Tutte false, dunque le previsioni catastrofiche sulla disoccupazione tecnologica elaborate fin qui? Forse, ma attenzione a non limitarsi ai dati, dimenticando i processi. Al di là delle favole raccontate per noi dal sistema anche negli anni ’90 – “grazie alle nuove tecnologie lavoreremo meno, faremo meno fatica, avremo più tempo libero per le cose belle della vita e entreremo in una nuova era di crescita economica infinita” e in realtà è accaduto esattamente il contrario come era facile prevedere se guardassimo alla tecnologia non con una visione sempre idilliaca ma guardando appunto ai processi che produce – è da mezzo secolo che la qualità del lavoro sta peggiorando sempre più, sempre nella applicazione di quella razionalità strumentale/calcolante-industriale che cerca con ogni mezzo di accrescere la produttività e il pluslavoro per accrescere il profitto privato; e questo mediante flessibilizzazione e precarizzazione del lavoro, esternalizzazione e remotizzazione dell’organizzazione industriale, piattaformizzazione come nuova forma della fabbrica – cioè grazie all’egemonia dell’ideologia neoliberale, ma soprattutto grazie alle nuove tecnologie e alla digitalizzazione del vecchio taylorismo che esse permettono di realizzare.
Ha scritto recentemente Antonio Casilli, autore del celebre “Schiavi del clic”[v],ricordando una realtà su cui indaga da anni: “Alla domanda: Dove viene prodotta l’intelligenza artificiale?, oggi noi diamo questa risposta: non nella Silicon Valley o in grandi centri tecnologici dei paesi del Nord. I dati, ingredienti fondamentali dell’IA, vengono prodotti nei paesi emergenti e in via di sviluppo. Foto, video e testi sono filtrati e arricchiti dai lavoratori delle piattaforme internazionali come la famigerata Mechanical Turk di Amazon, che li paga a cottimo per realizzare piccoli progetti online che durano appena qualche minuto: trascrivere, registrare, taggare, moderare, ecc. Ci sono anche altre grandi imprese quasi sconosciute come Appen o Telus, e piattaforme più piccole come la russa 2captcha e l’africana Sama.
Nel gennaio scorso, Sama è stata oggetto di rivelazioni da parte della rivista Time, la quale ha scoperto che centinaia dei suoi micro-lavoratori in Kenya hanno addestrato ChatGpt. E ancora: “La mappa globale che emerge dalle nostre ricerche attesta la costituzione di un vero e proprio esercito industriale composto principalmente da persone tra i 20 e i 30 anni (ma anche quarantenni e pensionati nei paesi del Nord). In alcuni paesi, la maggioranza è costituita da donne con figli a carico che accettano di essere pagate meno di due euro all’ora. Anche nel Sud globale, questi salari non sono sufficienti per una vita dignitosa. Un fenomeno che è strettamente legato alla disoccupazione e all’economia informale. I micro-lavoratori hanno regolarmente un livello di istruzione superiore alla media del loro paese, ma non riescono ad accedere al mercato del lavoro e guadagnano realizzando micro-task, ovvero brevi progetti retribuiti pochi centesimi”[vi]. E qualcosa di simile lo ha raccontato anche Josh Dzieza sul NYMagazine[vii].
Il fenomeno delle Grandi Dimissioni
A questo – per aggiungere un ultimo elemento alla riflessione sulle pratiche di continuo sfruttamento del lavoro praticato oggi dal tecno-capitalismo (e che ha trasformato l’intera società in una immensa fabbrica di cui noi siamo la forza lavoro in ogni momento della nostra vita e a pluslavoro quasi totale), si aggiunge il fenomeno delle Grandi Dimissioni. Noto da tempo, lo riprendiamo grazie a un recentissimo libro[viii] della brava sociologa Francesca Coin, che raccoglie molte testimonianze di persone che a un certo punto della loro vita mollano tutto, non sopportando più il loro sfruttamento. Testimonianze come questa: “E a quel punto dici: ma sai che c’è? Perso per perso, andassero affanculo. Ci avevano detto che ogni persona può diventare ciò che vuole, se si impegna abbastanza. Ma quella storia non si è mai realizzata. Ci sei solo tu che sputi sangue e loro che con i soldi che a te non danno comprano un’ottima bottiglia di champagne. E allora dici, vabbè, ma allora è veramente tutta una presa in giro?”. Sì, è tutta una presa in giro, complici management e marketing e social e mass-media. Come sono state appunto una presa in giro – una forma di work-washing che si affianca al green-washing – le retoriche sul lavoro intelligente e creativo permesso e promesso dalle nuove tecnologie; come una presa in giro è la propaganda sull’Industria 4.0; sulla valorizzazione del proprio capitale umano; eccetera eccetera.
Conclusioni
Ovvero, il tecno-capitalismo/capitalismo digitale è sempre capitalismo, ma appunto oggi all’ennesima potenza di sfruttamento. Dell’uomo e della Terra. Cioè, è ancora di più insostenibile e irresponsabile, ecologicamente e socialmente.
Bibliografia
[i] Newsletter della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli del 24 giugno 2023
[ii] L. Demichelis, “La società-fabbrica. Digitalizzazione delle masse e human engineering”, Luiss University Press, 2023
[iii] Usiamo ad altro fine il titolo di un bel saggio di W. Streeck, “Tempo guadagnato”, Feltrinelli, Milano, 2013
[iv] E sul tema della propaganda praticata (anche) dal tecno-capitalismo rimandiamo a un saggio degli anni Venti del secolo scorso: E. L. Bernays, “Propaganda. Della manipolazione dell’opinione pubblica in democrazia”, Lupetti Editore, Bologna, 2008; e all’appena tradotto in italiano (ma il libro è del 1962): J. Ellul, “Propaganda”, PIANO B, Milano, 2023
[v] A. Casilli, “Schiavi del clic”, Feltrinelli, Milano, 2020
[vi] A. Casilli, “Intelligenza artificiale, l’esercito dei precari” – https://ilmanifesto.it/intelligenza-artificiale-lesercito-dei-precari
[vii] J. Dzieza, “AI Is a Lot of Work” – https://nymag.com/intelligencer/article/ai-artificial-intelligence-humans-technology-business-factory.html
[viii] F. Coin, “Le Grandi Dimissioni. Il nuovo rifiuto del lavoro e il tempo di riprenderci la vita”, Einaudi, Torino, 2023