Si è conclusa nelle scorse settimane una consultazione pubblica con l’obiettivo di raccogliere commenti e contributi sui documenti relativi al Piano nazionale di digitalizzazione (PND) del patrimonio culturale lanciata qualche settimana prima dall’Istituto centrale per la digitalizzazione del Patrimonio Culturale – Digital Library del Ministero della Cultura.
A mio avviso, però, è opportuno e urgente sollevare una questione preliminare che, se non considerata con la giusta attenzione, rischia di inficiare tutto il lavoro fatto per la stesura di questi documenti e per la stesura dei venturi.
Direttiva Copyright: cosa cambia per la riproduzione digitale delle immagini dei beni culturali
Tutti questi documenti partono infatti dal presupposto che le norme italiane vigenti e recentemente approvate dal Governo siano tutte solide e prive di ombre. Certo, questi documenti sono redatti da dipendenti e collaboratori dello stesso Ministero che ha promosso le ultime riforme in materia, quindi difficilmente potrebbero dire il contrario. Ma forse è il caso di farsi qualche scrupolo interpretativo, in particolare in merito all’annosa questione delle riproduzioni dei beni culturali e all’articolo 108 del nostro codice messo a confronto con la recente direttiva copyright.
Lo pseudo-copyright sui beni culturali, problematico e tutto italiano
Il legislatore italiano nel 2017 metteva le mani sul Codice Beni Culturali confermando la sua intenzione di mantenere una norma (l’art. 108) a tutela delle riproduzioni dei beni culturali, anche quando si tratta di riproduzioni di altre riproduzioni e quindi di un’attività che non mette in alcun modo in pericolo l’integrità dei beni. Un mero diritto di riproduzione, che si comporta come un copyright anche se formalmente non è un copyright (assomiglia più a un diritto connesso) e non ha la sua radice nel corpus delle norme italiane sul diritto d’autore. Si trova infatti nel Codice dei Beni Culturali (il D. Lgs. 42/2004, un testo collocabile nell’alveo del diritto amministrativo) e non nella Legge sul diritto d’autore (cioè la L. 633/1941).
Nonostante l’inserimento di un comma 3-bis che stabilisce una serie di eccezioni di libero utilizzo, alcuni (io sono tra quelli) avevano storto il naso e fatto notare in più occasioni che, al di là di come lo si voglia chiamare e al di là di dove lo si voglia collocare, quel principio si comporta di fatto come un copyright e limita la diffusione e riproduzione di opere che sono da secoli patrimonio culturale dell’umanità, in quanto cadute in pubblico dominio; opere che sono quindi appartenenti a tutti, ma di proprietà di nessuno.
In molti casi, tra l’altro, parliamo di opere che il copyright (quello vero) non l’hanno mai visto nemmeno storicamente, perché semplicemente i loro autori sono morti ben prima che le prime leggi in tal senso fossero concepite dai legislatori. Giotto, Raffaello, Michelangelo, Bernini: tutta gente che il copyright non l’ha mai conosciuto; né loro né i loro eredi.
Tuttavia, paradossalmente, ora che siamo nell’era di internet, della rivoluzione digitale, dell’accesso diffuso alla conoscenza, le loro opere sottostanno a una specie di copyright di cui è titolare il museo o comunque l’ente pubblico che ha in custodia l’opera. Io l’ho battezzato “pseudo-copyright sui beni culturali” perché pur non essendo tecnicamente un copyright, nella sostanza si comporta come tale, distorcendo il senso del pubblico dominio e restringendone la portata.
Una norma distorsiva e in contrasto con le direttive Ue
Secondo il collega Carlo Piana, addirittura questo “psuedo-copyright” non esisterebbe e non sarebbe altro che il frutto di un’errata (e maliziosamente distorta) interpretazione della norma; poiché la vera ratio dell’art. 108 sarebbe quella di tutelare il bene culturale e non le immagini tratte da esso.
Solo l’Italia e pochi altri Paesi nel mondo hanno nel loro ordinamento un principio simile; molti fanno notare che ciò dipende dal fatto che l’Italia ha il patrimonio artistico-culturale più ricco e prezioso del pianeta. Vero, verissimo! Ma siamo davvero sicuri che quello sia il modo adeguato per tutelarlo e promuoverlo? Oppure, come è emerso più volte, il costo della macchina burocratica che gli enti pubblici devono attivare per gestire le autorizzazioni è maggiore degli introiti netti effettivamente incassati? Lascio ad altri esperti (economisti? archeologi? politologi?) questo tipo di valutazioni.
Un dato di fatto però c’è: l’Italia è membro dell’Unione Europea e in quanto tale deve conformarsi ai principi dell’ordinamento sovranazionale, senza approvare norme che risultino direttamente o indirettamente in contrasto con le direttive. E qui casca l’asino, come si usa dire. Ci torniamo più avanti.
La nuova direttiva copyright e il suo articolo 14
Il legislatore europeo nell’aprile 2019 ha approvato il testo definitivo della nuova direttiva in ambito copyright (Direttiva 790/2019 sul diritto d’autore e sui diritti connessi nel mercato unico digitale), dando tempo agli Stati membri fino al 7 giugno 2021 per il recepimento negli ordinamenti nazionali. Tra i vari principi innovativi introdotti, c’è l’articolo 14 che si occupa proprio dei diritti di riproduzione sulle “opere dell’arte visiva” già cadute in pubblico dominio; in altre parole, quadri, affreschi, sculture, litografie, fotografie realizzate da autori morti da più di settant’anni e dunque con un diritto d’autore “scaduto”. Invito a leggere attentamente la norma, accompagnata dal Considerando 53 della stessa direttiva, i quali sembrano davvero così chiari e limpidi da non richiedere grandi sforzi interpretativi.
Ad ogni modo il loro senso è il seguente: una volta cadute in pubblico dominio le opere, non è più possibile “sovrapporre” uno strato di diritti di privativa per controllarne la diffusione e la riproduzione.
Per intenderci, prima di questa norma un fotografo che realizzava la fotografia di un affresco della Cappella degli Scrovegni aveva un diritto connesso su quella foto (art. 87 L. 633/1941) e poteva controllare e sfruttare economicamente la sua diffusione. Ora, secondo il volere del legislatore UE, questo diritto non esiste più; le riproduzioni fotografiche fedeli e bidimensionali di opere di pubblico dominio (quelle che ad esempio entrano nei libri di storia dell’arte o nei cataloghi delle mostre) sono a loro volta di pubblico dominio, poiché non aggiungono nulla di creativo. A meno che il fotografo ritragga l’affresco di Giotto contestualizzandolo e “interpretandolo” in modo originale, quindi creando non una mera riproduzione fotografica dell’affresco bensì un’opera fotografica, con uno “strato di creatività” autonomo che crea a favore del fotografo un diritto d’autore. Ma quest’ultimo è un caso meno frequente e più marginale.
I dubbi sulla compatibilità tra l’art. 108 CBC e la recente direttiva
Come tutte le direttive europee, l’obiettivo principale è quello di creare dei principi comuni per tutti gli Stati membri e armonizzare il più possibile le normative interne. In questo caso, tra gli Stati membri più importanti, l’Italia era l’osservato speciale proprio perché era quello con la normativa più articolata e diversa rispetto agli altri Stati.
Il buon senso suggeriva che il legislatore italiano mettesse le mani sia sulla L. 633/1941 (Legge sul diritto d’autore) sia sul D. Lgs. 42/2004 (Codice dei beni culturali e del paesaggio). E invece, con circa 6 mesi di ritardo rispetto alla scadenza indicata nella direttiva, lo scorso novembre con il D. Lgs. 177/2021 il Consiglio dei ministri ha partorito una norma (il nuovo articolo 32-quater della L. 633/1941) che in sostanza riprende pedissequamente il senso dell’art. 14 della direttiva e che nello stesso tempo sottolinea anche “restano ferme le disposizioni in materia di riproduzione dei beni culturali di cui al Codice dei Beni Culturali”.
Sconcerto e disorientamento! Come può l’art. 108 rimanere invariato senza entrare in contrasto con il dettato della direttiva? Se lo chiedono in molti.
Come abbiamo spiegato, benché l’art. 108 non crei un diritto qualificabile espressamente come diritto d’autore o come diritto connesso, de facto esso crea a favore dei musei e degli altri istituti di conservazione del patrimonio artistico il potere di (non) autorizzare le riproduzioni dei beni culturali e di imporre il versamento di compensi (più propriamente “canoni”) per tali riproduzioni. L’effetto è quello di contraddire implicitamente e quindi, nei fatti, vanificare il dettato dell’art. 14 della direttiva.
Giocare con le parole?
Fare il gioco delle tre carte, infilando una norma in un altro testo normativo e utilizzando una nomenclatura dissonante (“non è un compenso per diritto connesso, è solo un canone per la riproduzione”), non è certo segnale di serietà e coerenza da parte del legislatore. Se il Governo crede che, per eludere gli obblighi derivanti dalle direttive europee, sia sufficiente fare così, lo dica candidamente, perché allora ci sarebbero tante altre direttive “scomode” che si possono disinnescare giocando semplicemente con le parole e con la collocazione delle parole.
Che figura ci farebbe il nostro legislatore se l’incompatibilità (logica e giuridica) tra l’art. 108 Codice Beni Culturali e l’art. 14 Direttiva UE 790/2019 venisse sollevata di fronte a un qualsiasi giudice o addirittura portata davanti alla Corte di Giustizia UE? Prima o poi credo che succederà.
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*Nell’articolo volutamente non sono stati riportati i testi delle norme giuridiche menzionate, poiché troppo lunghi. Per chi volesse avere il quadro completo, li può trovare sui siti istituzionali oppure già raccolti in un unico documento.
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