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Lo Stato di sorveglianza fa il salto di qualità: ecco i paletti antitrust necessari

I governi nazionali, e la stessa Commissione, sono stati colti impreparati dalla pandemia e la tentazione di un outsourcing di funzioni – si pensi solo alla nota questione del tracciamento – a grandi imprese tecnologiche è molto forte. Ma anche il prezzo da pagare sarà molto alto

Pubblicato il 12 Mag 2020

Stefano Mannoni

giurista, professore di Storia del Diritto Medievale e Moderno e di diritto della comunicazione all'Università degli Studi di Firenze, ex commissario Agcom

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Un forte grido di allarme contro il pronto ‘soluzionismo’ messo a disposizione dalle piattaforme tecnologiche in questo momento di pandemia, è stato lanciato – quanto mai opportuno e tempestivo – da Evgeny Morozov su The Guardian nei giorni scorsi. Il pensiero corre, per fare un esempio, alle API che Google e Apple stanno rilasciando per il tracciamento dei contatti.

Fate attenzione, ha avvertito Morozov, perché attraverso di esso lo Stato di sorveglianza, già ampiamente consolidato, rischia di compiere un ulteriore salto di qualità.

Il neoliberalismo è in affanno, certo, e l’ideologia del mercato, già discussa prima della pandemia, dopo questo evento è stata profondamente scossa. Sennonché un modo per rilanciare (surrettiziamente) il mercato sarebbe proprio quello di lasciare che le piattaforme tecnologiche accudiscano la comunità facendosi carico di ‘soluzioni’ appunto che il potere pubblico non ha la forza autonoma di immaginare.

Il prezzo da pagare

Il prezzo da pagare, qualora questo cammino procedesse incontrastato, sarebbe molto alto: in termini di libertà e autodeterminazione degli individui, che ne uscirebbero ancora più compromesse di quanto non lo siano già; ma anche in termini di pluralismo del mercato, poiché chi è già dominante lo diventerebbe ancora di più soffocando nella culla la concorrenza.

Come spesso gli accade, Morozov ha indovinato l’analisi. Sfortunatamente riesce meno a convincere quando invoca uno scenario “post-soluzionista” che restituisca al pubblico “la sovranità sopra le piattaforme digitali”. Sarebbe bello, verrebbe da commentare, ma da dove cominciamo?

Prendiamo gli Usa. Prima ancora che si scatenasse la pandemia risultava del tutto evidente che l’agitazione del movimento antitrust difficilmente sarebbe andata concretamente da qualche parte.

E’ vero che l’opinione pubblicata illuminata, guidata da alcuni intellettuali e da fonti come il New York Times, non demorde. Ma davvero è plausibile pensare che con la sindrome cinese in pieno galoppo l’autorità federale vorrà intaccare il potere delle grandi piattaforme domestiche? O non vorrà piuttosto reclutarle in modo ancora più stretto di quanto lo siano già nella competizione geopolitica con minacciosi rivali? Non ci sono molte ragioni per ben sperare.

Bruxelles e la sovranità europea contro l’autarchia delle piattaforme

Resta quindi l’Unione europea che non ha affatto archiviato l’ambizioso programma regolamentare di disciplina delle piattaforme tecnologiche (si pensi solo al Digital Service Act). E poi la verve antitrust manifestata dalla Commissione negli anni scorsi, e ispirata da Margrete Vestager (figura-chiave a Bruxelles) potrebbe essere stata messa solo tra parentesi. Non è del resto di molto tempo fa il lancio in gran pompa del programma di riconquista della “sovranità” europea (termine molto significativo e pregnante) proprio sul terreno del digitale.

Se l’Unione europea arriva a scomodare un concetto come quello di sovranità, per lo più poco popolare a Bruxelles, per rivendicare un ruolo guida e un’indipendenza nel mondo autarchico delle piattaforme, questo lascia ben sperare. E pure incoraggiante è il fatto che in Francia, ad esempio, l’autorità della concorrenza non abbia affatto mollato l’osso sulla lotta al potere vero o presunto dei GAFA. Però bisogna anche essere realisti.

I governi nazionali, e la stessa Commissione, sono stati colti largamente impreparati dalla pandemia e la tentazione di un outsourcing di funzioni – si pensi solo alla nota questione del tracciamento – a grandi imprese tecnologiche è molto forte. Tanto più questa prospettiva è concreta quanto l’emergenza, come spesso succede, ha molto indebolito i contropoteri al governo cui si chiede, senza andare troppo per il sottile circa le garanzie, di trovare soluzioni alla paura della collettività.

Come andrà a finire? Ci farebbe piacere poter dare qualche suggerimento al lettore ma ci troviamo, come credo molti, un po’ a corto di ispirazione. Di certo i paletti giuridici, soprattutto europei, saranno più solidi di quelli statunitensi che già da tempo vacillavano. Su questo si può ragionevolmente confidare.

Ma il rischio che lo smarrimento degli europei si possa tradurre in una perdita di convinzione e determinazione nell’asserire lo stato di diritto e il pluralismo verso le concentrazioni tecnologiche, inutile nascondercelo, c’è tutto. Non resta allora che aspettare, con quella acuta vigilanza di cui Morozov ha richiamato con toni così pressanti la necessità.

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