Che futuro ha lo Stato nel mondo del web universale? La risposta a questa domanda è stata data in modo piuttosto frettoloso. A rimediare ci ha pensato una importante raccolta di saggi, curiosamente passata inosservata, che prende di petto proprio il nocciolo della questione: quale è il ruolo dello Stato e il suo destino nel mondo di internet.
La conclusione della raccolta, nonostante la premessa che andremo a fare, potrebbe sorprendere, ma c’è una domanda che resta sempre aperta.
Lo Stato sovrano e la narrazione dei big del web
In Italia, per cominciare, dove lo Stato sovrano non è mai stato molto amato, si è profetizzata con somma soddisfazione e sollievo la inevitabile estinzione di questa ingombrante istituzione. La tradizione cattolica, antistatale e favorevole alle comunità intermedie, combinata con un neoliberismo inconsapevole delle proprie radici intellettuali ha decretato il tramonto del positivismo giuridico, della sovranità e dello Stato a beneficio degli spazi sovranazionali.
Si capisce da un certo punto di vista: vista l’inadeguatezza dello Stato italiano, tanto meglio farne a meno, anche se almeno per i liberali la forza della parte pubblica di fronte al potere privato dovrebbe essere un must irrinunciabile. Poco importa che faccia difetto in questa visione un’istanza di decisione ultima: l’ordine si produce da solo, spontaneamente.
Questa profezia si è sposata a meraviglia con la narrazione escatologica dei giganti del web che promettevano una nuova anarchia, assortita da un potenziamento, senza precedenti, delle facoltà individuali e dei movimenti collettivi. I vertici di Google sono stati tra i portavoce più vocali di questa palingenesi in salsa teleologica: il riscatto dell’individuo passa per una rivoluzione tecnologica inarrestabile che travolge tutte le barriere alla piena espressione del sociale rispetto alla sovrastruttura statale.
Lo Stato è in ottima salute
Eppure, i sintomi di questa irreversibile malattia dello Stato vestfaliano non sembrano, a guardarsi intorno, così evidenti. Giunge pertanto a proposito una importante raccolta di saggi, curiosamente passata inosservata, che prende di petto proprio il nocciolo della questione: quale è il ruolo dello Stato e il suo destino nel mondo di internet (U. Kohl (a cura di), The Net and the Nation State. Multidisciplinary Perspectives on Internet Governance, Cambridge University Press, 2017).
Ebbene la conclusione di questa brillante raccolta di saggi è che lo Stato non ha mai conosciuto una salute migliore e il neofeudalesimo da taluni intravisto come plausibile scenario alternativo non è dietro l’angolo.
La regolazione pubblica è pervasiva e condiziona in modo massiccio il modo di essere e gli scopi della rete. Al riparo per lo più degli occhi indiscreti e inconsapevoli degli utenti, gli Stati nazionali non hanno impiegato molto tempo a ricreare dei confini virtuali che hanno segmentato lo spazio universale del web. Ordini, ingiunzioni, sentenze: il terreno virtuale è disseminato di potenti iniziative giuridiche che riaffermano la sovranità addirittura proiettando la propria efficacia oltre i confini nazionali. Si prenda ad esempio il principio del paese di origine: orbene esso è stato rapidamente eclissato da quello di destinazione che autorizza audaci incursioni giurisdizionali e amministrative ben oltre quelli che dovrebbero essere i suggerimenti di un prudente self-restraint.
La balcanizzazione del cyber spazio
Non solo: gli intermediari internet sono stati arruolati a forza nella campagna per l’enforcement contro violazioni del diritto di autore o altro senza riguardo per la loro terzietà rispetto all’illecito. Il risultato è stato quello che gli autori chiamano la “balcanizzazione” del cyberspazio.
Certo: la governance di internet è multipolare e fondata su una combinazione di soggetti pubblici e privati. Ma piuttosto che essere una soluzione, questo assetto apre semmai nuovi problemi di legittimità democratica e di accountability. La questione di fondo è che lo Stato si è preso una possente rivincita sulla semplicistica retorica determinista della neutralità e apoliticità della tecnologia.
È vero che lo Stato stesso è frutto di una costruzione sociale, come lo è anche il suo territorio, comunità immaginaria e non dato di fatto. Ma si ha l’impressione che rispetto alla sfuggente identità dei giganti del web esso almeno offra qualche appiglio garantista. Non convince molto pertanto quando gli autori tacciano di protezionismo economico la normativa europea sulla privacy e persuade ancor meno il tentativo di riscrivere la rivendicazione dei motori di ricerca in termini di diritto umano alla libertà di espressione. Non sono forse alla fine sempre gli interessi commerciali a ispirare le scelte di questi colossi? Semmai persuade di più la perplessità di fronte alla tendenza a investire i protagonisti del web del ruolo di censori e gatekeeper: dove sarebbero le garanzie procedurali e le premesse di diritto naturale?
Riattualizzare il diritto d’asilo medievale
Il lettore avrà compreso che la partita giocata in questo libro è tra le più impegnative del momento. A testimoniarlo è anche lo sforzo di battere la strada di una visione, se non proprio di una proposta. Ricordate il diritto di asilo di medievale memoria? Orbene non sarebbe così peregrino immaginare di riattualizzarlo concependo il web come uno spazio giuridico sottratto alla legalità statuale e in competizione/dialogo con la stessa. Questo consentirebbe di aprire la porta a una tolleranza di comportamenti che, in una logica strettamente positivistica, sarebbero sanzionati.
Del resto, anche procedendo da una matrice culturale diversa, Ugo Grozio agli albori del Seicento spezzò una lancia a favore della libertà dei mari, sottraendo quello spazio alle pretese degli Stati. Una riedizione 4.0 della sua tesi potrebbe suonare pertinente. E non solo. Questo spazio beneficia di una asset importante: la cartografia. Lo Stato moderno è nato grazie alle carte geografiche che ne hanno sedimentato identità e rappresentazione. Ora, nel momento in cui Google map ridisegna lo spazio indipendentemente dallo Stato, è inevitabile che anche questo ne esca relativizzato.
Concettualizzare una comunità o più comunità che prescindono dal territorio statale – qualcosa che peraltro è esistito per secoli – non è più impresa votata al fallimento. E ancora, a un livello meno ambizioso, perché non propugnare il targeting rispetto al principio di destinazione? Verrebbe colpito l’intento selettivo di un soggetto web di invadere lo spazio di una giurisdizione, senza giustificare la ritorsione di un intero ordinamento che penalizza indiscriminatamente l’accesso a qualsivoglia contenuto: la mera accessibilità di un sito web non sarebbe sufficiente a incardinare la giurisdizione.
Tanto più che la tendenza ad attestarsi sul trattamento giurisdizionale più severo mette a repentaglio l’autonomia di quegli Stati che giudichino invece opportuno ripiegare su regimi giuridici più tolleranti. Alla tendenza della sovranità a esondare su territori altrui va dunque messa una museruola, vieppiù necessaria per la riluttanza delle giurisdizioni a interpretare con moderazione la loro autorità. L’alternativa è una esasperata frammentazione dello spazio giuridico della rete con buona pace per la celebrazione sposata un po’ da tutti del suo benefico potere di emancipazione.
Tiriamo le somme: Thomas Hobbes con il suo Leviatano non sarebbe deluso da come la sua creatura ha reagito alla sfida del web. Ma attenzione. I giochi sono aperti. E mentre la Compagnia delle Indie, che in tanti profili ricorda i giganti del web, emanava comunque dal Parlamento inglese, i protagonisti di oggi subiscono lo Stato, ma allo stesso tempo lo sfidano quotidianamente. La domanda che resta aperta è se in questa sfida tra colossi troverà uno spazio anche la società civile del cyberspazio: una presenza ad oggi più annunciata che intravista all’orizzonte.