Su TikTok il video della mamma che si infuria perché il figlio spende centinaia di dollari su Fortnite, comprando skin ed emote, diventa virale. Intanto un nuovo studio dell’Istituto Superiore di Sanità rivela come le restrizioni della pandemia abbiano dirottato l’azzardo sul web, direttamente in braccio a giochi che prevedono microtransizioni di denaro per ottenere vantaggi in-game.
A fare le veci delle sale bingo chiuse, delle slot machine nei tabaccai ci sono oggi videogame come Genshin Impact, in grado di raccogliere miliardi di dollari in pochi mesi. Ma di cosa stiamo parlando? Cosa sono i free-to-play, i pay-to-win, le microtransizioni, i gacha o i loot box? Qual è il confine tra divertimento e azzardo con bollino verde?
La differenza tra i giochi gratuiti e i cosiddetti pay-to-win
C’è una differenza tra i giochi gratuiti e i cosiddetti pay-to-win?
I free-to-play, in particolare quelli impuri, anche chiamati free-to-start, sono giochi il cui accesso è gratuito solo all’inizio, o comunque per una sezione limitata di essi, tuttavia, per ottenere alcuni vantaggi in-game, soprattutto estetici, e per approfondire la giocabilità, è necessario effettuare una serie di pagamenti, di microtransizioni. Mi riferisco a giochi molto noti come Clash of Clans, Candy Crush Saga, League of Legends.
I pay-to-win sono giochi in cui l’acquisto non resta accessorio e superficiale, ma è la conditio sine qua non per vincere. I vantaggi sono significativi e si ottengono o trascorrendo molto tempo nel gioco o pagando. Il guadagno di valute virtuali, di bonus e skill è il risultato di ore e ore di gioco, oppure è possibile accelerare i tempi spendendo soldi veri con cui ottenere quei vantaggi ed essere competitivi contro gli avversari. Viene riproposta la divisione tra chi ha tempo e chi se lo compra. C’è anche il caso in cui non-pagare dà svantaggi. Su Dungeon Keeper non si può non spendere perché la costruzione di nuove strutture richiede un tempo letteralmente impossibile. Inoltre se non si acquistano nuove gemme, il gioco si blocca fino a che non si completano altri compiti; questo rovina l’esperienza di gioco inevitabilmente.
Un caso analogo è stato quello di Shadow of War. Nonostante gli sviluppatori e Warner Bros abbiano rassicurato che i pagamenti non sarebbero stati necessari, alcuni livelli, di fatto, sono risultati così complicati da rendere i pagamenti extra una necessità.
Il modello di business free-to-play
Il free-to-play è un vero e proprio modello di business, alternativo a quello che prevede che il pagamento avvenga tutto e subito. Si sono diffusi in particolare in Cina, Giappone e in Corea del Sud, per diventare ormai molto popolari anche nel nostro mercato occidentale. C’era il dubbio che potessero assorbire il modello alternativo di business, ma probabilmente ciò non avverrà mai. In primo luogo spesso si tratta di indie game il cui scopo è di dirottare su siti esterni, insomma, sono casi di gamification applicata al marketing. Inoltre il free-to-play è sempre pieno di errori, non aggiornato. È tipico che venga rilasciato il codice di sviluppo per permettere che gli utenti stessi personalizzino i loro personaggi. Questo può essere buono in linea di principio, ma alla lunga i giochi, lasciati alla mercé degli user, invecchiano rapidamente, sommando bug e, dunque, buoni motivi per non giocare. Non rilasciando patch ufficiali, il genere si auto-condanna a rapidi tramonti.
Il primo ad aver dato avvio al trend è stato Facebook, complice il fatto che la piattaforma sia gratuita. Apple, dopo aver introdotto gli acquisti in-app, permise il decollo delle microtransizioni e dei free-to-play. Oggi i mobile-game (il 90 percento è free-to-play) si stima generino un milione di dollari al giorno! Tuttavia le console con i videogame pagati a prezzo pieno non danno segni di cedimento, anzi. Esistono anche qui contenuti scaricabili dopo l’acquisto, ma sono accettati purché l’acquisto base gioco sembri già sufficiente a offrire un’esperienza ottimale di gioco.
Play-to-win e acquisti in-app: troppo simili all’azzardo?
I Play-to-win sono giochi in cui l’acquisto in-app non è un’ipotesi, come si è detto, ma è un’operazione necessaria, senza la quale non sarebbe possibile giocare. Molti free-to-play prevedono acquisti, ma si tratta di elementi per lo più accessori, come skin, alternative grafiche o mappe. È possibile divertirsi (anche se limitatamente) già usando la versione base. I pay-to-win sono giochi in cui l’acquisto di un elemento può davvero fare la differenza per la vittoria. Si tratta di superpoteri di vario tipo (velocità, rigenerazione, pozioni) che vengono per lo più acquistati in modalità loot-box (o gacha). Ed ecco che si arriva al legame che ha questo genere di giochi con l’azzardo.
Si tratta di un pacchetto che potrebbe contenere qualunque cosa: o un vantaggio significativo oppure uno di scarso valore o addirittura nullo. Non sapere per che cosa stiamo effettivamente spendendo il nostro denaro è alquanto truffaldino, per non parlare, poi, del potenziale di dipendenza che serba questa modalità di vendita. Di certo gli sviluppatori vincono sempre, gli utenti solo a volte. Il gamer ogni volta scommette che quella sia la volta buona, che il loot-box contenga un bonus significativo, ma la scommessa non è mai gratuita. Questo sistema trasforma i play-to-win ( e i free-to-play che implementano la modalità gacha) in giochi simili all’azzardo, ma con bollino verde, per minorenni.
Come l’azzardo si nutre di piccoli rinforzi casuali, intermittenti, misere valvole di sfogo ma estremamente piacevoli, così questo genere di giochi trasforma la tensione di non riuscire a superare un livello in una condizione sfruttabile per incentivare piccoli e frequenti pagamenti. Il gamer, grazie ai bonus acquistati, sblocca infine l’impasse dolorosa: più c’è tensione, più il suo sfogo è piacevole. È una sensazione simile a quella fornita dalle droghe: è per questo che l’utente sarà incentivato a ripetere ancora e ancora il gesto. È un esempio di rinforzo positivo in grado di modellare comportamenti in maniera molto forte ed è quindi estremamente pericoloso, a maggior ragione che i ragazzi sono spesso i destinatari prediletti di questa trappola.
Se qualcuno ha passato ore a lavorare a un codice di un videogame, è etico chieda soldi, o subito o via via. Il problema sorge quando si paga per un pacchetto di cui non si conosce il contenuto: il loot-box e la versione asiatica gacha.
L’esempio di Genshin Impact
Genshin Impact, benché sia stato apostrofato quale pay-to-win, in realtà resta un gioco “freemium”, quindi essenzialmente gratuito. La versione base, nonostante preveda la possibilità di acquistare alcuni elementi in-game, resta giocabile e divertente. Dal 20 settembre 2020 ha generato miliardi di spese, soprattutto dalla Cina, che resta il destinatario numero uno di questo open world fantasy. Da alcuni deriso come copia fake di The Legend of Zelda è diventato un caso internazionale, anche alla luce degli enormi guadagni macinati in pochi mesi. Diversi utenti e giornalisti hanno denunciato la truffa della meccanica gacha (la versione orientale dei loot-box), che, come si è detto, spinge i giocatori a spendere tanti soldi per vantaggi estremamente rari.
MiHoYo, benché cinese, ha voluto dare un appeal nipponico al videogame. Genshin Impact prima di diventare un gioco era un manga, o meglio, manhua (fumetti in cinese). È un Action JRPG in solitaria, ma è possibile anche organizzare ristretti multiplayer, che però sono sbloccabili dopo diverse ore di gioco. Il tempo trascorso nell’open world dà accesso a varie funzioni aggiuntive, ma non sono essenziali per godere comunque di un bell’esperienza di gioco. Per aumentare i livelli si può anche spendere valuta reale, ma in ogni caso nel gioco sono tanti i modi per sbloccare tali funzionalità aggiuntive. Per questo resta un free-to-play e non un pay-to-win come a volte è stato detto. La domanda però sorge spontanea? Dove ha raggiunto tutti quei miliardi di monetizzazione? Essenzialmente dai gacha o “pullate”: si comprano desideri.
Il videogioco, insomma, è carino esteticamente, benché la trama sia la solita vista e rivista. Certo, per essere gratuito è fin troppo divertente: sono molte le possibilità, i luoghi da esplorare, le quest e i tesori. È un caso, allora, perché, con i suoi guadagni e la sua notorietà internazionale, riporta al centro dei dibattiti gli elementi di azzardo e dipendenza dei videogame.
Fifa era finita sotto accusa qualche anno fa perché aveva trasformato i ragazzini, principali fan del gioco, in target privilegiato e inconsapevole da cui mungere soldi. Electronic Arts è stata accusata per la poca trasparenza in merito, violando il Codice dei consumatori. Tra le proposte ci sono quella di includere banner per informare gli utenti che il gioco contiene loot-box e acquisti in-game. Inoltre c’è il suggerimento di inserire una possibilità di recesso entro le 24 ore. Per i genitori c’è la possibilità di avere un parental control, così da evitare spiacevoli sorprese sul proprio conto corrente. Per gli adolescenti si suggerisce di aggiungere una soglia di pagamenti oltre alla quale non è possibile andare, sia che la scheda appartenga ai genitori, sia che i proprietari siano i ragazzi. Nel Belgio e nell’Olanda è stata vietata la pratica dei loot-box tout court, alla luce dei comportamenti patologici che avrebbero generato nella popolazione, soprattutto minorenne.
I precedenti analogici
È inutile che ci scandalizziamo, additando i videogame di essere il male. Quando ero piccola anche noi spendevamo moltissimi soldi (di mamma e papà) per comprare inutili pacchetti di carte dei pokemon, solo per il gusto di testare la nostra fortuna e competere con quella altrui. Ci trovavamo con centinaia di doppioni che, alla fine, non riuscivamo neppure a scambiare con i compagni di classe. Pochissime volte trovavamo una carta super-rara. Quest’ultima non era mai costata il prezzo del singolo pacchetto, ma valeva tutti i soldi che avevamo speso dall’inizio della collezione.
Il fine era ed è l’ignoto, il brivido prima di sapere cosa effettivamente si celava nel box. Il viaggio e non la meta: oscilliamo tra dolore, piacere momentaneo dalla soddisfazione di un desiderio, e noia.
Con i loot-box si compra l’esercizio della fede (una fede da ruggenti anni 20); è la riproposizione materialistica della scommessa pascaliana e della scelta kierkegaardiana. L’azzardo non è altro che quell’Abramo posto di fronte alla possibilità di perdere tutto e vincere tutto. I loot box sfruttano la tendenza umana a voler avere prove di essere scelti da Dio. Nel caso calvinista si finisce per trasformarsi in stakanovisti e campioni di moralità, così da avere già in vita la certezza che saremo salvi nell’Aldilà. I videogame sfruttano lo stesso bisogno (a due passi dalla superstizione e dall’ansia di conoscere il retro degli Arcani maggiori) di ricevere segni di buono auspicio.
I gacha games sono nati in Giappone e, alla luce di quanto ipotizzato in questo paragrafo, probabilmente vi si può leggere proprio l’animismo shintoista: il kami, la sua benevolenza, si mostra nel contenuto del pacchetto. Anche Babbo Natale è una droga perché i suoi doni sono una sorpresa e si trovano in relazione alla domanda sulla moralità del bimbo. Compriamo giudizi morali, compriamo il bisogno di essere visti e considerati.
Conclusioni
In conclusione, è giusto che quegli utenti che, per lavoro o impegni vari, non possono passare ore su un open-world, possano compensare lo svantaggio con gli altri gamer, comprando alcuni bonus, purché la versione free sia effettivamente giocabile a prescindere dagli acquisti in-game e purché questa pratica non trasformi la competizione, il sano divertimento in un affare per privilegiati.
In ogni caso è necessario regolamentare la pratica dei loot-box, per il potenziale di danno che causano soprattutto sulle persone fragili e sui bambini, principali destinatari dei videogiochi.