Julian Assange, dopo 1901 giorni di detenzione nel carcere di Belmarsh, torna ad essere un uomo libero, grazie al patteggiamento con il Dipartimento di Stato americano. In base all’accordo, il 52enne giornalista australiano si dichiara colpevole per associazione a delinquere al fine dell’acquisizione di documenti, evitando così agli Stati Uniti anni di dispute legali.
Ma che fare di questa notizia? Il plauso è la prima, legittima, reazione.
“La notizia della liberazione di Assange”, commenta Vittorio di Trapani, giornalista RAI e presidente dell’FNSI (Federazione nazionale stampa italiana), “è frutto della straordinaria mobilitazione di cittadini che sono scesi nelle strade per sit-in, fiaccolate e presidi per lottare per il diritto di essere informati. E questa è un’ottima notizia in uno scenario complesso”.
Il plauso, ecco. Eppure, non ci si può fermare qui. Ci sono ombre persistenti sulla libertà di stampa, dopo quest’annuncio.
E, secondo alcuni, anche sulla vicenda stessa di Assange.
In particolare il tema è da guardare in attenzione in Italia, dal momento che “come dimostrano tutti gli indici, c’è bisogno di lottare ancora per la libertà di stampa”, anche secondo Riccardo Noury, Presidente di Amnesty International, a colloquio con Agendadigitale.eu.
Julian Assange libero: una battaglia per il diritto all’informazione
Assange e la sua organizzazione, WikiLeaks, hanno divulgato alcune delle informazioni più drammatiche dell’ultimo decennio. Tra queste, nel 2010, i documenti che denunciano le malefatte americane in Iraq e in Afghanistan. A partire dalle stime sulle vittime civili in Afghanistan più ampie di quelle precedentemente riportate e i filmati di un attacco indiscriminato da parte di un elicottero americano in Iraq. Senza queste informazioni, i cittadini non sarebbero stati adeguatamente informati su torture ed abusi, ad opera delle forze americane nella guerra in Iraq o contro i detenuti del campo di prigionia di Guantanamo.
Nello stesso anno Wikileaks ha pubblicato una serie di oltre 250 mila cablogrammi diplomatici americani, rubati con l’aiuto di Chelsea Manning, allora soldatessa semplice, autorizzata legalmente alla visione dei documenti secretati. Di fatto Assange ammette di aver fatto da ponte con il pubblico.
I commenti di Noury e Bazzichelli ad Agendadigitale.eu
“La bella notizia è che ora, dopo cinque anni, Assange sia libero. Ma si è dovuto dichiarare colpevole di reati che a nostro avviso non ha commesso (cospirazionismo, ndr). Ma, alla fine, fra ‘libero ma colpevole’ e ‘colpevole ma non libero’ preferiamo il secondo titolo”, commenta Riccardo Noury.
Infatti “è stato costretto a patteggiare per evitare di restare in prigione per tutta la vita, e per accuse che non avrebbe mai dovuto ricevere per aver compiuto un atto giornalistico”, conferma Tatiana Bazzichelli, fondatrice di Disruption Network Lab, laboratorio focalizzato su whistleblowing, network culture e hacktivism, dove in passato ha ospitato Stefania Maurizi, giornalista d’inchiesta.
Ma la vicenda più controversa (e, secondo alcuni osservatori, grave), secondo l’Economist, è che nel 2016 WikiLeaks ha fatto da tramite per le mail del Partito Democratico statunitense violate dai russi, la cui diffusione potrebbe aver influenzato il corso delle elezioni presidenziali americane, vinte da Donald Trump.
L’interferenza russa nelle elezioni americane e poi in quelle britanniche, dove si svolgeva il referendum sulla Brexit, sono oggi attribuiti alla Russia di Putin ai danni dell’occidente, dopo l’invasione della Crimea e prima di quella dell’Ucraina.
La difesa di Assange
Gli ammiratori di Assange si chiedono che cosa distingua la sua operazione da quella del New York Times, che nel 1971 pubblicò i Pentagon Papers, rivelando dettagli dannosi sulla guerra in Vietnam. Per certi versi, Assange non ha fatto altro che seguire le orme di queste illustri organizzazioni giornalistiche, che per lungo tempo hanno dato spazio ai leaker antigovernativi godendo delle tutele del Primo Emendamento.
“Il deficit di democrazia è enorme, anche perché proliferano i conflitti con tutte le loro narrazioni polarizzate“, spiega il presidente di Amnesty International: “Il giornalismo investivo, quello che non fa sconti e indaga e rivela, diventa un nemico. Questo conflitto storico fra il potere che vuole mantenere il silenzio e il giornalismo che vuole fare rumore, si è radicalizzato ancora di più in questo periodo storico“.
Tuttavia, ci sono diverse ragioni per cui la condotta di Assange lo colloca in una categoria diversa, a partire dalla latitanza nell’ambasciata dell’Ecuador fra il 2012 e il 2019, invece di affrontare la giustizia e farsi processare come fece Daniel Ellsberg che, da dipendente del Dipartimento della Difesa Usa, nel 1971 decise di rivelare i Pentagon Papers al New York Times, e, denunciando le falsità dell’amministrazione Nixon sulla guerra in Vietnam, divenne il padre di tutti i whistleblower successivi. A partire da altre note “gole profonde” che hanno permesso di fare la storia del giornalismo.
Ma, forse, “senza la straordinaria mobilitazione di società civili, organi di informazione (diversi ma non tutti), presidi, appelli, Assange sarebbe stato dimenticato. Oggi probabilmente languirebbe in una prigione di massima sicurezza negli Stati Uniti”, denuncia Riccardo Noury che aggiunge: “Quando l’opinione pubblica si mobilita, può fare la differenza“.
In effetti, una delle prime e più gravi accuse contro Assange non riguarda la sua attività di giornalista. Invece è stata un’accusa di stupro (poi diventata abuso sessuale da parte della Svezia, ritratta in seguito dalle accusatrici, ma rimasta in piedi fino al 2020) contro la sua persona. Un’accusa che mirava ad isolarlo e ad alienarli le simpatie dell’opinione pubblica.
Inoltre “nel caso contro Julian Assange, aver adoperato l’Espionage Act (la legge sullo spionaggio) per aver ottenuto e pubblicato documenti riservati da Chelsea Manning nel 2010 è una condanna contro la libertà di stampa e di informazione“, aggiunge Tatiana Bazzichelli.
“Questo costituisce un pericoloso precedente per tutti coloro che fanno giornalismo e si battono per rivelare crimini di guerra o altre forme di abuso e sopruso di potere. Il diritto di ottenere e pubblicare informazioni ricevute da una fonte dovrebbe essere tutelato. Infatti, la legge sullo spionaggio in questo caso contraddice il primo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti d’America, che dovrebbe garantire la libertà di parola e di stampa”, continua.
Le accuse contro Assange, anche dal mondo dei giornali
Le accuse americane contro di lui evidenziano che Assange non solo ha pubblicato informazioni trapelate – cosa che i giornalisti fanno sempre e aspetto che lo colloca a pieno titolo nella categoria dei “giornalisti” (e non delle spie). Ma è stato accusato anche di aver contribuito a decifrare la password di una rete segreta del Pentagono, rendendolo così un “co-cospiratore” nell’hacking illegale. Ma la storia della password sarebbe più complessa, secondo Der Spiegel.
Molti giornalisti chiedono alle loro fonti di fornire ulteriori informazioni, come avrebbe fatto Assange, tuttavia, la maggior parte di loro non aiuta le proprie fonti a forzare serrature fisiche o digitali.
Il Dipartimento di Giustizia del Presidente Barack Obama aveva riconosciuto di non poter perseguire le fughe di notizie di Assange senza criminalizzare il lavoro quotidiano dei media. Ma aveva avvertito che, ragionevolmente, ciò non significa che i giornalisti abbiano carta bianca. Per esempio, se si ritiene che siano agenti di una potenza straniera o che cospirino in crimini con una di esse, potrebbero essere legittimamente incriminati.
Alcuni comportamenti di WikiLeaks potrebbero aver superato questo limite, anche se non si conosce l’entità del ruolo personale di Assange nelle sue attività.
Secondo un’accusa pubblicata dal procuratore speciale Robert Mueller, nel 2016 WikiLeaks ha sollecitato spie russe – che operavano sotto uno pseudonimo inconsistente – a inviare le mail relative all’allora candidata democratica Hillary Clinton.
L’obiettivo sarebbe stato, secondo l’Economist, quello di influenzare le elezioni a favore del suo rivale democratico, Bernie Sanders. Il risultato è stato quello di favorire la vittoria di Donald Trump, il candidato meno detrattore di Putin: “Ragazzi, adoro leggere WikiLeaks”, dichiarava nel 2016 (salvo, da presidente, dire che WikiLeaks “non fa per me”).
Mike Pompeo, allora deputato repubblicano, twittava allegramente su WikiLeaks durante la campagna elettorale. Ma nell’aprile 2017, dopo essere diventato direttore della CIA, ha definito WikiLeaks “un servizio di intelligence ostile non statale, spesso sostenuto da attori statali come la Russia”.
Ciò evidenzia una seconda differenza tra Assange e i classici giornalisti. La maggior parte dei giornalisti responsabili non chiederebbe alle spie di un Paese autoritario di inviare loro segreti allo scopo di turbare un’elezione democratica né ometterebbe di informare i lettori sulla dubbia provenienza delle informazioni.
Ciò, secondo Bill Emmott, ex direttore dell’Economist, farebbe di Assange un ottimo giornalista quando rivela abusi su cui il giornalismo deve fare luce, ma “giornalista irresponsabile” quando mette in pericolo vite di militari, agenti, informatori americani o di altri Paesi, anche alleati.
Il metodo Assange a confronto con quello del giornalismo classico
Sempre secondo l’Economist, WikiLeaks si sarebbe resa disponibile a fungere da lavanderia acritica ed entusiasta per l’intelligence russa, per pubblicare materiale con scarsa o alcuna notizia, ma perfetto per minare gli interessi americani. Un esempio è la cache di strumenti di hacking della CIA pubblicata nel 2017. Al contrario, WikiLeaks pubblicherebbe raramente fughe di notizie che possano minare i rivali autocratici degli Usa, dalla Cina alla Russia, anche se ha una sezione ad hoc. L’accusa di alcuni detrattori di Assange, riassunti dall’Economist, è di non essere stato un agente nemico, ma essere diventato un “utile idiota“.
L’impegno di Assange nel divulgare informazioni, piuttosto che riportarle, lo ha messo direttamente in contrasto con i veri giornalisti. Nel 2011 ha pubblicato la versione integrale dei cablogrammi diplomatici americani, dopo aver registrato il disaccordo con la decisione di diversi giornali di pubblicare solo quelli redatti l’anno precedente.
I suoi cinque partner – Guardian, New York Times, El País, Der Spiegel e Le Monde – hanno condannato la mossa, mettendo in guardia che Assange rivelava informazioni personali sensibili e dettagli di sicurezza nazionale di scarso valore giornalistico, ma che mettevano in serio pericolo la vita di fonti preziose. Un giornalista etiope è stato costretto a fuggire dal proprio Paese. Ma altre fonti rigettano le accuse del Guardian.
Se Assange si considera un giornalista, secondo i suoi detrattori, avrebbe un disperato bisogno di un corso di recupero sulla deontologia professionale. Ma la sua libertà è un’ottima notizia, anche se poi bisogna fare di più per difendere la libertà di stampa.
Lo stato della libertà di stampa
Il 2024 World Press Freedom Index – journalism under political pressure, pubblicato da Reporter senza frontiere (RSF), afferma che la libertà di stampa e di informazione si sta deteriorando in tutto il mondo, non solo nei regimi autoritari, ma anche nelle democrazie occidentali, “minacciata proprio da coloro che dovrebbero esserne garanti: le autorità politiche”.
Al primo posto la causa di questo deterioramento è da imputare alla violenza delle guerre: solo a Gaza sono stati uccisi negli ultimi mesi oltre 100 giornalisti, 22 dei quali nel corso dello svolgimento del proprio lavoro.
Perfino la Norvegia, che guida la classifica al primo posto, è in declino, mentre l’Irlanda è passata dalla seconda all’ottava posizione, a causa delle intimidazioni di natura giudiziaria, perpetrate da politici contro la stampa.
Il potere politico controlla i media in vari modi, discreditando i giornalisti indipendenti e gestendo media (agenzie, quotidiani e Tv) attraverso persone allineate (e non giornalisti watchdog), come è successo in Italia, retrocessa di cinque posti, oppure tramite il controllo della rete e la diffusione di deepfake per creare “ondate di disinformazione”, come le ha definite il Presidente della Repubblica italiana Mattarella, e censurando le notizie scomode, fino a mettere al bando, arrestare o uccidere giornalisti come accade in Messico (121esimo) e in Russia (162esima).
“I principali ostacoli da superare per migliorare il grado di libertà di stampa anche in Italia, retrocessa di cinque posizioni”, conclude Vittorio di Trapani, “sono infatti il contesto politico e le querele temerarie“.
“L’acronimo Slapp (“querela strategica contro la partecipazione pubblica”) è usato anche nei confronti dell’Italia. Inoltre siamo il Paese dell’Ue con il maggior numero di giornalisti e giornaliste sotto scorta (quasi tutte donne del Centro-Sud) senza difesa, al di là dei nomi famosi”
Il panorama italiano
Nel Rapporto di RSF, l’Italia è passata dalla 41sima alla 46sima posizione.
Negli ultimi mesi sono scoppiati vari casi eclatanti che hanno alzato il livello d’attenzione sul grado di libertà dell’informazione:
- quello di Serena Bortone, sottoposta a provvedimento disciplinare dalla Rai, per aver denunciato la censura di Antonio Scurati, autore di M;
- il caso Saviano alla Buchmesse;
- e il mancato supporto economico e legale a Lirio Abbate da parte del nuovo editore.
- Ma in Italia sono i giornalisti di cronaca di provincia le grandi vittime delle querele temerarie, soprattutto ai danni di giornalisti che indagano sulla mafia.
Quali prospettive dopo il caso Assange
Nei mesi scorsi, nella Russia di Vladimir Putin, dove la libertà di stampa non esiste e dove ha trovato ospitalità Edward Snowden, altro attivista whisteblower, opposta sorte è invece toccata in sorte al dissidente Alexei Navalny, ucciso in carcere, dove è stato incarcerato, dopo essere stato salvato in Germania da avvelenamento ed essere tornato in patria.
Navalny poteva rimanere a vivere a Berlino, ma preferì tornare in patria per smascherare la disinformazione di Putin, ma, da quel momento, è iniziato il suo calvario che lo ha portato alla morte, in seguito al trasferimento nel più duro e feroce carcere siberiano.
Assange invece è vivo ed è tornato in libertà, dopo essere uscito prima dall’ambasciata ecuadoriana a Londra e poi dal carcere di massima sicurezza britannico, dopo quasi sette anni di reclusione autoimposta, ed è bastato un patteggiamento giudiziario perché si volatilizzassero la richiesta di estradizione negli Usa e il rischio di una condanna pari a 175 anni di carcere (quando i capi d’accusa erano 18, ora ridemensionati a uno solo). Secondo l’esasperato ministro degli Esteri dell’Ecuador, è stato un ospite difficile e perfino maleducato, ma questo forse è solo gossip in una lunga vicenda che vede comunque vincere lo stato di diritto e soprattutto la libertà d’informazione, anche se in uno scenario che si sta deteriorando e su cui occorre vigilare.
- Secondo i suoi sostenitori, la sua espulsione e il suo arresto sono stati un grave attacco alla libertà di stampa.
- Altri pensano invece che si tratti di una resa dei conti con la giustizia, da tempo attesa, per un uomo che ha scatenato il caos informativo in occidente, culminato nella destabilizzazione della democrazia americana.
- Tra queste due posizioni ci sono alcuni, come giornali liberali quale l’Economist, che guardano con un po’ di sospetto alla figura di Assange, pur senza condannarlo, e vogliono sganciarla dal modello ideale di giornalismo e dal concetto stesso di libertà di informazione.
Il fondatore di WikiLeaks, giornalista eroico per tantissimi, attivista senza scrupoli ed etica o addirittura agente nemico per altri, adesso torna libero sull’onda di una straordinaria mobilitazione globale per la libertà d’informazione. La buona notizia è infatti il riconoscimento della libertà di stampa come faro.
Senza giornalismo indipendente non c’è democrazia. Ed è importante insistere su questo concetto cardine delle democrazie liberali.
“Il messaggio è che Assange torna in libertà, ma è stato minacciato per oltre dieci anni. A vostro rischio e pericolo, vi teniamo d’occhio e sappiamo quello che fate e potreste pagarne le conseguenze”, conclude amaramente Riccardo Noury.
Mai abbassare la guardia e lottare per un giornalismo watchdog e responsabile è l’unico faro per preservare le democrazie. “La libertà di Julian Assange è sicuramente una vittoria, ma ci sono ancora battaglie da fare per evitare che casi del genere si ripetano e che l’Espionage Act sia utilizzato per colpire giornalisti e whistleblower“, conclude Tatiana Bazzichelli.
La notizia della libertà di Assange arriva inoltre nel giorno in cui Putin sanziona i media occidentali, bloccando l’accesso anche ai siti italiani di Repubblica, Rai e La Stampa, La7. Un ulteriore giro di vite sulla libertà di stampa nel Paese che langue al 162simo posto nel Rapporto 2024 di Reporter senza frontiere (RSF).