«Today we live in a society in which spurious realities are manufactured by the media, by governments, by big corporations, by religious groups, political groups – and the electronic hardware exists by which to deliver these pseudo-worlds right into the heads of the reader, the viewer, the listener.» [P. Dick, How to Build a Universe That Doesn’t Fall Apart Two Days Later, 1978]
Impazza il dibattito sulle fake news, ma la sensazione è che si stia facendo confusione sulla loro vera natura. Sulla loro portata di vere e proprie costruzioni di realtà alternative.
La definizione ufficiale è “notizie false diffuse sul web ed in particolare sui social network”.
A dar fuoco alle polveri è stato il fenomeno della cosiddetta alt right americana, che è riuscita a portare alla presidenza degli Stati Uniti un uomo come Donald Trump e a posizioni di rilievo nel mondo politico americano personaggi come Steve Bannon, il quale in un’intervista all’Hollywood Reporter del 18 novembre scorso ha affermato cose come “L’oscurità è una cosa buona (…) Dick Cheney. Darth Vader. Satana. Questo si che è potere” – un’affermazione che al di là del bislacco accostamento tra Dick Cheney e Darth Vader, dà l’idea del personaggio.
Occorre essere chiari. Le notizie, come tutte le cose, possono essere vere o false. Ci possono essere migliaia di ragioni per le quali un organo di stampa, autorevole o meno, può mentire. Il problema è vecchio come il mondo ed ovviamente è già gestito da una miriade di leggi, norme deontologiche, regolamenti, prassi etc. la cui efficacia può naturalmente essere messa in discussione, ma non ci si può certo svegliare adesso ed accorgersi che, si, a volte qualche giornalista mente, a volte qualche organo di stampa pubblica cose sbagliate, a volte qualche dichiarazione è falsa. Quindi il fenomeno delle fake news va definito con cura per cogliere gli aspetti che lo distinguono dalla pura e semplice pubblicazione di notizie false, che è attività vecchia quanto il giornalismo. Di nuovo un fenomeno vecchio quanto la scrittura viene trasformato in qualcosa di qualitativamente nuovo dal digitale.
Quando si parla di fake news si parla dunque non della semplice pubblicazione di notizie false o fuorvianti, ma ad esempio di una vicenda come il Pizzagate.
Pizzagate
Il 30 ottobre, nel pieno della campagna presidenziale USA – che ha visto il fenomeno di cui stiamo parlando venire alla ribalta dei media popolari – un account Twitter che sembra appartenere ad un suprematista bianco twitta che nelle email trovate nel portatile di Anthony Weiner si troverebbe la prova che la Clinton medesima sia coinvolta in uno scandalo pedofilo. Un utente di 4chan – il sito americano costruito sul modello delle imageboard giapponesi, dedicato perlopiù a temi strampalati, meme, e pornografia più o meno soft – costruisce una teoria simile, citando anonime fonti di polizia con cui avrebbe contatti.
Forse è il caso di riassumere, per chi non avesse seguito le recenti vicende elettorali americane, qual’è la vicenda a cui facciamo riferimento: pochi giorni prima delle elezioni presidenziali di novembre, l’ormai ex capo dell’FBI James Comey scrive una lettera al congresso annunciando di aver riaperto l’inchiesta sulle famose email della Clinton, di cui sarebbero appunto state trovate altre copie sul portatile di questo personaggio, ex marito di Huma Abedin, vicepresidente dell’organizzazione per la campagna elettorale della Clinton ed implicato in uno scandalo di sexting con una minorenne. Pochissimo tempo prima delle elezioni l’FBI annuncia di non aver trovato nulla di rilevante, ma il probabile spostamento di qualche decina di migliaia di voti potrebbe essere stato sufficiente ad assegnare a The Donald la presidenza.
Ovviamente la notizia dello scandalo pedofilo è inventata di sana pianta: siamo nel lunatic fringe delle notizie, ma non è questo il punto. Il punto è come la fake news si espande, prende quota utilizzando canali social – non necessariamente, all’inizio, di reti sociali mainstream, anche un sito come 4chan può essere efficace. Una moderna versione della calunnia rossiniana.
E ad ogni rimbalzo su un altro sito la notizia, se così la si può chiamare, viene arricchita di dettagli inventati. Su un paio di siti viene rilanciato il fatto che non meglio specificate proprietà dei Clinton sarebbero state perquisite e sarebbero state trovate le prove: e viene pubblicata una foto di poliziotti con grosse buste di carta che ovviamente non ha nulla a che fare con la vicenda – vicenda che, peraltro, semplicemente non esiste: non c’è stata nessuna inchiesta, nessuna perquisizione, nulla di nulla. Ciononostante nel giro di pochi giorni questi post ottengono centinaia di migliaia di interazioni su Facebook. Tra i rimbalzi, quelli su decine di siti di news di tendenza alt right localizzati in Macedonia. In Macedonia? Vedremo più avanti.
Nei primi giorni di novembre diversi account twitter iniziano a sostenere la tesi che nelle email di John Podesta, il campaign manager della Clinton, email carpite da hacker legati ai servizi russi secondo le autorità USA e leakate da Wikileaks, ci sarebbero in realtà dei messaggi in codice che fanno riferimento ad attività pedofile: un hot dog sarebbe un ragazzo, una pizza sarebbe una ragazza, una salsa sarebbe un’orgia, e così via. Su 4chan vengono creati dei meme da condividere, ed un thread su reddit parla di un complotto mondiale che coinvolgerebbe oltre ai Clinton anche George Soros (e si è mai visto un complotto mondiale che non coinvolge anche George Soros?). Reddit è una specie di aggregatore di news e di forum per discussioni on line sugli argomenti più svariati: pur non essendo Facebook ha pur sempre oltre 200 milioni di utenti unici. È su questo thread che viene citata la pizzeria “Comet Ping Pong” di Washington, un locale frequentato spesso da attivisti della Convenzione Democratica, come il centro organizzativo della cospirazione mondiale pedofila: le pareti sarebbero decorate con simboli satanici e nei suoi sotterranei vi sarebbero mantenute in stato di schiavitù le vittime del giro pedofilo. Il proprietario della pizzeria ed i suoi dipendenti vengono pesantemente attaccati e minacciati sui social network, fino al culmine: il 4 dicembre un uomo armato con un fucile d’assalto attacca la pizzeria, fortunatamente senza fare vittime. Dirà alla polizia che era andato lì per investigare sulla vicenda e trovare nel locale le prove materiali della cospirazione. È stato necessario un epilogo drammatico, potenzialmente tragico, per metter fine alla vicenda.
Ci si può chiedere come mai la qualità di una campagna di disinformazione come questa sia così bassa: dopotutto si tratta di notizie assolutamente incredibili costruite malissimo e sostenute con prove e metodi che non passano nemmeno il piú banale fact checking. In realtà il livello è esattamente quello adatto all’obiettivo della campagna, che è quello di concimare il terreno dell’alt right americana. Esattamente come nel mondo della pubblicità, una campagna deve essere costruita per il suo pubblico affinché sia efficace.
Troll farms
Cosa ci fanno dei siti Macedoni in tutto questo? Buona domanda. Veles è una insignificante cittadina di poco più di 50 mila abitanti nel centro della Repubblica di Macedonia, nella Ex Yugoslavia. E proprio a Veles risiedono i gestori di oltre 140 siti politici americani ultraconservatori: una concentrazione invidiabile e difficilmente spiegabile in modo ragionevole.
La vicenda dei siti macedoni di fake news è un esempio di come la motivazione dietro al proliferare di simili siti possa essere non solo politica, ma anche economica. La Macedonia è un paese in cui la disoccupazione colpisce duramente ed i giovani hanno poche prospettive: perché non sfruttare i meccanismi del marketing virale in rete per alzare qualche quattrino? Se l’argomento del giorno sono le elezioni USA, perché non metter su un bel sito di notizie – magari false, non importa – sul tema? Se lo scopo è fare del click baiting l’importante non è la veridicità della notizia pubblicata, ma la sua capacità di creare engagement, di essere veicolata sui social network e di aumentare tramite essi la sua visibilità. Dopodiché i soldi, via la pubblicità AdSense di Google, arrivano: e se una frazione di dollaro per click può sembrare una miseria negli USA, lo è molto di meno a Veles, Macedonia.
Nel loro momento di massimo splendore, un post su questi siti poteva facilmente avere centinaia di migliaia di condivisioni su Facebook, il che portava ad un gran numero di connessioni e quindi ingenti guadagni. Si parla di migliaia di dollari al mese, nei momenti migliori, e se veniva indovinato il post giusto si potevano raggiungere cifre ragguardevoli in un solo giorno. La scarsa conoscenza della lingua inglese non è un problema: si fa ad esemp copia e incolla, magari con qualche piccola modifica, da siti americani della galassia alt right.
Questo genere di iniziative, in ogni caso, quando motivate esclusivamente da ragioni esclusivamente economiche, raggiungono in genere un punto di climax e poi si autoestinguono: visitare oggi questi siti, a ciclo elettorale terminato, vuol dire trovarsi davanti una quantità di errori 404 e 504, i codici che significano sostanzialmente che i siti sono inesistenti, oppure davanti a siti che al massimo ripropongono una informazione settaria ma oramai assolutamente incapace di diffusione virale: la viralità della balla, piú è grossa e meglio è, funziona sul breve periodo ma sul lungo periodo non paga – se il fuoco non viene alimentato in qualche modo.
Ad alimentare il meccanismo delle fake news provvedono vere e proprie troll farm, gruppi di account social piú o meno falsi – la natura reale o meno dell’identità dell’account è un problema irrilevante: chi investe in una troll farm non ha difficoltà a trovare delle identità “reali” se necessario – che coordinano attacchi, sostengono teorie, generano la sensazione nel pubblico che dietro una notizia ci sia effettivamente qualcosa, perché “tutti” ne parlano.
Una famosa inchiesta del New York Times pubblicata nel giugno del 2015 (“The Agency”) ha documentato l’attività di un organismo russo, che si fa chiamare con vari nomi tra cui quello di “Internet Research Agency”, nell’organizzare una capillare attività di disinformazione basata su una serie di account social (su Twitter, su Facebook, su Instagram ma anche su piattaforme più popolari in Russia come Livejournal e VKontakte). Prendendo a prestito le tecniche di marketing più aggressive dal mondo dell’advertising vengono alimentate vere e proprie balle, complete di immagini, video etc. riadattati o completamente falsificati, vengono inventate testimonianze dirette per fatti mai accaduti: una attività spesso, ma non necessariamente, volta a creare uno spin verso spiegazioni alternative rispetto al mainstream giornalistico di eventi piú o meno nefasti. Ma a volte i fatti vengono semplicemente inventati: questo gruppo, come documentato dal New York Times, ha inventato un disastro chimico in Louisiana nel 2014 arrivando a creare una pagina su Wikipedia sulla vicenda – inesistente – a inventarsi un’epidemia del virus Ebola ad Atlanta nel pieno dell’isteria mondiale intorno all’epidemia africana, o sparatorie in cui persone di colore sarebbero rimaste uccise per fomentare disordini come a Ferguson.
Ma c’è anche di peggio. Una ricerca J. Albright, professore alla Elon University in N. Carolina, USA, ha individuato un account twitter che utilizzando un motore di intelligenza artificiale generava migliaia di video di fake news pubblicati su Youtube (gli account sono stati recentemente chiusi da Google), a partire da immagini di repertorio accompagnate da una voce generata dal computer. Albright ha individuato 78349 video postati in 19 canali youtube, video spesso postati al ritmo di uno ogni tre-quattro minuti su argomenti di strettissima attualità politica.
Benvenuti nel mondo della costruzione di realtà alternative create in tempo reale da intelligenze artificiali. E no, non è un romanzo di Philip Dick.