Secondo i parametri DESI (Digital Economy and Society Index) della UE , siamo arretrati in quasi tutto ciò che riguarda il digitale. Ma quello che sicuramente ci dovrebbe preoccupare di più, è renderci conto che, rispetto agli altri paesi europei, siamo arretrati nella cultura digitale; nei cosiddetti skill. E, come vedremo, la causa di ciò, probabilmente, è che, dolorosamente, siamo arretrati nella cultura; in generale. Quella cultura di cui siamo stati la culla.
Innanzitutto i grafici DESI illustrano il fatto che, nel capitale umano digitale, siamo non solo arretrati rispetto alla media europea, ma anche rispetto a quei paesi europei che si stanno sviluppando.
E, quel che è peggio, di anno in anno stiamo arretrando nelle posizioni di confronto con altri paesi UE. Nel 2015 eravamo quintultimi, nel 2016 siamo quartultimi. Fra pochi anni potremo vincere il “cucchiaio di legno” di buoni ultimi. Infatti, anche se è vero che alcuni progetti sono finalmente in corso per dotare gli italiani di banda larga e ultralarga, e di cultura digitale, non possiamo illuderci che gli altri paesi stiano fermi.
Le cause ? Innanzitutto la bassa spesa per l’educazione, in generale. Secondo Eurostat , l’Italia è il fanalino di coda in Europa per percentuale di spesa pubblica destinata alla cultura (1,1% a fronte del 2,2% dell’Ue a 27) e, come se non bastasse, al penultimo posto, seguita solo dalla Grecia, per percentuale di spesa in istruzione (l’8,5% a fronte del 10,9% dell’Ue a 27). Analizzando la percentuale rispetto al Pil, l’Istat poi sottolinea che la spesa per l’ istruzione è diminuita, passando dal 4,4% del 2014 al 4,2% nel 2015 mentre quella per la cultura si è quasi dimezzata passando dallo 0,8% allo 0,5%.
Parliamo in particolare delle nostre università; perché per molti anni abbiamo pensato di avere delle università eccellenti. E invece no, secondo “Times Higher Education” la migliore università italiana (la Normale Superiore di Pisa) è al 112mo posto a livello mondiale, mentre i nostri “fiori all’occhiello” come il Poli di Milano e la Sapienza di Roma sono tra il 200mo e il 250mo posto.
l’Italia, poi, sforna meno laureati di tutte le nazioni europee: Eurostat sottolinea che nel nostro Paese si laureavano e si laureano ancora pochi studenti. A fronte di una media europea del 36,8% la quota di popolazione tra i 30 e i 34 anni in possesso di un diploma di alta formazione arriva appena al 22,4 per cento. Una performance che ci vale l’ultima piazza nell’Ue a 28. Molto alta, poi, la percentuale di abbandoni. Dai dati disponibili nel rapporto OECD Education at a Glance in Italia soltanto il 32,8% degli studenti porta a termine un corso di laurea a fronte di una media OECD pari al 38%.
Si potrebbe dire che le nostre università, però, hanno tasse universitarie basse ? No; secondo “Eurydice”, in Europa, le tasse universitarie più alte si pagano nel Regno Unito; dopodiché, le tasse italiane e quelle spagnole si contendono il secondo posto: tutte le altre nazioni europee godono di tasse universitarie più basse.
Allo stesso tempo, le università italiane attirano pochi studenti stranieri. Nel 2013 (ultimi dati OECD), meno di 16 000 studenti stranieri degli altri Paesi dell’OCSE risultava iscritto nelle istituzioni italiane dell’istruzione terziaria (il gruppo più rilevante di essi proviene dalla Grecia) rispetto a circa 46 000 studenti in Francia e 68 000 in Germania.
Francesco Avvisati, senior analyst presso l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico dice: «Da noi mancano i quadri intermedi, quei periti di cui le aziende tanto avrebbero bisogno, mentre in Francia ad esempio gli Istituti universitari di tecnologia sfornano informatici in due anni. Disattenti agli esiti lavorativi, i nostri atenei si rivelano carenti anche sul fronte delle competenze di base: la priorità del sistema resta quella di formare belle menti, ricercatori, dirigenti, ingegneri. Non c’è l’idea di concentrare gli sforzi per elevare le competenze medie dei ragazzi usciti dalle superiori».
Diversi indicatori suggeriscono pertanto che una delle principali cause di questo decadimento sia collegata alla bassa qualità dell’insegnamento. Secondo OECD ( Organisation for Economic Co-operation and Development – una organizzazione con 34 paesi membri), spesso, in Italia, i titoli di studio non coincidono con l’acquisizione di competenze solide; sollevando interrogativi circa la qualità dell’apprendimento nelle istituzioni dell’istruzione terziaria. L’Italia, ad esempio, con la Spagna e l’Irlanda, ha registrato uno dei punteggi più bassi in termini di lettura e comprensione (literacy) dei 25-34enni, titolari di un diploma universitario (istruzione terziaria), che hanno partecipato allo studio dell’OCSE sulle competenze degli adulti. Molti laureati hanno difficoltà nell’integrare, interpretare o sintetizzare le informazioni contenute in testi complessi o lunghi, nonché nel valutare la fondatezza di affermazioni o argomentazioni a partire da indizi sottili.
E’ tutto? Forse no.
Forse no, perché alcuni, in realtà, si chiedono dove sia finita la “Cultura” italiana. Non solo quella digitale; ma la Cultura vera e propria. L’antropologo Tullio Altan, ad esempio, è un convinto sostenitore del fatto che le tare della società italiana abbiano la loro spiegazione nel perdurare di una mentalità che ha origini lontane, di secoli; e pertanto chiarisce il rapporto che passa tra mentalità e altri aspetti della vita collettiva e denuncia lo scarso impegno degli studiosi italiani nell’esaminare questi problemi. E il declino pare cominciare nel ‘700. In altre parole, dopo essersi lungamente imposta come un modello di civiltà, nel’700 l’Italia cominciò ad importare idee: il rapporto con le altre aree europee si era completamente rovesciato.