Questa è stata finora la guerra più “digitale” di sempre, intrisa mediaticamente di social network, usati come armi di propaganda e disinformazione da entrambe le parti, anche se in modo diverso (vedi articoli su Ucraina e Russia). Ma un certo ruolo i media digitali lo svolgono anche per portare testimonianze “indipendenti” del conflitto: di media, NGO, comuni cittadini su Facebook e soprattutto Tiktok.
Questa disseminazione informativa, su e attraverso i media digitali, può cambiare molto il percepito di un conflitto. Ma ancora dobbiamo capire a fondo in quale misura e con quali limiti.
Il nuovo scenario mediatico di un conflitto
Quando pensiamo ai conflitti precedenti, che si tratti di guerre mondiali o della guerra del Vietnam, il potere che l’industria dell’informazione aveva nel filtrare e nel “curare” (curation) i fatti era assoluto. E forse più diretto di quanto non sia oggi. Aveva anche un tipo di spazio più grande come mezzo di testimonianza.
Smartphone e droni
Ma ora con i social media c’è un outsourcing della funzione di testimonianza. Come tutti sappiamo, gli smartphone sono ormai accessibili ovunque ed è altamente probabile che qualsiasi cosa accada ci sarà qualcuno pronto a registrare e condividere. Anche in diretta. Come noto, abbiamo Facebook live e TikTok live. Si dice che il giornalismo è la prima stesura della storia, ma ora i giornalisti non sono più quelli che scrivono quella prima stesura. Di solito sono persone comuni. Persone che sono lì in quel momento, spesso per caso.
Cos’è la “testimonianza”
Testimoniare in un evento di rilevanza storica/politica, witnessing per dirla con gli anglosassoni (dove è più avanzato il dibattito a riguardo) è il modo in cui decidiamo collettivamente
- cosa è successo (stabilendo una verità condivisa sui fatti, spesso difficile in aree di conflitto, come stiamo vedendo in Ucraina)
- cosa significa quest’evento
- e perché è importante.
A differenza della visione dello spettatore, la testimonianza è associata a un significato morale. Comporta un passaggio dall’essere al dover essere, per dirla in termini filosofici. Un imperativo etico di reazione ai fatti-verità condivisa.
Così, quando usiamo il termine testimonianza, ciò che di solito intendiamo è essere spettatori o sperimentare un evento che ha un significato morale o un evento che è storicamente significativo.
Ma gli stessi giornalisti possono usare questi mezzi, direttamente o filtrare/raccogliere le testimonianze collettive dei cittadini. Sempre più spesso inoltre i media e le ONG si avvalgono di droni per monitorare situazioni critiche a scopi umanitari, durante conflitti, guerre civili, rappresaglie di Stato. I droni offrono la promessa di poter monitorare indipendentemente i campi di battaglia mentre si svolge l’azione militare.
Guerra, TikTok è diventata fonte d’informazione primaria: motivi e conseguenze
In questo senso, spesso amplificato dai social media, i droni sono diventati un altro strumento per chi cerca di utilizzare le moderne tecnologie per “sorvegliare la sorveglianza”; per tenere d’occhio ciò che fanno i vari militari del mondo e testimoniare l’ingiustizia.
Gli smartphone che riprendono un conflitto – o una brutalità poliziesca come avvenuto nel caso George Floyd e altri anche di casa nostra – all’apparenza sono strumenti all’opposto rispetto ai droni. I primi dal basso, coinvolti nell’azione (chi riprende spesso rischia) e popolari; gli altri sono dall’alto e a portata di pochi (anche se di un numero di persone crescente).
Eppure hanno entrambi in comune la caratteristica di fornire informazioni di prima mano, dirette e non filtrate.
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La politica della testimonianza: quanto contano i media digitali diretti?
Questo elemento non è garanzia di “verità”. E non solo perché potrebbe essere un fatto falso (disinformazione pura) o, al minimo, ingigantito dalla propaganda (come visto anche nell’attuale guerra). Ma anche perché l’evento registrato può essere una visione parziale, limitata, de-contestualizzata dell’evento. Non consentire così – almeno da solo e preso a sé stante – una sua comprensione accurata.
Il video in apertura mostra il celebre investimento di un’auto da parte di un carro armato russo. Non mostra però perché né l’esito. In questo vuoto informativo qualcuno, all’inizio, ha diffuso l’idea che il carro l’avesse fatto apposta, per uccidere (per fortuna l’autista sta bene). Non è ancora dato sapere se è un incidente o è un crimine di guerra.
Ma anche se fosse possibile avere solo fatti veri, documentati, “imparziali”, si porrebbe comunque il problema di ordinarli (filtrarli, probabilmente) per consentirli – di nuovo – una comprensione.
Infine, dopo la comprensione c’è da fare il salto verso l’azione etica, per completare il quadro della testimonianza.
Sia come sia, quando parliamo di tecnologie per la testimonianza è importante non cadere in un tipico errore di ingenuità. Pensare che la tecnologia si eserciti in un vacuum sociale. Che le lacune, da parte del pubblico e della società, di fiducia (nei confronti del racconto e di chi racconta, sia questa una fonte istituzionale o no) e di comprensione di un certo evento o di un conflitto vengano automaticamente risolte attraverso la tecnologia. Queste lacune sono invece questioni politiche, che si intersecano con altre questioni generali, socio-economiche (diseguaglianze ad esempio).
Una conferma viene dal racconto di recenti eventi. Pensiamo alle atrocità avvenute in Bosnia o in Ruanda, prima dell’avvento degli smartphone. Sarebbe facile pensare che se ci fossero stati smartphone o droni, a testimoniare, quelle atrocità non sarebbero avvenute. Ma la realtà è più complicata di così.
La guerra di Siria è stata la prima mediata dai social network, su Youtube. C’è stato tanto di digitale. Molte riprese, per comprendere cause, responsabilità, drammi. Eppure tutto questo non sembra avere aumentata la consapevolezza né tantomeno il traino morale del pubblico. Non sembra avere svolto un ruolo per abbreviare il conflitto, alleviare le sofferenze della popolazione.
È ancora presto per giudicare se i media digitali di accesso diretto agli eventi svolgeranno un ruolo positivo per la soluzione del conflitto ucraino; un ruolo maggiore – si intende – rispetto a quello svolto dai soli media tradizionali con i mezzi tradizionali degli inviati di guerra.
Istintivo, intuitivo pensare che questo ruolo ci sia almeno per approfondire la comprensione dell’evento (nonostante la disinformazione e la propaganda). Si può immaginare che almeno potenzialmente ci sia anche per favorire la testimonianza, la risposta etica. Il caso George Floyd può essere una prova.
Ma in quel caso, essendo un evento scoppiato in una società democratica, il peso della testimonianza è più direttamente esercitabile con la protesta.
Un conflitto è un affare assai più complicato. Fattori geopolitici ed economici, gli stessi che hanno causato la guerra, sono destinati a essere quelli determinanti anche per la sua risoluzione.
Eppure – ma saranno solo gli storici a dirlo – è ancora presto per uccidere la speranza che ci sia, in qualche modo e in qualche misura, un potere della testimonianza per favorire la pace.