Viviamo un tempo segnato da un certo trionfalismo del digitale, e questo aspetto può far dimenticare il radicale cambiamento che attraversa la dimensione della formazione sociale (ma anche politica dei giovani e degli adulti). È in questo contesto che siamo chiamati a riflettere su quanto, e velocemente, siamo cambiati.
Qui diventa centrale osservare attentamente l’impatto della comunicazione, ma soprattutto il posizionamento di non contemplarla semplicemente come utenti. È solo entro una lettura riflessiva che si può cogliere quanto essa parli di noi e della nostra disponibilità ad andare verso il nuovo. Resta il fatto che uno dei limiti della modernità è non domandarci cosa perdiamo del passato, senza che neanche ce ne accorgiamo, configurando dunque un vero e proprio rischio di cancel culture. Ne consegue che il focus di un’attenzione non pregiudiziale deve mettere al centro l’assestamento dei complessi equilibri della comunicazione contemporanea.
La pandemia e la riscoperta del ruolo dei pubblici
Solo in questo contesto, infatti, l’analisi diventa adeguata, soprattutto se non subiamo l’imperativo di “smettere” il Covid come un abito “fuori stagione”. È un punto di vista quasi negazionista, che dà la risposta più sbagliata ad un serio interrogativo contemporaneo: le emergenze sono finite o destinate a ripresentarsi? Sotto questo profilo, gli studi sulle novità della potenza dei media durante il Covid hanno insegnato che affrontiamo le emergenze cambiando scelte mediali prima ritenute immutabili. Inoltre abbiamo cominciato a rilevare quanto le svolte comunicative per un’informazione ispirata ad un ritorno alla mediazione, comportavano trasformazioni nella geografia mediale ma soprattutto nei comportamenti sociali. Mai avevamo avuto una così chiara percezione della duplicità di impatto dei media sui pubblici. Da un lato quella in cui gli utenti finiscono per essere semplicemente spettatori, disponendosi con naturalezza ad un’inondazione di contenuti, messaggi e stimoli. Dall’altro è sempre più evidente una nuova platea che, per competenze acquisite o propensioni culturali, sceglie una comunicazione pensata e vissuta in nome del media activism.
La “riscoperta” che il ruolo dei pubblici è decisivo in termini di autonomia non è una novità, ma induce a capire le profonde divergenze tra i media tradizionali, dove le emittenti appaiono a viso scoperto di fronte all’audience, e quelli digitali connotati dalla moltitudine di messaggi apparentemente privi di un mandante e di una regia, e dunque percepiti come interpersonali, anche grazie all’esplosiva frammentazione dei testi. Rischia così di diventare invisibile il profilo del potere comunicativo degli imperi digitali.
È una tematica complessa[1], che possiamo e dobbiamo affrontare in vista di un guadagno di autonomia e consapevolezza che può riconoscere nuovo valore alle scelte degli utenti. Abbiamo studiato per decenni l’influenza delle politiche culturali delle Tv, dove appariva comunque evidente un diverso status tra fonti e pubblici; oggi questi ultimi sono indotti alla gratificante percezione che gli atlanti comunicativi sono il prodotto delle loro scelte e selezioni di contenuti piuttosto che palinsesti riconducibili agli Over the Top. Il mood vincente è quello in cui tutti sono portati a pensarsi come influencer, proprio nel momento in cui rischiamo di essere più modellati dalle piattaforme. Qui appare lampante l’ “illusione social” spesso denunciata da Papa Francesco rivolgendosi soprattutto ai giovani.
La disintermedizione ci allontana dalla partecipazione
Gli OTT sono così lontani e globali da essere sottratti ad ogni giudizio di qualità culturale e formativa. È del resto difficile abituarsi all’assenza di figure professionali di mediazione capaci di aiutare i pubblici nella spiegazione e contestualizzazione dei contenuti. Si coglie così la loro centralità a fronte della ripetitività e tautologia oggi dominanti nella comunicazione. La disintermediazione tanto tipica della disinvoltura digitale oscura la possibilità di un qualunque contropotere degli utenti e allontana la chance che l’infrastruttura comunicativa incoraggi forme di partecipazione e attivismo. Chi studia comunicazione sa che, senza un centro unitario e adeguati punti di riferimento, essa svolge una pura funzione di accompagnamento alle crisi, e dunque dobbiamo cercare altrove, fuori dai linguaggi correnti, un progetto di exit strategy. Dobbiamo inoltre prendere atto che, per la prima volta nella storia della modernizzazione socioculturale, un pezzo rilevante di società è diventato indifferente, e spesso addirittura insofferente, nei confronti della cultura e della conoscenza[2].
Si può allora capire meglio la conclusione a cui arriva l’appuntamento con il Rapporto Censis che, ogni anno, individua una formula semantica per descrivere il nostro passaggio al futuro: ci ha definito “sonnambuli” che si muovono quasi automaticamente sulla scena, pronti a rimuovere la lezione del Covid e comunque quelli che il Censis descrive come “i luoghi del pensiero”. È una metafora preziosa, se pensiamo che questo trend prende le mosse a partire dalla stagione educativa prima ancora dell’ingresso a scuola, e racconta quanto abbiamo perduto rispetto ad un’epoca in cui quella era percepita da tutti come l’età della formazione ai valori e alla vita, e ora divenuta invece solo il secondo tempo del percorso educativo.
Verso una normalizzazione digitale?
Gli indicatori più aggiornati sulla “potenza di fuoco” dei media, soprattutto digitali e social, disegnano una tendenza nei comportamenti comunicativi orientata più al contenimento che all’espansionismo. È una novità interessante, soprattutto se le rilevazioni non saranno contraddette in autunno; ma quale che sia lo standard a venire (non è infatti impossibile che si possa registrare un rimbalzo, che poco toglierebbe ai trend del primo trimestre) saremmo di fronte alla presa d’atto che siamo vicini alla normalizzazione dei dati sulla comunicazione.
Nelle ultime rubriche che ho firmato per la rivista Formiche[3] ho cominciato ad osservare questo fenomeno, con riferimento anche ai media tradizionali e, in particolare, al Servizio pubblico radiotelevisivo, riconoscendo che i confronti devono essere condotti non con il periodo Covid ma con quello precedente. Rinviando ad altra sede questa discussione solo apparentemente metodologica, l’ipotesi di una frenata nella corsa dei media digitali (la seconda dopo quella durante il Covid) sembra più che plausibile ed è stata segnalata recentemente anche in un editoriale di Alessandro Campi per il Messaggero[4].
Rimettere al centro la qualità dei contenuti
Tutto questo non toglie nulla al riconoscimento che i giovani, accanto a larghi contingenti di adulti, risultano in uno stato di forte esposizione e forse addirittura saturazione rispetto alla pressione dei media e dei social. Nasce così l’obiettivo di una riflessione che torni a mettere al centro la questione dei contenuti, ivi inclusi la questione della loro autonomia culturale. Si pone qui l’esigenza di dare un’anima alla comunicazione, che significa anzitutto interrogarci su come misurare l’impatto delle tecnologie sulla vita e sulla mente. Gli indicatori parlano chiaro: 5 o 6 ore al giorno sono destinate al menu mediale, senza contare il tempo dedicato a telefoni e smartphone.
Non deve sfuggirci l’attenzione alla cessione di attenzione che soprattutto i giovani regalano ai social, abbastanza impegnativa se ricordiamo che alcuni dei tempi dell’agenda giovanile sono di fatto anelastici (il sonno, la scuola, i pasti e i compiti); si può dire allora che quasi tutto lo spazio che la sociologia francese chiamerebbe “scelto” è assorbito dal digitale. In altri termini il vero tempo pieno della scuola italiana lo conseguono proprio le cosmologie dei device.
Sono questi i dati che ci narra il consueto appuntamento di We are social, che autorizzano a ipotizzare appunto una normalizzazione delle tecnologie digitali; un’Indagine assai interessante perché consente di individuare scostamenti secondari e dunque un’accorta revisione nella distribuzione dell’attenzione.
I media digitali e la scomparsa del tempo libero
È venuto il momento di aprire un’analitica disputa sulla qualità e sui contenuti. Nel contesto di un sistema mediale che sembra un talk permanente, e in un tempo segnato da una crisi di pensiero, si profila l’ipotesi che il contatto con i media rappresenti l’alimento di un vero e proprio “senso comune”; ma c’è di più. Si intravvede una parziale confisca da parte dei media dello spazio dell’autonomia giovanile, al punto che nessuno parla più di tempo libero. Se aggiungiamo a queste perplessità la presa d’atto che il contesto in cui viviamo è quello di un sistematico aumento delle dipendenze, si può capire quanto i contenuti e i volumi della comunicazione non rappresentino automaticamente un’innovazione di sapere, facendo pensare piuttosto ad una cosmologia di messaggi con un loro tasso di ripetitività e tautologia, riconducibile in buona misura alla profilazione sempre più accurata degli utenti.
Ma così la comunicazione regala a tutti ciò che già abbiamo, ciò che sappiamo, riducendo l’innovazione e la varietà, ma soprattutto incollandoci addosso etichette preconfezionate e immobili.
Comunicazione e sovranismo digitale
Qui la nostra riflessione incontra un filone abbastanza consistente della letteratura scientifica che si interroga sul sovranismo digitale, volto a scorgere nuove gerarchie di temi, valori e parole messe in scena, riconoscendo così nella comunicazione contemporanea un formidabile attore di influenza sulle mentalità e sugli stati di coscienza. Nei testi incontriamo sempre più spesso un riferimento alla conquista delle menti, che sembra rinviare all’epoca in cui la letteratura (di importazione americana), inaugurava concetti come quello di “media potenti”. Affrontando una tematica di questo genere, coerente del resto con i dibattiti condotti negli anni precedenti e in particolare nell’ultimo, da cui traiamo un brillante stimolo scientifico nell’epilogo del saggio di Federico Boni dell’Università di Milano, che qui chiamo in causa per sottolineare un comune riconoscimento di nodi culturali aperti e meritevoli di un supplemento di attenzione.
Ritorniamo con la mente al trauma Covid: “Il sequestro della normalità di cui abbiamo parlato spinge i pubblici «nella direzione di una ricerca di senso da restituire ad un mondo culturale che lo ha perso e che improvvisamente non risulta più ordinato, riconoscibile» (Ieracitano 2020, p. 112), e se questa ricerca di senso «supporta una dipendenza cognitiva verso i mezzi di informazione» (ivi, p. 104), allora davvero si può concludere, con Miconi, che si è trattato di una ‘tempesta perfetta’, di un’occasione mancata per costruire un significato e dare un senso a quanto sta accadendo.
In questa tempesta – in questo naufragio – gli spettatori si sono trovati a essere non solo pubblici ma anche protagonisti, protagonisti di una vicenda il cui senso – sia come direzione narrativa che come significato – è di difficile attribuzione e sempre elusivo. Ma se «il viaggio è esso stesso narrazione», come sostengono Salzano e Scognamiglio (2020, p. 13), allora possiamo sperare che il naufragio ci abbia fatto capire che forse è il caso di seguire altre rotte, «una nuova narrazione che ci porti a comprendere che il post Covid-19 dovrà fondarsi su una maggiore consapevolezza di quanto la velocità a cui siamo abituati a viaggiare ci stia facendo perdere di vista la natura del viaggio stesso». Dopotutto, «un semplice virus ci ha mostrato che la destinazione che ambivamo a raggiungere era tutt’altro che sicura e confortevole» (ibidem).
Note
[1] Ho anticipato la discussione di questi temi nella Rubrica di gennaio 2024 sulla Rivista Formiche (n. !98/2024), “Che c’è di nuovo nella comunicazione”.
[2] Cfr. M. Morcellini, L’essenziale è visibile agli occhi. Una riflessione radicale sulla comunicazione, Editoriale Scientifica, Napoli 2018.
[3] Cfr. M. Morcellini, “Media. Effetto post-Covid”, in Formiche n.199 (febbraio 2024) e “Che c’è di nuovo nella comunicazione”, in Formiche n. 198 (gennaio 2024).
[4] Cfr. A. Campi, “Crisi di consensi / Il prestigio perduto della (finta) realtà social” (Il Messaggero, 28 dicembre 2023).