la riflessione

Memorie dal sottosuolo digitale: frontiere e prospettive del social web archiving

Dove riversare i nostri dati di oggi perché ne resti memoria in futuro? Chi dovrebbe detenere diritti d’uso, proprietà di hardware e software o farsi carico dei costi di gestione e aggiornamento dei formati? Chi dovrebbe garantirne la sicurezza? E, poi, chi dovrebbe scrivere le regole per lo stoccaggio e la consultazione?

Pubblicato il 28 Lug 2022

Luigi Giungato

Ph.D. St. in Politica, Cultura e Sviluppo, DiSPeS, Unical Ricercatore Società Italiana di Intelligence - SocInt

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La questione dell’eredità storica, in particolare di quella digitale è questione che pone nell’attualità di oggi le radici della nostra memoria futura, della nostra identità e, di conseguenza, dell’identità di chi ci sarà domani. Per quanto questa problematica possa apparire slegata dalle esigenze del quotidiano, la domanda sulla natura delle tracce digitali che la società di oggi sta preservando a favore di quella di domani è riconosciuta sin dal 2003 dall’Unesco[1] come istanza fondamentale che riguarda la conservazione del patrimonio culturale universale.

Facciamo un esempio per capirci meglio e per comprendere quante e complesse le domande che nascono in merito alla preservazione del nostro patrimonio pubblico digitale: non tanto su come, bensì su cosa, dove e ad opera di chi debbano avvenire la selezione, la trascrizione e la conservazione di ciò che ci riguarda come collettività.

Patrimonio intangibile e cultura digitale: così le macchine preserveranno la memoria

I ricordi evocati da una vecchia lettera

Supponiamo di essere un attempato signore di circa 70 anni e di ritrovare in cantina, per caso, una vecchia scatola di cartone, chiusa e abbandonata da tempo. Rovistandoci dentro, immaginiamo di ritrovare la copia di una vecchia lettera, ricevuta 45 anni fa, da parte di una giovane viaggiatrice, conosciuta in treno durante un viaggio in giro per l’Europa e poi mai più rincontrata. Rileggendo le parole scritte in corsivo con l’inchiostro blu di una Bic ormai sbiadito, ma indelebilmente impresso nella cellulosa bianca, i primi ricordi a essere rievocati sarebbero probabilmente il volto e le sembianze di quella lontana compagna di viaggio, la forma della sua bocca o il colore della sua maglietta. Intorno al suo viso, incontreremmo nuovamente il suono della sua voce, il rumore ritmato del treno, il vocio dei passeggeri, l’odore di fintapelle dei sedili o quello acre di ottone delle rastrelliere, insieme a tutte le altre sensazioni che erano rimaste lì, racchiuse sul foglio, in attesa di essere rievocate.

Eppure, oltre a quelle immagini riprese in soggettiva, ce ne sarebbero altre che noi potremmo cogliere, se solo allargassimo lo sguardo, disposti a più generose semiosi. Abbandonando il nostro punto di vista fatalisticamente posto in prima persona, infatti, la scena potrebbe allargarsi, focalizzarsi sullo sfondo, oppure concentrarsi sui dettagli della conversazione, come una macchina da presa che allarga e restringe il campo, indagando i singoli dettagli al di là dell’attenzione prestata allora dai giovani protagonisti della storia, troppo concentrati sulla loro vicenda personale. Ci sarebbero ad attenderci, così, tra una frase e l’altra, tutti i progetti per il futuro, le frasi fatte, la musica ascoltata, i libri letti o le posture prese in prestito da qualche personaggio di un film. Potremmo scorgere i desideri inespressi, i propositi per il futuro, il gergo, i vestiti, i monili indossati, i pregiudizi, la prossemica dei passeggeri del treno, oppure ancora lo sferragliare della carrozza connessa alla rete elettrica nazionale, il design art deco dei sedili, il gergo dei pannelli informativi, insomma rivedere, nitida come non ci saremmo mai aspettati di ritrovare a distanza di così tanto tempo, la società di allora che, senza che ce ne rendessimo conto, avrebbe influenzato le nostre scelte e la nostra vita per tutti gli anni successivi.

Le nostre memorie nel 2067

Immaginiamo, ora, che l’incipit di questa affascinante trama sul recupero della memoria dalle cantine dimenticate della nostra giovinezza, sia ambientato tra 45 anni a partire da adesso e che veda come protagonista un venticinquenne di oggi. Ci ritroveremmo, così, ad indagare le memorie di un individuo di 70 anni del 2067 su una vecchia email scritta nel lontano 2022. Su quale provider si troverebbe? Riusciremmo a ricordarne la password? Sarà stata conservata sui server? Oppure l’avremo salvata su un backup locale, conservato su un vecchio hard disk? Il disco sarà ancora leggibile e lo standard di connessione possibile? E in quale formato saranno stati salvati i dati? D’altra parte, è poco probabile che tale recupero della memoria personale sia contenuto in una lettera, forma sbiadita di modalità comunicative monomodali che, nel frattempo, hanno lasciato spazio a prassi di interazioni mediate più complesse. Le tracce di quell’incontro giovanile di un tempo, infatti, si situerebbero tra gli interstizi di una conversazione su Whatsapp, in uno scambio di commenti su Tinder o su Tiktok, tra le frasi concise di un messaggio su Facebook o sulle smorfie a bassa risoluzione di una storia su Instagram. La frammentazione di quei reperti ne renderebbe ancora possibile la conservazione a distanza di 70 anni da oggi?

L’archiviazione di dati di rilevanza pubblica

Ora, supponiamo ancora che la nostra lettera – o l’insieme di frammenti che ne costituiscono la sostanza – possa non riguardare più la semplice corrispondenza personale tra due giovani e comuni viaggiatori europei, ma che essa possa afferire questioni pubbliche e meno futili, se non altro dal punto di vista di chi possa considerare futili le schermaglie amorose tra due giovani e fugaci viaggiatori di passaggio. Immaginiamo, per esempio, che la corrispondenza possa riguardare due giovani e futuri personaggi storici, almeno nella comune accezione di storico in quanto attinente la narrazione condivisa nella memoria collettiva. Supponiamo, infatti, che questa vicenda si ambienti ancora più in là nel futuro, spostando la lancetta della nostra ipotetica macchina del tempo nel 2172, cioè a centocinquant’anni da adesso, e che possa riguardare due futuri governanti di oggi. Sebbene il salto nel tempo possa apparire come una vertiginosa fuga in avanti, quasi come la prospettiva di un incerto e lontano futuro, in realtà sarebbe un po’ come se noi oggi, nel 2022, rileggessimo un vecchio epistolario privato tra un poco più che ventenne Sidney Sonnino e una giovane Sarah Bernhardt, entrambi di ritorno da un viaggio nella Francia del 1872. Rileggendo le loro opinioni personali sui recenti fatti della Comune di Parigi, potremmo scoprire dei dettagli trascurati, delle sfumature inaspettate, dei segreti nascosti. Allo stesso modo, immaginiamo, così, che tra 150 anni da oggi, un gruppo di storici possa indagare e ricostruire le tormentate e incerte vicende istituzionali odierne, attraverso dei documenti personali lasciatici in eredità dai protagonisti politici dell’Italia del 2040, oggi ancora poco più che adolescenti. Su quali archivi, in quali formati, su che supporti elettromagnetici, con quali strumenti dovrebbero attrezzarsi gli archeologi per risalire la china che possa consentire loro di rileggere le vicende di oggi? E, durante tutto il tempo trascorso, attraversando le nubi del tempo, chi saranno stati i custodi di quella gigantesca biblioteca di Alessandria nella quale saranno rimasti custoditi i segreti del passato?

La conservazione di informazioni e documenti pubblici di interesse collettivo e culturale

Dobbiamo, inoltre, considerare il fatto che, seppure l’archiviazione delle informazioni personali, quali le corrispondenze intime o i documenti privati, possa essere anche relegata alla cura e alla libera iniziativa del singolo o di singole istituzioni interessate, tutt’altra considerazione merita la preservazione di quell’insieme di informazioni e documenti pubblici ritenuti di interesse collettivo e culturale, non specificamente riferite a un preciso individuo − ma che raccontando l’attualità, si situano nel novero di ciò che, anticamente, potevano essere considerate le cronache e che, attualmente, sono reperibili sulle fonti aperte. Parliamo prevalentemente dei siti web di informazione o di divulgazione, degli archivi e dei siti istituzionali, dei blog, delle biblioteche e dei registri pubblici, non tralasciando, peraltro, l’immensa mole di materiale accumulatasi nei database dei social network o nei cloud dei service provider. Ognuna di quelle informazioni pubbliche o, se non altro, di pubblico interesse, difatti, costituisce attualmente patrimonio ereditario a tutti gli effetti. Esso, infatti, rappresenta l’insieme dei documenti e, quindi, dei monumenti immateriali dell’età contemporanea, almeno secondo la nota accezione di Le Goff, tanto quanto i documenti conservati nelle biblioteche o negli archivi storici lo erano per l’età premoderna e gli archivi delle emeroteche o delle cineteche pubbliche per l’età industriale. Cosa farne oggi di tutti quei milioni di terabyte continuamente immessi nello spazio digitale interconnesso di Internet ogni secondo e che formano la sostanza e l’architettura delle nostre polis digitali, costruite in quel metaverso apparentemente infinito e relativamente giovane che è il web, nel quale strati di informazioni nuove si depositano continuamente su altri strati di notizie già vecchie, a formare una metropoli immateriale costruita sui propri scarti, come la Leonia narrata da Calvino? Se non è possibile o conveniente conservarne la totalità, come e cosa scegliere di preservare e a quale autorità delegarne l’onere?

I progetti internazionali di conservazione dei dati

In effetti, a tale scopo sono dedicati diversi progetti internazionali di conservazione dei dati, come l’Internet Archive[2] o l’International Internet Preservation Consortium (IIPC)[3], che coinvolge le biblioteche e gli archivi nazionali, regionali e universitari di oltre 35 Paesi nel mondo. Altri progetti di conservazione sono curati dalla Library of Congress statunitense, dalla Bibliotèque Nationale de France e dai National Archives britannici. Su Wikipedia è possibile visionare un elenco esaustivo dei principali progetti di preservazione del patrimonio pubblico digitale sul pianeta, dei più importanti standard di archiviazione sviluppati e dei soggetti pubblici e privati coinvolti[4]. L’Italia, in particolare, si distingue per un forte ritardo, con la sola rilevante eccezione rappresentata dalla Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze. L’esigenza di implementare tale settore archivistico, ha dato vita ad alcuni progetti formativi transdisciplinari, dedicati alla creazione di un know how specifico nel campo della conservazione dei dati ai fini della trasmissione del patrimonio culturale, come la Summer School in Web and social media archiving dell’Università di Bologna. La questione, inoltre, è stata recentemente protagonista di un vivace dibattito tenutosi a Lecce durante lo scorso maggio in occasione del Convegno AIUCD2022[5], organizzato dall’Associazione per l’Informatica Umanistica e la Cultura Digitale. L’intervento dal titolo Web e social media come nuove fonti per la storia, curato da Chiara Aldini, Stefano Allegrezza e Tommaso Mazzoli, tra le varie problematiche sollevate e, fin qui, sommariamente esposte, si è concentrato maggiormente su una disamina delle principali applicazioni open source per l’archiviazione dei dati digitali disponibili per gli utenti privati, quali HTTrack e Cyotek WebCopy.

Cosa conservare, dove conservare e chi deve scegliere cosa conservare

Riteniamo, tuttavia, che la questione legata al patrimonio digitale, debba essere affrontata anche, se non soprattutto, in relazione a questioni che esulano dalla natura strettamente tecnica degli strumenti software e degli standard di conservazione, riguardando invece problematiche apparentemente più teoriche che, però, costituiscono la sostanza nella valutazione della doppia valenza del termine con-servare, che è l’incessante lavorio di salvare dal disfacimento un bene comune in favore degli altri. Se, infatti, il cyberspazio è sempre più un’infinita superficie, nella quale la natura transitoria della metropoli moderna trova il suo trionfo, fagocitando e rigettando continuamente nelle cloache degli archivi web i beni di cui si nutre – almeno nella metafora calviniana – è bene considerare che il retaggio di ciò che la nostra città lascerà dietro di sé, a favore delle generazioni future, non sarà solo scolpito sulle superfici dei monumenti di bit che, come sempre avvenuto, l’autorità reitererà in siti, rituali e narrazioni ricorsive, destinate a divenire parte della memoria collettiva. Sarà, invece, proprio nei residui, negli scarti e nei frammenti di cocci sepolti in discariche digitali, che si conserverà l’eredità più autentica della società di oggi. Ciò, quindi, ci porta a riflettere sul fatto che, di tutti gli aspetti coinvolti nel processo di conservazione dei dati digitali ai fini della costituzione del patrimonio collettivo, è necessario concentrarsi maggiormente, non su come, bensì su cosa, dove e ad opera di chi debbano avvenire la selezione, la trascrizione e la conservazione di ciò che ci riguarda come collettività. Se tale riflessione potrebbe anche apparire oziosa, riferita alla memoria collettiva di un regime autoritario ­– nel quale le evoluzioni del principio di legittimazione aristo-monarchico stabiliscono un rapporto top down tra popolazione e potere – a maggior ragione tale questione dovrebbe ritenersi fondamentale nei regimi democratici, nei quali, almeno teoricamente, la logica bottom up della dialettica tra autorità e governati, dovrebbe condurre a un più vivo dibattito e a una scelta condivisa su cosa dovrà restare scolpito sui muri digitali dei Pantheon che lasceremo dopo di noi. La riflessione sulla tecnica, infatti, seppure di rilevante importanza, tuttavia non può oggi prevedere le dinamiche e i processi che caratterizzeranno le evoluzioni tecnologiche ed energetiche – se la comunicazione è anche questione di materiali utilizzati per lo stoccaggio delle informazioni – da qui a centinaia di anni. Di conseguenza – e, secondo l’assunto keynesiano per il quale nel lungo periodo saremo tutti morti – ciò su cui è prioritario discutere oggi non può essere prevalentemente su quali supporti e su quali formati conservare i dati di quell’infinito libro di cronache del presente che è lo spazio digitale interconnesso, al fine di agevolare il lavoro di scavo degli archeologi del futuro, bensì quello di scegliere come selezionare, dove conservare e quale autorità dovrà farsi carico di trascrivere le informazioni sull’enorme Talmud che la società contemporanea riversa quotidianamente sui supporti magnetici dei dispositivi digitali. D’altra parte, il discorso che riguarda la preservazione e la trasmissione della memoria storica e collettiva, riguarda sempre anche l’autorità, dal momento che è proprio essa stessa a stabilire i luoghi, le forme di conservazione e la continuità narrativa della memoria (Tota, 2007). Di conseguenza, in un processo democratico, l’opinione pubblica non può esimersi dall’essere coinvolta nel dibattito per stabilire contenuti e forme dell’eredità, così come non può essere esclusa dalla fondamentale questione sulla natura dei luoghi deputati a stipare il nostro retaggio per il domani. Affronteremo brevemente tali problematiche proprio attraverso tale prospettiva di condivisione dei criteri, al fine di riflettere maggiormente sul discorso riguardante ciò che oggi si fa storia.

Il caso della pagina Wikipedia sulla strage della Casa dei Sindacati di Odessa

Nel marzo 2022, a circa un mese dall’inizio dell’intervento armato russo su suolo ucraino, su alcuni media outlet indipendenti italiani compare la notizia, segnalata anche da numerosi internauti, della sopravvenuta modifica della pagina italiana di Wikipedia riferita alla strage della Casa dei Sindacati di Odessa del 2014. Come riportato dal resoconto di Amnesty International del 2015[6], tale incidente ha rappresentato uno degli episodi più sanguinosi della guerra civile deflagrata in Ucraina a seguito della deposizione del Presidente in carica Viktor Janukovyč. Le modifiche su Wikipedia, in particolare, riguardavano le responsabilità della morte di quasi cinquanta vittime accertate durante gli scontri che avevano posto traumaticamente fine alle manifestazioni intentate dalla fazione filorussa nella città sul Mar Nero. Nella prima versione, pubblicata nel 2020, l’enciclopedia online, definiva l’incidente un «massacro […] ad opera di estremisti di destra, neonazisti e nazionalisti ucraini». Nella versione modificata due anni dopo, il rogo di Odessa veniva stigmatizzato come un più generico «incendio […] a seguito di violenti scontri armati fra fazioni di militanti filo-russi e di sostenitori del nuovo corso politico ucraino determinatosi nel paese dopo le proteste di Euromaidan». Se, nella prima versione del 2020, la causa della morte veniva indicata nei «linciaggi e nelle violenze» perpetrate dalle frange estremiste neonaziste, nella seconda versione del 2022, a causare il decesso delle 48 vittime viene semplicemente indicato più genericamente il «rogo» dell’edificio, la cui responsabilità, d’altronde, viene in parte attribuita agli stessi assediati[7]. Nonostante le modifiche apportate, tuttavia, la cronologia delle differenti versioni pubblicate resta disponibile online per la consultazione e liberamente visualizzabile[8] grazie alle policy di trasparenza dell’enciclopedia pubblica. In tal senso, quindi, la vicenda legata alla trascrizione e alla manipolazione del racconto di un evento traumatico, seppure frutto di conflittualità interpretative, rappresenta paradossalmente un esempio virtuoso. Immaginiamo, infatti, di dover salvare l’informazione relativa ai fatti di Odessa del 2014 a fini archivistici. Essa, così concepita, non solo conterrà in sé la narrazione del fatto storico, bensì anche il processo dialettico stesso che ha condotto all’avvicendamento di differenti versioni dello stesso fatto. Senza tale zelo pubblico, la versione ufficiale sarebbe stata l’ultima, mentre quelle precedenti sarebbero state definitivamente cancellate.

L’incidente avvenuto su Wikipedia non è isolato e si inscrive nella dimensione informativa della guerra di informazioni tra blocco occidentale e orientale relativa al conflitto ucraino, con specifico riferimento alla dimensione assunta da quella che è stata definita una guerra alla memoria[9], ma che potremmo meglio intendere come guerra sulla memoria, concependo quest’ultima come un campo di battaglia o una risorsa scarsa sulla quale e per la conquista della quale aspirare alla vittoria. Gli esempi legati all’attuale conflitto ucraino, in tal senso, sono innumerevoli: dalla questione relativa alla distruzione o alla ricostruzione dei monumenti ai caduti della grande guerra patriottica nei territori contesi e nei Paesi dell’Est Europa, al dibattito sulla narrazione mediatica e cerimoniale in occasione della giornata commemorativa della vittoria sul nazismo; dalla messa al bando dei classici della letteratura russa in Ucraina, alla questione relativa ai loghi, ai simboli e agli stemmi dei battaglioni in guerra, ispirati alle truppe naziste o comuniste del secondo conflitto mondiale, solo per citarne alcuni. Non è un caso che la stessa Internet Archive abbia sostenuto il Progetto Saving Ukrainian Cultural Heritage Online (SUCHO)[10], nato al fine di scongiurare la perdita dei dati di utenti e istituzioni pubbliche in caso di blackout informativo dovuto alla guerra.

Tale dimensione mnestica del conflitto armato non deve meravigliare, se è vero che la stessa ricerca di un’identità collettiva è sempre frutto di «memorie contese, conflitti, negoziazioni, vere e proprie guerre nei processi di ritrascrizione del passato» (Tota, 2007). In effetti, il conflitto armato stesso è motore privilegiato della costruzione della memoria, poiché opera una sorta di selezione forzata tra ciò che deve essere conservato e ciò che dovrà essere obliato. Ed è altrettanto prevedibile che i media si facciano trascrittori e contenitori privilegiati di tali dinamiche conflittuali (Affuso, 2010).

La memoria pressoché infinita del cyberspazio

In tal senso, quindi, la struttura stessa del cyberspazio, con una disponibilità di memoria pressoché infinita e la possibilità di gestire la cronologia delle virtualmente infinite versioni dei documenti pubblicati, rappresenta una possibilità senza precedenti ai fini di un’archiviazione universale dei documenti dell’umanità, di modo che diventino, in futuro, fonte della ricerca storiografica sulla nostra contemporaneità. Ciò, in effetti, sembra risolvere la prima delle questioni sollevate in precedenza, quella relativa all’autorità delegata alla selezione e trascrizione della memoria. Se, infatti, il mezzo tecnologico permette un’archiviazione virtualmente infinita dei dati e se di tali dati è possibile conservare anche una cronologia, proprio come nell’esempio di Wikipedia, allora non dovrebbe essere necessario procedere ad alcuna selezione dei documenti da conservare, bensì ad un semplice stoccaggio delle informazioni.

Chi sarà il padrone delle nostre memorie digitali?

Tuttavia, la questione sulla selezione solleva, allo stesso tempo, anche quella dello spazio di archiviazione. Dove riversare una tale quantità di dati? Chi dovrebbe detenere i diritti d’uso, la proprietà dei supporti hardware e software o farsi carico dei costi di gestione e di periodica trascrittura e aggiornamento dei formati? Chi dovrebbe garantirne la sicurezza? E, soprattutto, chi dovrebbe scrivere le regole per lo stoccaggio e la consultazione, ovvero degli stessi formati dei dati e degli algoritmi necessari alla ricerca delle informazioni? La questione non è affatto neutra, dal momento che il luogo nel quale la memoria è immagazzinata, diviene contestualmente museo, Pantheon, artefatto della memoria collettiva (Affuso, 2010), scatola magica contenente non solo le informazioni del passato, ma anche tutti i codici attraverso i quali consultarlo e interpretarlo. Di conseguenza, la scelta su chi debba detenere la proprietà e la gestione di tale spazio – determinando altresì la natura pubblica o privata di tale luogo – non potrà che riverberarsi anche sulla stessa mediazione del ricordo, sui codici e sulle modalità performative della memoria stessa (Dikhaut, 2007). Sin dai tempi della Biblioteca di Assurbanipal, nella città di Ninive o della grande Biblioteca di Alessandria, delle biblioteche amanuensi medievali o delle pinacoteche dei palazzi imperiali viennesi, l’archiviazione delle informazioni relative al presente e rivolte al futuro ha funto anche da principio di selezione e di preservazione dei linguaggi dell’autorità interpretativa del ricordo. Difatti, il metodo di stoccaggio e di consultazione degli artefatti della memoria, così come nei musei, negli archivi o nei templi sacri, costituiscono in sé una forma di filtro tra la mera conservazione del ricordo e la sua effettiva disponibilità. Quanto tali funzioni discriminanti possano avere un ruolo determinante nella trasmissione del sapere, è stato al centro delle suggestioni di Eco e del suo tentativo di disegnare la labirintica biblioteca dell’immaginario monastero benedettino al centro delle romanzesche vicende di Guglielmo da Baskerville, nonché delle speculazioni relative alla perdita del secondo libro della poetica di Aristotele dedicato alla commedia, espresse nelle invettive del venerabile Jorge ne “Il Nome della Rosa”. Oppure basti pensare anche alla celebre Cattedrale di Nostra Signora Maria di Sion ad Axum, in Etiopia, nota in tutto il mondo per essere il luogo nel quale sarebbe custodita l’Arca dell’Alleanza ebraica, donata da re Salomone al figlio della regina di Saba, Menelik Io nel Xo secolo a. C., e lì rimasta occultata per millenni, sebbene mai a nessuno, fatta eccezione per pochi e selezionati custodi sacri, sia stato consentito di accedere alle catacombe nelle quali viene preservata.

Il sogno di costruire una capsula del tempo che contenga ogni traccia delle nostre vite e che funga da anelito e guida per le vite future, ha ispirato romanzi di fantascienza, videogame e film, sebbene sia la suggestione della scrittura di un infinito e collettivo Talmud – redatto incessantemente al fine di preservare l’interpretazione della parola e, quindi, della conoscenza della comunità – a rappresentare, meglio di ogni altra narrazione, la suggestione di rendere immortali le tracce di ciò che abbiamo fatto e siamo stati in vita. Quale dovrebbe essere, quindi, l’autorità che trascriverebbe e custodirebbe il nostro Talmud, che disegnerebbe il labirinto della nostra biblioteca, che metterebbe ordine nel deposito del cittadino Kane o che terrebbe al sicuro da sguardi indiscreti il magazzino nel quale viene effettivamente conservata l’Arca dell’Alleanza, dopo essere stata ritrovata dall’archeologo Indiana Jones?

La scelta più ovvia – che sarebbe evidentemente quella di rivolgersi ai grandi cloud privati, tutt’ora già detentori di buona parte di tutte le informazioni della contemporaneità – non è necessariamente la più auspicabile, sebbene rifletta il processo di privatizzazione che informa di sé tutta la struttura del cyberspazio, almeno nella sua versione occidentale. Da questo punto di vista, infatti, non sembrano esservi all’orizzonte delle risorse dedicate all’implementazione degli spazi digitali pubblici o dei progetti per la messa in comune degli stessi, finalizzati alla salvaguardia dei dati di interesse collettivo degni di nota, fatti salvi quelli già esposti in precedenza e che, in effetti, sembrano porre in rilievo, almeno teoricamente, la questione della conservazione della memoria come esigenza pubblica.

Tuttavia, presto o tardi, quanto più si accumuleranno i dati e quanto più ci si dedicherà alla conservazione delle informazioni personali pubblicamente reperibili sui social network, anche tali progetti dovranno affrontare il reperimento degli spazi, la gestione delle royalties, degli algoritmi e dei formati di trascrizione, sottraendosi con difficoltà a una possibile forma di collaborazione con le big tech. Eppure, la scelta di delegare in maniera deregolamentata agli interessi dell’industria culturale privata la conservazione delle storie che ci narreranno è piena di insidie, non solo per il ruolo che la memoria ha nella costruzione delle identità.

Conclusioni

Se consideriamo, infatti, quanto la fragilità e la manipolabilità proprie dei dati digitali possano agevolare e avere un ruolo determinante, come già avviene, nella falsificazione del ricordo, allora possiamo anche valutare quanto tale falsificazione possa incidere sui processi politici e sui conflitti – basti pensare, in tal senso, alla classica definizione di invenzione della tradizione data da Hobsbawm e Ranger (1983) o a quella di comunità immaginate di Anderson (1996). D’altra parte, è bene sempre rammentare il celebre assunto di Orwell, per il quale chi controlla il passato, controlla il futuro. Non che la scelta di un curatore pubblico, che agisce su mandato e per conto della collettività, possa, del resto, metterci al sicuro da mistificazioni o alterazioni del ricordo, poiché, in quanto atto comunicativo, la memoria è per sua stessa natura soggetta sempre alla riscrittura. Come nelle guerre dei cloni della saga di Star Wars, in cui l’esistenza di interi pianeti viene dimenticata per secoli semplicemente perché in passato li si era cancellati dall’archivio galattico della repubblica, allo stesso modo, anche per ciò che riguarda il nostro passato e il nostro futuro, il rischio incessante di un’alterazione dell’enciclopedia è sempre in agguato nel riuscire ad ingannare anche i più sapienti, cogliendoli impreparati e facendo leva sulla loro malriposta fede nelle capacità taumaturgiche della tecnologia. Non resta loro altro, così, che restare nella vigile attesa dei guardiani, al fine di riportare alla luce ciò che altrove è stato obliato.

Bibliografia

Affuso, O., Il magazine della memoria. I media e il ricordo degli avvenimenti pubblici, Roma, Carocci, 2010.

Anderson B., Comunità Immaginate. Origini e Fortuna dei Nazionalismi, Manifestolibri s.r.l., 1996

K. Dickhaut, Iconologia della memoria, , in (a cura di) Agazzi E., Memoria e saperi. Percorsi transdisciplinari, Roma, Meltemi, 2007, pp. 287-304.

Hobsbawm E., Ranger T., The Invention of Tradition, (a cura di), Cambridge, Cambridge University Press, 1983, trad. it. di Enrico Basaglia, L’invenzione della tradizione, 3ª ed., Torino, Einaudi, 2002.

Tota A. L., Memoria, patrimonio culturale e discorso pubblico, in (a cura di) Agazzi E., Memoria e saperi. Percorsi transdisciplinari, Roma, Meltemi, 2007, pp. 101-116.

  1. http://portal.unesco.org/en/ev.php-URL_ID=17721&URL_DO=DO_TOPIC&URL_SECTION=201.html
  2. https://archive.org/
  3. https://netpreserve.org/
  4. https://en.wikipedia.org/wiki/List_of_Web_archiving_initiatives
  5. http://conference.unisalento.it/ocs/index.php/aiucd2022/index/pages/view/proceedings
  6. https://www.refworld.org/docid/54f07d847.html
  7. https://www.giornalettismo.com/wikipedia-rogo-di-odessa-cosa-e-successo/
  8. https://it.wikipedia.org/w/index.php?title=Speciale:Registri&page=Rogo+di+Odessa
  9. https://formiche.net/2021/11/la-russia-di-putin-e-la-guerra-alla-memoria-il-commento-di-savino/
  10. https://www.sucho.org

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