Eric Schmidt, CEO di Google dal 2001 al 2011, durante la Techonomy Conference tenuta in California il 4 agosto 2010 ha affermato – in maniera alquanto enfatica – che ogni due giorni creiamo più dati di quelli generati dall’alba della civiltà fino al 2003. A distanza di dodici anni dalla sua potente affermazione siamo giunti alla nona edizione di Data Never Sleeps.
Questo report, prodotto ogni anno dalla società statunitense Domo Inc., specializzata in strategie di business intelligence e di visualizzazione dei dati, mostra in termini statistici cosa succede nella dimensione online ogni sessanta secondi.
La nostra voce vivrà dopo di noi, grazie all’AI: siamo sicuri sia una cosa buona?
I dati riportati sono notevoli: per esempio, ogni minuto sono condotte su Google quasi 6 milioni di ricerche, condivise 65 mila immagini su Instagram e 240 mila su Facebook, pubblicati circa 575 mila tweet su Twitter, inviati 2 milioni di messaggi su Snapchat e così via. In altre parole, ci siamo abituati nel corso degli anni al fatto che ogni essere umano iperconnesso del XXI secolo sta ampliando, aggiornando o addirittura prolungando la propria identità personale con un multimodale e variegato insieme di riflessioni scritte, immagini fotografiche e registrazioni audiovisive. Questo insieme, una volta veicolato verso gli altri all’interno dei numerosi luoghi frequentati online, costituisce tanto l’immenso archivio della biografia personale quanto lo spettro autonomo della vita carnale.
Il concetto di spettro autonomo
Ora, se è abbastanza immediata la comprensione dell’aderenza agli archivi biografici delle identità digitali, in che senso invece va inteso il concetto di spettro autonomo applicato alle attività personali nella dimensione online?
Mark Fisher, riprendendo il noto concetto di retromania delineato da Simon Reynolds a partire dall’hauntologia derridiana, evidenzia spesso nei suoi saggi come l’infestazione spettrale, tipica dell’epoca tecnologica contemporanea, rappresenti fondamentalmente un disordine sia dello spazio che del tempo. Questo disordine si manifesta «quando uno spazio è invaso o altrimenti perturbato da un tempo fuor di sesto, da una discronia» (cfr. Schermi, sogni e spettri. Cinema e televisione. K-Punk/2, Minimum Fax 2021). Di fatto, la costante accelerazione del progresso tecnologico si nutre di un enorme paradosso: il carattere sempre più pervasivo del processo di registrazione dei dati nella dimensione online impedisce al passato di riconoscere sé stesso come tale. Più la freccia del progresso è indirizzata trionfalmente in avanti, verso il futuro, più aumenta la quantità di passato insuperato; ciò che sta alle spalle non smette, cioè, di far sentire la propria nostalgica presenza nel qui e ora.
Il web e le nostre controfigure digitali
Viviamo in un’epoca in cui tentiamo, più o meno coscientemente, con ogni strumento a disposizione di aggirare la rottura temporale tra ciò che è stato e ciò che è. La morte, ovviamente, è l’esempio per eccellenza di questa rottura, dal momento che sancisce – come ricorda Jacques Derrida – la fine del mondo nella sua totalità. Ogni consuetudine, abitudine, rituale, espressione, ecc. che ha contraddistinto la nostra relazione con una specifica persona svanisce di colpo insieme alla sua presenza fisica, una volta ch’essa è deceduta. Ora, la non coincidenza tra la durata della vita biologica e quella della vita digitale degli individui iperconnessi, vita digitale che prosegue post mortem come se nulla fosse successo, riempie inevitabilmente gli spazi – online e offline – con un tempo fuor di sesto.
Kenneth Goldsmith sostiene che il web debba essere pensato come un collage di controfigure: «con ogni clic penetriamo la sua carne, con ogni porzione di testo che “tagliamo” pratichiamo un’incisione sul suo corpo. Le visualizzazioni delle pagine, del resto, vengono talvolta chiamate “impressioni” o “colpi” che segnano quel corpo. Le tracce di dati che lasciamo su di esso vengono incise, segnate, tracciate, scolpite nella cronologia del browser, nei cloud, nelle banche dati, come tatuaggi su quel corpo» (Cfr. Perdere tempo su internet, Einaudi 2017, p. 53).
Ora, queste controfigure – tatuaggi imperituri dei nostri corpi digitali – diventano le protagoniste assolute nella vita post mortem di chi le ha prodotte, non smettendo di infestare spettralmente lo spazio pubblico. La discronia, il tempo fuor di sesto, che rende possibile l’infestazione spettrale degli spazi in cui viviamo, stimola pertanto la fantasia di numerosi scienziati, i quali desiderano farne uso per modificare la memoria umana o, in alternativa, per produrre inedite forme di immortalità. Memorie interattive o gemelli digitali imperituri: sono numerosi gli esperimenti che utilizzano l’intelligenza artificiale per realizzare una di queste due opzioni. Attualmente, le più affascinanti (o inquietanti) sfide tecnologiche in vista della sopravvivenza digitale dei morti sono le seguenti.
Il progetto HereAfterAI
Per quanto riguarda la memoria interattiva, merita senz’altro menzione il progetto HereAfter AI, creato dallo scienziato James Vlahos, noto per l’invenzione privata del dadbot, di cui ho parlato ampiamente ne La morte si fa social, e per un recente libro Talk to me in cui analizza le conseguenze del nostro rapporto quotidiano con Alexa, Siri, ecc. HereAfter AI si pone come obiettivo principale quello di creare un Live Story Avatar interattivo e – a suo modo – immortale, che consiste nella riproduzione eterna tramite intelligenza artificiale delle storie biografiche delle singole persone. In altre parole, nel corso della nostra vita ci si sottopone alle centinaia di domande di un intervistatore virtuale, il quale ci chiede di raccontare a voce storie personali riguardo il lavoro, le relazioni sentimentali, la famiglia, gli hobby, l’adolescenza, ecc. Viene consigliato di associare a ogni racconto una o più fotografie in grado di testimoniare la storia narrata. Tutto questo materiale viene quindi rielaborato tramite AI di modo da permettere ai familiari o agli amici, da noi appositamente scelti, di conversare in eterno con il nostro Live Story Avatar. Questo, dotato della nostra specifica voce, interagisce attivamente con i vivi attraverso le storie registrate e rielaborate. Un obiettivo simile è perseguito da Personal AI, il cui fondamento teorico è il riconoscimento della limitatezza della memoria umana (ogni giorno dimentichiamo circa l’80% delle esperienze vissute). Pertanto, si cerca di creare artificialmente una memoria senza limiti attraverso, innanzitutto, la registrazione vocale, scritta e visuale dei nostri ricordi, comprese le informazioni pubblicate sui social media. Questa intelligenza artificiale personalizzata rappresenta una specie di segretario della memoria biologica, in quanto interagisce attivamente con ciascun utente attraverso la riproduzione dei racconti registrati. Pertanto, il Personal AI ci permette di rivisitare i nostri pensieri e mette nella condizione le altre persone – scelte da noi, come in HereAfter AI – di comunicare con i nostri racconti, esperienze, ecc.
MindBank AI e Dduplicata
Sul versante dei gemelli digitali, invece, meritano una menzione particolare MindBank AI e Dduplicata. MindBank AI segue la direzione di HereAfter AI e di Personal AI, ma con obiettivi leggermente differenti. La registrazione e la rielaborazione dei racconti personali, dotate di un meticoloso sistema di protezione dei dati e della privacy, mira a due risultati specifici: 1) fornire al nostro gemello digitale il materiale necessario per imparare a capire chi siamo, di modo da sostituirci quando saremo morti o da sovrapporsi a noi nel corso della vita, condividendo con familiari e amici le storie raccontate; 2) fornire a noi stessi, tramite un’analisi cognitiva all’avanguardia, gli strumenti per capire come funziona la nostra mente e per riflettere sul nostro passato (“guadagnerai forza interiore e trarrai più coraggio da ogni interazione”, le parole indicate nella presentazione sul sito web). In altre parole, è un gemello digitale (o una controfigura) pensato tanto per la nostra memoria post mortem quanto per aiutarci a capire chi siamo e cosa vogliamo. Dduplicata è, invece, l’attuale aggiornamento del noto progetto Eter9 dello scienziato portoghese Henrique Jorge, di cui ho parlato ampiamente ne La morte si fa social. Crasi di “Eternity” e “Cloud9”, che in inglese indica una sensazione di benessere paradisiaco, Eter9 si prefigge il compito di creare un social network delle nostre controparti digitali, le quali dovrebbero imparare ad agire in autonomia a prescindere dalla nostra presenza psicofisica nel mondo. Ora, Dduplicata è l’attuale versione di questo particolare social network, il cui compito è la creazione della versione digitale e aumentata di ogni suo utente. Il funzionamento è semplice: più si condividono testi scritti, immagini fotografiche, video, ecc. all’interno di Dduplicata e più si ha la possibilità di disporre di un gemello digitale in grado di prendere perfettamente il nostro posto. Consiglio a tutti di visitare Dduplicata per entrare in un mondo in cui persone autentiche e bot si mescolano tra loro, al punto che diventa difficile capire chi è l’essere umano e chi il bot.
Come interpretare questo tipo di innovazioni tecnologiche?
Ora, come interpretare questo tipo di innovazioni tecnologiche? Per quanto riguarda i progetti incentrati sulla memoria interattiva, mi pare che l’obiettivo a cui si mira in prima battuta consista nell’aggiornamento contemporaneo dei modi di registrare e conservare i ricordi. Sono, cioè, progetti pensati più per chi rimane, dopo un lutto, che per la sopravvivenza effettiva del singolo individuo. Di fatto, ogni invenzione tecnologica basata sulla registrazione e sulla conservazione di una porzione del singolo individuo (l’immagine, la voce, i pensieri scritti, ecc.) intende creare una sua rappresentazione verosimile, tale da mantenerlo simbolicamente in vita. Come ci ricorda Carlo Ginzburg, da sempre la rappresentazione è collegata alla dialettica tra la presenza e l’assenza degli esseri umani: «da un lato, la “rappresentazione” sta per la realtà rappresentata, e quindi evoca l’assenza; dall’altro rende visibile la realtà rappresentata, e quindi suggerisce la presenza. Ma la contrapposizione si potrebbe facilmente rovesciare: nel primo caso la rappresentazione è presente, sia pure come surrogato; nel secondo essa finisce col richiamare, per contrasto, la realtà assente che intende rappresentare» (cfr. Occhiacci di legno, Quodlibet 2019, p. 89). Il legame atavico che la rappresentazione stabilisce con la dialettica tra la presenza e l’assenza del morto implica, di per sé, uno studio antropologico e filosofico che ci riporta indietro nel tempo, addirittura alla curiosa pratica del funus imaginarium. Qui, mi interessa semplicemente evidenziare come HereAfter AI, per esempio, sia una modernizzazione – certamente ardita – di un comportamento che si reitera nel corso dei secoli. Pensiamo alle pressanti richieste che, verso la fine del XIX secolo, venivano fatte dai dolenti a William Howard Mumler, il quale con uno specifico stratagemma fotografava il singolo dolente insieme al “fantasma” del proprio caro defunto. Una delle foto più note è quella di Mary Todd Lincoln con lo spettro di suo marito. I dolenti pagavano ingenti somme di denaro per avere una fotografia insieme al fantasma del proprio caro defunto, un fantasma che – il più delle volte – non era altro se non un ignaro cittadino vivo e vegeto immortalato con astute tecniche fotografiche (a suo modo, Mumler ha forse anticipato il tanto discusso Deep Nostalgia). La differenza sostanziale dell’epoca odierna è la possibilità di dare forma a una vera e propria interazione attiva, di ricevere cioè una risposta da parte del morto, avvicinando in maniera sostanziale la memoria al concetto di immortalità. Le innegabili criticità che ne derivano nell’ambito dell’elaborazione del lutto, là dove l’interazione artificiale può mutarsi in autoaffabulazione, sono controbilanciate dal desiderio più che umano di animare quei “fantasmi semiotici” di cui parlano, per esempio, William Gibson e Fred Botting. Fantasmi, cioè, che si identificano con frammenti di vita i quali, aggirando l’ostacolo dell’oblio, sono in fondo simboli di una realtà alternativa a suo modo distopica e, più o meno, aleatoria. E proprio il desiderio di dare corpo a questi fantasmi è alla base dei progetti come MindBank AI e DDuplicata, incentrati invece più sulla sopravvivenza individuale post mortem che sulla memoria.
Il gemello digitale
Il gemello digitale, il quale prende oggi anche altri tipi di forme (pensiamo alle riproduzioni in VR del documentario sudcoreano I met you o agli ologrammi del Dimensions in Testimony Project), si muove sul confine tra la somiglianza e la differenza, confine che definisce dai tempi di Platone il concetto di immagine. Il fatto che il gemello digitale sia privo del vissuto, dell’inconscio e di tutto il non espresso della sua copia umana lo rende, nella pratica, una riproduzione sempre imperfetta. Pensiamo al film Marjorie Prime, in cui si immagina la possibilità, in un futuro prossimo, di disporre degli ologrammi dei morti, i quali però imparano a essere coloro che sono stati attraverso le interazioni con i vivi. Ora, il film mostra come le interazioni con i vivi siano sempre piene di omissioni: per esempio, all’ologramma del padre morto la figlia non racconta che egli ha avuto, in vita, anche un altro figlio, suicidatosi nel corso dell’adolescenza. Un evento tragico che, certamente, ha inciso da un punto di vista psicologico ed emotivo sul proseguimento della sua esistenza. O, pensiamo, alle narrazioni distopiche dei noti San Junipero (Black Mirror) e Upload, le quali evidenziano come i gemelli virtuali dei morti affrontino situazioni talmente inedite da modificarne, in parte, le caratteristiche (per esempio, relazioni sentimentali del tutto impossibili nella vita ante mortem).
Conclusioni
Ecco, dunque, che si comprende il concetto di spettro autonomo applicato alla vita carnale degli individui iperconnessi: la presunta possibilità di sopravvivere alla propria morte tramite l’insieme delle condivisioni online si traduce nella lenta costruzione di una biografia inedita. Si traduce, cioè, nella creazione di un gemello o di una controfigura virtuale che, col passare del tempo, si emancipa dalla sua copia biologica, diventando qualcun altro. Come questo possa incidere, in maniera positiva o negativa, sui lutti da elaborare e sul proseguimento delle nostre vite è tutto da vedere e, certamente, produce una affascinante ermeneutica della morte 2.0. Di certo, rimane il dubbio che sia impossibile per gli esseri umani aggirare in maniera radicale l’unicità che contraddistingue ogni singola presenza psicofisica nel mondo.