riflessioni filosfiche

Mente estesa: crowdsourcing e le nuove “protesi cognitive”

Il digitale può costituire un’estensione della cognizione? Quali sono le condizioni e le direzioni che consentono al digitale di integrarsi e potenziare la cognizione? Dove ci porterà l’interazione tra la mente contenuta entro la nostra testa e quel che può offrire la tecnologia digitale?

Pubblicato il 20 Set 2017

Alessio Plebe

Università degli Studi di Messina

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Sia Inga che Otto vengono a sapere di un’interessante esibizione al museo d’arte moderna. Per partecipare Inga ci pensa un attimo e si ricorda che il museo si trova nella 53esima strada, e si incammina in quella direzione. Otto, che soffre di Alzheimer, da anni utilizza un blocco di appunti, e consultandolo verifica l’indirizzo, sempre la 53esima strada, e anche lui raggiunge il desiderato museo.

Inga e Otto sono due personaggi virtuali in uno di quelli che vengono chiamati esperimenti mentali, stratagemmi con cui i filosofi vogliono convincere riguardo un’idea, spesso piuttosto controintuitiva e provocatoria. Con la storiella dell’indirizzo del museo Andy Clark e David Chalmers, due stelle nel firmamento della filosofia contemporanea, lanciarono nel 1998 la provocazione sui confini della mente, che nel caso di Otto non termina dentro la sua testa, ma si estende all’esterno, includendo il suo prezioso taccuino. Dopo quasi vent’anni Inga e Otto continuano a tenere banco, la diatriba sulla cognizione estesa è diventata una delle più vivaci in filosofia della mente, e i controesempi, le confutazioni, nonché le reiterate difese, si sono moltiplicate.

Nell’originale la storiella si rivela datata, oggi sia Inga e Otto si comporterebbero diversamente, entrambi sbrigherebbero la faccenda di come recarsi al museo di interesse senza né sforzare la propria memoria né sfogliare le pagine di un taccuino, basterebbe digitare l’indirizzo su Google maps e farsi guidare a destinazione. Probabilmente non servirebbe nemmeno questo, perché la stessa notizia dell’esibizione d’arte sarebbe stata letta su internet, già corredata di apposito link su come recarsi al museo. Sembrerebbe proprio che non occorra andare alla ricerca di esempi stravaganti o legati a patologie per trovare menti estese, che oggi trovano il ricco mondo digitale subito oltre i confini del cervello.

La pervasiva realtà digitale sembra la protesi cognitiva ideale, ed infatti ha rianimato la discussione filosofica sulla cognizione estesa. Per esempio, una delle obiezioni più serie alla cognizione estesa è il cosiddetto cognitive bloat. Se si ammettono come parte integrante della mente supporti in grado di fornire immediatamente e senza sforzo informazioni aggiuntive, il rischio è di arrivare presto a dimensioni pressoché illimitate, e pertanto poco plausibili, delle conoscenze che una persona potrebbe avere. Scrivendo e consultando un taccuino il problema rimane in termini ragionevoli, ma con un accesso ad internet il cognitive bloat diventa eclatante. Un altro problema discusso riguarda lo statuto epistemico delle cosiddette Googled assertion. Anche qui abbiamo la storiella, con protagonista John, non ancora famoso come Inga e Otto. Si trova in una cena, a disagio perché i commensali sono immersi in una colta conversazione sulle opere di Mozart, per lui illustre sconosciuto. Quando viene messa in discussione la tonalità di una delle sonate per pianoforte, coglie la sua occasione. Tenendo il suo smartphone nascosto dalla tovaglia effettua una rapida ricerca su Google, ed interviene affermando che la sonata in questione era in do minore, aggiungendo dotti particolari sulle circostanze in cui Mozart la compose. La questione filosofica è se questo tipo di asserzioni seguano le norme epistemiche convenzionali, in particolare se la conoscenza sia condizione sufficiente per la validità di un’asserzione.

E’ fuori luogo sbilanciarsi qui riguardo l’ipotesi della cognizione estesa, e volendo addentrarsi nei meandri degli argomenti pro e contro si scivolerebbe facilmente nella metafisica, speculando sulla vera essenza della cognizione, o nella semantica, elucubrando riguardo il preciso riferimento delle parole “mente” e “cognizione”. Esiste invece una interessante deviazione in senso pragmatico della discussione, dove dall’interrogativo iniziale se il mondo digitale possa costituire un’estensione della cognizione, si passa invece ad analizzare quali siano le condizioni e le direzioni che consentano al digitale di integrarsi e potenziare la cognizione, insomma di candidarsi meglio ad estensione della cognizione. Tra i principali studiosi impegnati in questa indagine vi è un allievo di Clark, Harry Halpin, e Paul Smart dell’istituto Web and Internet Science a Southampton.

Smart parla di alcune forme assunte dal mondo digitale come di un’ecologia cognitiva, ovvero un ambiente materiale in grado di plasmare, supportare, e in certi casi addirittura rendere possibili, aspetti della cognizione umana. Un esempio particolarmente interessante lo forniscono le iniziative di scienza cittadina, vero e proprio progresso scientifico condotto tramite il coinvolgimento di molte persone, “cittadini” comuni, coordinato tramite strumenti digitali.

Foldit è un gioco online collaborativo in cui si cerca di creare strutture proteiche, la cui difficoltà consiste nel ripiegamento, nel passare da una sequenza lineare di aminoacidi ad una struttura tridimensionale. Nonostante i grandi progressi nelle simulazioni computazionali, non sono disponibili algoritmi in grado di ricreare accuratamente modelli di proteine complesse. Firas Khatibe i suoi collaboratori all’università di Washington hanno messo a punto un algoritmo che, anziché scrutare direttamente le proteina, analizza le strategie adottate dai giocatori che hanno ottenuto i migliori risultati, raggruppandole come “ricette”. Una delle ricette migliori emerse dai giocatori, denominata Blue Fuse, è risultata migliore, su un campione di 62 proteine, rispetto ai migliori software esistenti per il ripiegamento di proteine.

Una sinergia ancor più completa tra intelletto umano e macchine digitali si è verificata nel progetto Galaxy Zoo, in cui i “cittadini” potevano accedere online all’archivio di immagini di galassie del Sloan Digital Sky Survey, composto da circa un milione di galassie, e dare un loro giudizio sulla morfologia, seguendo una serie ad albero di domande. Anche in questo caso esistono potenti algoritmi di visione artificiale specifici per classificare la forma delle galassie, ma la variabilità dei modi di apparire è tale per cui uno “sguardo” umano risulta superiore. A differenza di Foldit, il contributo intelligente umano di Galaxy Zoo viene integrato dall’intelligenza artificiale. Una delle tecniche più potenti emerse recentemente va sotto il nome di deep learning, e consente di interpretare immagini con prestazioni simili alla visione umana, ma ad un prezzo. Richiede un gran numero di esempi, ovvero di immagini in cui sia già noto il contenuto. I 50 milioni di classificazioni prodotte dai 150,000 “cittadini” che si sono cimentati in Galaxy Zoo sono state vagliate statisticamente, conservando le sole galassie su cui vi era un’ampia convergenza di vedute sulla loro forma. Queste immagini hanno formato l’insieme di dati noti sufficienti per addestrare il software di deep learning, rendendolo quindi abile a classificare anche le galassie più incerte.

La scienza cittadina condivide in parte il suo modo di esplicarsi con il più generale fenomeno del crowdsourcing, il ricorso ad un elevato numero di persone, coordinate online, per qualunque attività, non legata al progresso scientifico. Negli ultimi anni si stanno affinando modi di operare il crowdsourcing in sinergia con strumenti automatici di analisi dei dati, per la gestione intelligente di disastri umanitari. Nell’attuale disponibilità di infrastrutture digitali, in particolare social media, le comunità investite da disastri di grandi proporzioni immettono in rete un’enorme quantità di dati, ma solamente una piccola frazione di questi sono di utilità nel dirigere le azioni di risposta alla crisi. L’esperienza di alcuni disastri recenti, a partire dal terremoto di Haiti del 2010, e poi gli uragani Sandy e il tifone Pablo del 2012, fino all’attuale crisi siriana, hanno visto la creazione e messa a punto di sofisticati strumenti di coordinamento tra cognizione umana e intelligenza artificiale nel compito di distillare, dal fiume in piena di notizie le poche preziose per gli interventi. La Humanitarian Open Street Map Team è specializzata nella produzione di mappe assemblate da riprese video e fotografiche al suolo e aeree, per la localizzazione dettagliata di danni e livelli di rischio in eventi disastrosi. La componente Tasking Server è la piattaforma collaborativa, attraverso cui volontari possono taggare le immagini riguardo la presenza o meno di danni. Nelle prime 48 ore seguenti l’uragano Sandy nel nord-est dell’America, più di 3000 volontari avevano aderito, producendo circa 80,000 verifiche di immagini riprese dall’aviazione civile americana. Patrick Meier era studente di dottorato all’università di Tufts nel 2010 quando avvenne il terremoto di Haiti, stato in cui aveva diversi colleghi di studio. In pochi giorni organizzò con colleghi studenti un piano di analisi e mappatura sistematica di tutte le informazioni da social media, impiegando strumenti allora sconosciuti per questi scopi, come OpenStreetMap, e CrowdFlower, una azienda di data mining tramite la combinazione di intelligenza artificiale e crowdsourcing. Furono tradotti e filtrati 10,000 messaggi testuali, e riportati in mappa 1500 immagini verificate. Da allora Meier si è dedicato a tempo pieno alla gestione intelligente dei dati digitali in situazioni di crisi, prima fondando in America la Standby Volunteer Task Force, e attualmente dirige il reparto Social Innovation presso il Qatar Foundation’s Computing Research Institute, uno dei più avanzati al mondo nel settore.

Questa breve rassegna di sinergie cognitivo-digitali non credo sia significativa nel redimere la diatriba filosofica sulla cognizione estesa, ma certamente dimostra quanto sia proficuo abbinare la mente contenuta entro la nostra testa con quel che può offrire la tecnologia digitale, e lo sarà sempre più progredendo e affinando le maniere con cui far interagire i due mondi.

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