In un’epoca in cui la conoscenza è il motore principale dell’economia, diventa fondamentale non solo mantenere e aggiornare le competenze dei lavoratori, ma anche garantire il loro benessere psicofisico. Eppure, sembra che l’allarme stress e burnout sia sempre più pressante nel mondo del lavoro, alimentato da modelli di gestione obsoleti e nocivi come il micromanagement, che finisce per incidere negativamente sulle prestazioni aziendali.
La manutenzione delle persone nell’era della conoscenza
Facciamoci caso, se lavoriamo con strumenti o macchine industriali la manutenzione è programmata, ha un costo e ha una sua funzione riconosciuta.
Oggi invece, nell’era della conoscenza, dove non ci sono più i macchinari ma le persone, la manutenzione sembra non esistere più.
In questo periodo storico in cui si continua a ripetere che le persone sono il perno di tutto, in cui si promuovono corsi di yoga o sessioni di mindfulness, spesso durante l’ora di pranzo o dopo le 18, le aziende sono in difficoltà.
In risposta a questa situazione emerge con forza l’importanza del diritto alla disconnessione, come strumento di “manutenzione” per i lavoratori.
Tutto ciò ci porta a riflettere sull’urgente necessità di ripensare il management ed esplorare nuovi modelli più adatti ai tempi che viviamo.
L’allarme stress e burnout nel mondo del lavoro
Gallup, nel suo “State of the global workplace 2022 Report”, riferisce che i livelli di stress sul posto di lavoro sono più alti che mai; il McKinsey Health Institute in “Addressing employee burnout: are you solving the right problem?” del maggio 2022 indica che il burnout dei lavoratori è ai massimi storici. In media, nella survey* condotta, un dipendente su quattro riferisce di aver sperimentato i sintomi del burnout. In tutti e 15 i Paesi e in tutte le dimensioni valutate, il comportamento tossico sul posto di lavoro è stato il maggior predittore dei sintomi di burnout e dell’intenzione di andarsene, con un ampio margine: ha previsto più del 60% della varianza totale globale.
Basterebbe guardare alle nostre vite e come, nonostante la flessibilità che la tecnologia ci offre e alcune leadership illuminate, continuiamo a essere intrappolati nella mentalità dell’orario di lavoro 9-17 o nella disponibilità 24/7.
Ecco che diventa fondamentale acquisire nuovi paradigmi e che le Business School insegnino nuovi modelli di management: chi oggi ricopre un ruolo di responsabilità è inevitabilmente chiamato a rendersi conto che se la produttività diventa un indice importante, e un metro di giudizio per valutare l’operato di tutti, questa non può prescindere dalla “manutenzione” delle persone, che non possono solamente essere spinte a fare sempre di più e sempre meglio.
Micromanagement: un modello tossico di gestione
Il carico mentale spesso si traduce in una vera e propria paranoia, che si manifesta attraverso l’adozione di comportamenti tossici e dannosi per l’intera squadra di lavoro.
Forse da grandi esterofili, in passato, abbiamo inglobato modelli di management errati che ci hanno portato a perdere quell’umanesimo che ci aveva contraddistinto per sposare un’eccessiva propensione al risultato, il che ha portato a gestire le persone esercitando un controllo eccessivo e maniacale sul lavoro dei propri dipendenti o dei propri team.
Questo stile di gestione ha un nome, micromanagement, e ha delle caratteristiche: da un lato c’è un supervisore che tende a essere coinvolto in ogni aspetto delle attività dei collaboratori, monitorando da vicino ogni compito, fornendo istruzioni dettagliate, richiedendo report o check continui sulle attività; dall’altro i lavoratori, che sentono interferenze nella propria autonomia decisionale tali da perdere motivazione, creatività e autonomia.
L’impatto del micromanagement sulle prestazioni aziendali
Il micromanagement crea stress, frustrazione, diminuzione dell’impegno organizzativo e aumento del turnover, lo dimostra anche uno studio condotto nel 2021 dall’Unione Europea. Facile immaginare come questo abbia un impatto devastante anche sui risultati finanziari di un’azienda, anche se i lavoratori continuano a lavorare, perché sicuramente la riduzione dell’impegno del personale e l’aumento dell’assenteismo compromette i profitti. Il “Mental health and employers. The case of investment – pandemic and beyond” di Deloitte lo scorso anno riportava che il costo delle assenze legate alla salute mentale per i soli datori di lavoro britannici era di circa 56 miliardi di sterline all’anno.
Come spezzare la spirale negativa dell’ipersorveglianza a lavoro
Ecco che si può ovviare a questa spirale negativa in due modi: far comprendere la pericolosità dell’iper-sorveglianza dei manager e sminare la cultura tossica legata al mito dell’operatività, che alimenta uno stile di lavoro sbagliato e dannoso per la salute dei lavoratori. Altrimenti non solo si compromette il benessere dei lavoratori, ma anche l’engagement verso l’azienda e la produttività stessa. Bisogna sfatare il mito secondo cui essere sempre occupati coinciderebbe con i concetti di produttività e benessere, ben vengano azioni che limitano il lavorare o controllare la posta elettronica in vacanza, o il restare connessi al di fuori dell’orario di lavoro.
Già diversi governi, infatti, come Francia, Spagna, Portogallo e ora anche l’Italia sono andati, o stanno andando, verso la direzione di approvare leggi sul diritto alla disconnessione.
La forza di un’organizzazione è costituita in gran parte dall’insieme delle sue persone, che è di fatto indispensabile per la creazione di valore duraturo. Ecco perché diventa importante istituire una sorta di “manutenzione” straordinaria alle persone a partire dal management.
*indagine globale su quasi 15.000 dipendenti e 1.000 responsabili delle risorse umane in 15 paesi condotta tra febbraio e aprile 2022