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Migrare dati e applicazioni sul Cloud: perché farlo e come farlo bene



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Migrare dati e applicazioni sul Cloud è, prima di ogni cosa, un esercizio di organizzazione. Non basta copiare i dati e reinstallare le applicazioni su una piattaforma diversa: non tutto ciò che funziona on-premise lavora nel medesimo modo sul Cloud e, ancora prima, gli ambienti vanno scelti con la dovuta cura e lungimiranza

Pubblicato il 27 dic 2023

Giuditta Mosca

Giornalista, esperta di tecnologia



migrazione dati
(Immagine: https://unsplash.com/@scottrodgerson)

L’idea di avere un’infrastruttura hardware aziendale snella e ridotta al minimo è ottima, perché si traduce in minori investimenti e in minori costi di gestione e manutenzione. La migrazione di dati e applicazioni sul Cloud, fatti salvi scenari che non la giustificano, dovrebbe essere la via perseguita da ogni organizzazione, a prescindere dalla sua grandezza.

Infatti, anche le microimprese possono giovare dei vantaggi offerti dal Cloud, abbracciando così la piena mobilità e supplendo alle falle organizzative tipiche delle piccole realtà aziendali per offrire un servizio migliore ai propri clienti, anche nelle fasi post-vendita.

Perché migrare sul Cloud

I benefici principali si esprimono in termini di costi, di performance e di sicurezza. Relegare il Cloud a una mera metodologia di lavoro è però fuorviante almeno per tre ragioni:

  • lavorare in Cloud significa valorizzare dati e applicazioni
  • il cloud è volano della trasformazione digitale
  • l’approccio al Cloud diventa quasi un modus-vivendi, lasciando anche ai collaboratori modo di organizzare al meglio le proprie attività professionali in equilibrio con le rispettive vite private.

In relazione a quest’ultimo punto, va sottolineato che Cloud e Smart working non sono la medesima cosa ma il primo abilita la seconda.

C’è un altro elemento che è ancora lungi dall’entrare nella cultura aziendale: lavorare completamente in Cloud trasmette l’immagine di un’impresa agile, moderna e vincente perché, anche nei casi più estremi, un’organizzazione votata alla Nuvola può continuare la propria attività di business e quindi prendersi cura dei propri stakeholders.

In termini spicci: anche in caso di un evento catastrofico naturale (si pensi alle alluvioni non del tutto avulse all’Italia) un’impresa che lavora in Cloud può mantenere l’operatività, anche se ragionevolmente in modo ridotto.

La migrazione sul Cloud rappresenta un sentiero che va percorso anche se denso di sfide per l’IT e per il management d’impresa. E questo spiega perché deve essere reso il più fluido possibile.

Le modalità di migrazione sul Cloud

Il primo scoglio organizzativo da superare riguarda la scelta dell’ambiente Cloud, tipicamente suddiviso in Cloud pubblico, Cloud privato, multi-Cloud e Cloud ibrido.

L’adozione di uno o dell’altro ambiente Cloud può essere dettata da necessità aziendali, per esempio al fine di garantire una maggiore riservatezza dei dati o per ottemperare alle norme sulla compliance, ma va affrontata prima di cominciare la migrazione vera e propria e va ampiamente discussa all’interno dell’impresa.

Individuata la soluzione più opportuna, si entra nel dominio delle strategie di migrazione, ovvero:

  • Lift & Shift: è la migrazione delle applicazioni verso un’infrastruttura Cloud (Infrastructure-as-a-Service, IaaS)
  • Replatforming: prevede la necessità di adattare le applicazioni alla piattaforma Cloud (Platform-as-a-Service, PaaS)
  • Refactoring: le applicazioni vanno riscritte per potere essere usate sul Cloud (Software-as-a-Service, SaaS)
  • Repurchasing: comporta il cambiamento delle applicazioni, ovvero la scelta di nuovi applicativi che sostituiscano quelli in uso all’azienda.

Benché diverse tra loro, nessuna di queste strategie va rifiutata a priori, perché un’impresa che si vota al Cloud cambia la propria pelle e, di conseguenza, pensare di creare sul Cloud il medesimo assetto esistente rappresenta una visione utopistica e un po’ miope.

Non si tratta di fare ciò che è più facile e comodo per chi si occuperà della migrazione, l’obiettivo è quello di fare il bene dell’impresa, garantendole sostenibilità e competitività in futuro.

La migrazione dei dati

La parola dati è debole, perché include una vasta categoria di accezioni. Sono dati quelli prodotti dai dipendenti, per esempio, usando una suite per l’ufficio. Sono dati quelli prodotti e usati dalle applicazioni aziendali, sono dati quelli raccolti e analizzati dall’impresa, sono dati quelli a cui accedono i clienti o quelli scambiati con gli stakeholder.

Ognuno di questi flussi deve essere esaminato singolarmente per allestire la migliore strategia di migrazione che, per inciso, può non fare per forza di cose capo a una sola piattaforma Cloud.

Chi sostiene che il Cloud è anche un’opportunità non fa retorica, ha ragione. La migrazione sul Cloud dei dati – e questo vale anche per le applicazioni – va concepita facendo leva su quattro fattori chiave di cui, il primo, è da considerare al pari della posa della prima pietra:

  • mai migrare sul Cloud i problemi dell’on-premise: se c’è qualcosa di perfettibile nel flusso dei dati, il “trasloco” è l’occasione giusta per apportare le correzioni del caso. Questo introduce il secondo punto
  • la migrazione in Cloud assume maggiore valore se tutte le procedure, i processi e i flussi aziendali vengono rivisitati
  • la migrazione va gestita attraverso fasi di test, preproduzione e messa in produzione finale
  • le persone, siano queste dipendenti, collaboratori o altri stakeholder, devono essere parte integrante del processo di migrazione.

Le fasi della migrazione dei dati

Niente può essere lasciato al caso e, dopo avere mappato l’architettura dei dati così come dovrà essere una volta terminata la migrazione, ha senso prevedere nel limite del possibile quali difficoltà si possono riscontrare durante il trasferimento e, di conseguenza, improntare dei piani B.

Parallelamente occorre agire sulla governance dei dati: è essenziale che, prima di iniziare la migrazione, policy, standard e metriche siano ingegnerizzate per garantire la sicurezza, l’accessibilità e la disponibilità dei dati.

Non va escluso che i processi – e quindi le abitudini dei dipendenti – possano essere modificate ma occorre anche tenere conto che le procedure non vanno del tutto scombussolate, c’è sempre qualcosa di valido nelle infrastrutture on-premise che può essere riproposto nel medesimo modo sul Cloud. Questo rimanda alla necessità di includere le persone di tutti i ruoli e livelli aziendali nel progetto di migrazione.

A meno che non ci siano condizioni stringenti che impongono a un’azienda di migrare dei dati specifici con una certa urgenza, per allestire una fase di test è opportuno iniziare dai dati meno importanti, magari quelli generati da un applicativo usato da un numero esiguo di utenti.

Alla fase di test ne deve seguire una di pre-produzione, durante la quale si raccolgono i feedback degli utilizzatori, siano questi interni o esterni all’azienda, per approntare le correzioni e le migliorie che il caso dovesse esigere.

Questo va fatto per ogni tipologia di dati si debba migrare. Per quanto riguarda le migrazioni di database, è opportuno che dei database administrator testino le eventuali difficoltà sia delle basi dati, sia degli applicativi che attingono alle informazioni (tanto in lettura quanto in scrittura).

La migrazione delle applicazioni

L’esperienza di chi scrive può fare storce il naso ai puristi: non va mai esclusa la possibilità di cambiare software perché è soltanto durante la fase di migrazione delle applicazioni che si incontrano difficoltà sufficientemente grandi da rendere più vantaggiosa la scelta di applicativi diversi da quelli usati dall’azienda in modalità on-premise.

Cambiare applicazione rappresenta quasi sempre uno scossone per gli utenti, non tutti avvezzi al cambiamento e non tutti capaci di affrontarlo con la medesima flessibilità. Motivi validi, questi, per individuare dei key-user che testino i nuovi applicativi al fine di stabilirne le criticità e, non da ultimo, al fine di riuscire ad acquisire quella capacità d’uso che potrà essere utile anche ai colleghi più restii al cambiamento.

Le fasi della migrazione delle applicazioni

Anche in questo caso, ogni applicazione va valutata singolarmente, per capire quali problemi o rischi comporti la migrazione verso il Cloud. Laddove si riscontrassero criticità, tra i piani B da allestire, è opportuno valutare anche soluzioni software simili già disponibili, magari nella modalità Software-as-a-Service.

La pianificazione vive di biforcazioni: le applicazioni eventualmente sviluppate all’interno dell’impresa vanno valutate a parte, perché gli sviluppatori possono riscriverle parzialmente per renderle compatibili alle necessità del Cloud. Un altro segmento della pianificazione deve inglobare le applicazioni reperite in commercio, contattando chi le sviluppa per comprendere se esiste una knowledge base o degli aggiornamenti utili alla migrazione in Cloud.

Effettuata la pianificazione si entra nella fase di test. In questo caso il consiglio è di cominciare a migrare l’applicazione che si ritiene essere più foriera di problemi.

La preproduzione richiede lavoro in parallelo: alcuni utenti, per un periodo di tempo limitato, effettua le medesime operazioni sull’applicazione on-premise e sull’applicazione gemella migrata sul Cloud per costatare che i risultati siano identici.

Sicurezza e compliance

Si rifanno alla scelta del provider che va evidenziato in base a diversi criteri tra i quali, ovviamente, il costo. A patto però che non sia la discriminante che orienta la decisione finale.

La sicurezza sul Cloud è tema capitale e, benché sia vero che da un provider ci si aspetta alti standard di security, è anche vero che l’impresa non può demandarla soltanto ed esclusivamente a quest’ultimo.

Allo stesso modo, la compliance deve essere compresa nel minimo dettaglio dall’azienda che migra verso il Cloud, anche perché deve informare gli utenti circa il modo in cui i dati vengono trattati.

Il provider va scelto quindi anche grazie agli standard di security e conformità che offre.

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