Uno dei fenomeni più particolari della disinformazione consiste nelle cosiddette teorie del complotto o “complottismi”. Grazie alla possibilità di visibilità offerta dai social media e alle particolari dinamiche che caratterizzano la circolazione delle informazioni online (Pariser 2011; Quattrociocchi, Vicini 2016; 2018) le retoriche e i discorsi costruiti intorno a improbabili complotti sono emersi dagli ambienti riservati agli iniziati ed hanno acquisito rilevanza pubblica.
Social media e teorie del complotto: perché si diffondono e come vaccinarsi
È sufficiente pensare alla progressiva presa che Q-Anon (Wu Ming 1 2021) ha avuto sui cittadini nordamericani, fino a mobilitare masse di seguaci nell’attacco al Campidoglio del 6 gennaio 2021.
Ci interroghiamo tuttavia sull’appropriatezza dell’espressione teorie del complotto: cercheremo quindi di contestualizzare il fenomeno dal punto di vista concettuale, facendo emergere in che maniera si costituisca come problematica la trattazione sbrigativa o semplicistica di tale fenomeno.
Una volta collocato il fenomeno, cercheremo invece di mostrare in che maniera il metodo semiotico possa essere un buono strumento per affrontarne lo studio.
La proliferazione dei discorsi cospirazionisti
Dalle posizioni sulla sperimentalità del vaccino fino al coinvolgimento di Bill Gates all’interno di piani mondiali di intervento sulla popolazione, negli ultimi anni le cosiddette teorie del complotto hanno acquisito sempre maggiore rilevanza nel discorso pubblico.
Quelli che vengono chiamati “complottismi” si sono conquistati una posizione di rilievo all’interno del panorama mediatico, entrando di conseguenza nel linguaggio ordinario e acquisendo dei tratti specifici nel senso comune. Casi come quelli di QAnon (Wu Ming 1 2021) nascono all’interno di specifici spazi online, all’interno dei quali si consolidano interpretazioni più o meno bizzarre del mondo.
Tuttavia, per via di una serie di condizioni strutturali dell’ecosistema informativo, queste narrazioni del complotto sono emerse dagli spazi online e hanno progressivamente occupato spazi sempre più rilevanti per la vita pubblica, come ad esempio le piazze: le manifestazioni contro il Green Pass che si sono tenute tra l’estate 2021 e la primavera 2022 in tutto il paese, sollevando più o meno indignazione da parte degli attori politici, sono state attraversate da attori sostenenti fantasie pseudoscientifiche. Al di fuori del contesto prettamente nazionale, è sicuramente emblematico il caso dell’attacco al Campidoglio da parte dei patrioti di QAnon del 6 gennaio 2021 (Bianchi 2021).
Il ruolo dei media tradizionali
Allo stesso tempo, non è da sottovalutare il ruolo dei cosiddetti media tradizionali nella diffusione e progressiva legittimazione di queste narrazioni. Se infatti il ruolo degli ambienti digitali polarizzanti (Quattrociocchi, Vicini 2018; Pariser 2011) è da tempo analizzato e approfondito nella letteratura per quanto riguarda la formazione e aggregazione di gruppi intorno a tali fantasticherie di complotto, poca attenzione è stata dedicata alla critica del discorso televisivo e giornalistico nell’amplificazione di queste posizioni discorsive. La ricerca di un contraddittorio per le posizioni scientifiche sui vaccini all’interno dei salotti televisivi può avere effetti devastanti: ad esempio, se all’interno di un talk show come Virus vengono ospitati esponenti di posizioni antiscientifiche al pari di medici ed esperti, il rischio può essere quello di legittimare i primi e porli sullo stesso piano dei secondi.
Sicuramente quello dei complottismi consiste in un fenomeno che desta interesse per chi si occupa di informazione e cultura, come testimoniato dall’alto numero di prodotti mediali ad esso dedicato, tra cui i podcast “Complotti” di Valentina Peltrini e Massimo Polidoro[1] e “Complottismi” di Andrea Daniele Signorelli[2]. Ma puntare i riflettori su queste interpretazioni devianti, così come la necessità spasmodica di sbugiardarli, potrebbero essere entrambe operazioni non solo pericolose, ma connaturate allo stesso fenomeno: parti integranti del suo meccanismo semioculturale di registrazione, affermazione e diffusione, nonché partecipi della sua ri-produzione.
Se questi fenomeni possono essere pericolosi per la tenuta democratica di un paese, come nel caso dell’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021, un’investigazione concettuale sulla loro natura può aiutare a capire come affrontarli. Se si considerano le teorie del complotto come un problema legato alle capacità cognitive di determinati attori sociali, potremmo rischiare di patologizzare questi tipi di comportamenti; se invece si tentasse di collegarle in maniera deterministica agli spazi mediali in cui alcuni di essi nascono – come le board di 4chan e 8chan – si rischierebbe di ridurre il problema alla mancanza di regolazione degli spazi online, potenzialmente legittimando così soluzioni di stampo autoritario.
Entrambi questi fattori – i bias cognitivi e la non-regolazione degli spazi informativi – sono dei tratti che appartengono al fenomeno, ma non lo esauriscono: prima di tutto, i bias alla base delle teorie del complotto sono dei meccanismi euristici che ci appartengono in quanto specie; in secondo luogo, la possibilità di spazi di dissenso e critica rispetto alle versioni ufficiali dei fatti sono un baluardo della stessa democrazia, che deve prevedere contraddizioni e dibattiti. Per poter quindi affrontare il problema dei complottismi, bisogna poter definire concettualmente il fenomeno e individuarne tutti i tratti che ne strutturano la complessità.
Complotti o complottismi?
Di che cosa parliamo quando parliamo di complottismi? Donatella Di Cesare, nel suo Il complotto al potere (2022), sottolinea come per quanto complottisti abbia acquisito un posto a pieno titolo nel dizionario, questa operazione definitoria risulti più difficile per “complottismo”, poiché di difficile delimitazione concettuale.
È la stessa idea di “complotto” a non avere dei limiti concettuali specifici, e nell’essere un concetto sfumato, a costituirsi come perfetto per essere adoperato narrativamente. Il complotto, in quanto organizzazione di persone che nell’ombra tramano ai danni di qualcun altro, è un frame narrativo ad altissimo potenziale semiotico.
“Il complottismo non lascia quindi intatto il «complotto»; ne intensifica e ne espande il senso. Lo aggrava di un sovrappiú: il complotto diventa globale e permanente.” (Di Cesare 2022)
Umberto Eco ha più di una volta sottolineato come di complotti sia effettivamente nutrita la storia, ma che a differenza di quelle che lui chiama “sindromi di complotto” o “favoleggiamenti di complotto”, i complotti reali vengono effettivamente scoperti, e non hanno niente di misterioso. Eco cita spesso il fortunato testo di Popper che ha coniato l’espressione inglese conspiracy theory. Popper con “teoria cospirativa della società” intendeva
[la] convinzione che la spiegazione di un fenomeno sociale consista nella scoperta degli uomini o dei gruppi che sono interessati al verificarsi di tale fenomeno (talvolta si tratta di un interesse nascosto che dev’essere prima rivelato) e che hanno progettato e congiurato per promuoverlo. […] Questa concezione dei fini delle scienze sociali deriva, naturalmente, dall’erronea teoria che, qualunque cosa avvenga nella società – specialmente avvenimenti come la guerra, la disoccupazione, la povertà, le carestie, che la gente di solito detesta – è il risultato di diretti interventi di alcuni individui e gruppi potenti. (Popper 1945)
Si tratterebbe quindi di una postura epistemologica, che individua nell’agire sociale di specifici individui la spiegazione a fenomeni sociali complessi e variegati, e di portata maggiore di quella di specifici gruppi. Tra Popper, Eco e Di Cesare – che si pone, come vedremo, in posizione polemica rispetto ai primi due – c’è un comune apprezzamento dei complottismi in quanto meccanismi di spiegazione della complessità del mondo, altrimenti inspiegabile: come d’altronde sosteneva Pasolini quando diceva che il complotto ci libera dal peso di avere a che fare con la verità.
Per Popper però questa “teoria”, in quanto premessa di metodo o ‘impostazione’ teorica di spiegazione dei fenomeni sociali, derivava direttamente dai teismi classici, arrivando a sostituire l’azione delle divinità omeriche con l’azione di questi sinistri gruppi malintenzionati e misteriosi. Popper stava cercando di descrivere un’andatura generale, una tendenza condivisa: ad oggi invece con teorie del complotto si intendono le singole fantasie narrativizzate che costruiscono di volta in volta collegamenti causali tra diversi eventi.
La distinzione tra “complottismo”,“complotto” e “cospirazione”
In apertura del suo pamphlet, Di Cesare tenta infatti l’operazione di distinzione del concetto di “complottismo” da “complotto” e “cospirazione”: quest’ultima, ad esempio, pur essendo illegale non è illegittima tanto quanto il complottismo. La filosofa sottolinea lo slittamento di senso portato dal termine “teoria” all’interno dell’uso comune
Tanto più fuorviante appare la formula «teorie del complotto», ormai invalsa da un paio di decenni, che si è rivelata fonte di numerosissimi malintesi. Si tratta evidentemente della traduzione dell’inglese conspiracy theories, introdotta da Karl Popper nel libro del 1945 La società aperta e i suoi nemici, ma attestata dall’Oxford Dictionary nel 1909 e circolante già addirittura nel 1870. È quasi inutile sottolineare che «teoria», lungi dall’aver il rigore e la serietà del modello scientifico, ha qui un valore spregiativo e designa un’ipotesi fantastica, una mera diceria, una credenza superstiziosa, una pseudo-spiegazione priva di fondamento. (Di Cesare 2022)
Quello che Di Cesare rileva è il fatto che in questo senso la parola teoria si opponga così a realtà, creando un’opposizione dicotomica tra le ‘teorie’ – che appartengono al dominio dell’invenzione – e la realtà dei fatti, che non risponderebbe affatto delle teorie. Questo genererebbe così delle conseguenze etiche e pratiche:
“In tal modo, però, oltre ad assumere un piglio censorio, cedendo a un superficiale e illusorio anticomplottismo, si commette il grave errore strategico di ricondurre le «teorie del complotto» ai criteri del vero e del falso. Cosí, non solo si manca il problema, ma si finisce in un vicolo cieco. La velleità di trovare il criterio oggettivo per discernere e vagliare ha solo effetti deleteri.”(Di Cesare 2022)
Come è stato più volte fatto notare (Lorusso 2018; Quattrociocchi, Vicini 2018) a proposito delle pratiche di debunking, il problema della verità e della falsità non risulta strategicamente vincente nell’affrontare i complottismi, i quali non rispondono sostanzialmente e singolarmente a delle teorie in senso invece scientifico – che seguono coordinate epistemologiche e scientifiche, quindi rispondono di verità e falsità – ma seguono altri criteri, appartenenti al dominio dell’immaginario:
“Il complottismo non può essere misurato, né giudicato – o liquidato. Non si riduce a ipotesi teoriche e perciò sfugge alla dicotomia di verità e falsità. D’altronde l’assenza di prove è considerata a sua volta una prova schiacciante. Quello che per qualcuno è fantasticheria complottistica può essere per qualcun altro l’operato di un complotto più che reale. Sarebbe preferibile parlare semmai di «narrazioni complottistiche», una formula che risponde ad alcuni tratti del complottismo, a metà tra la scrittura della storia e lo sviluppo della fiction.” (Di Cesare 2022)
Uno dei punti fermi del pamphlet di Di Cesare è il suo tentativo quasi pedagogico di illustrare come la posizione di reazione ai complottisti – che la filosofa chiama anticomplottismo – sia piuttosto sbrigativa e pregiudizievole. Nel relegare nell’irrazionalità le posizioni dei complottisti non solo ci si autocompiace, ma si rischia di non inquadrare nella giusta ottica il fenomeno.
Anche Leonardo Bianchi, giornalista di inchiesta e scrittore, sottolinea come questa postura assolva principalmente una funzione espiatoria, che pone l’accusatore dal lato della verità, della razionalità, dell’intelligenza:
“L’idea generale sui complottisti, che chiunque si è fatto consultando i media o la cultura popolare, è piuttosto univoca: si tratta di persone disturbate, ai margini della società, che vanno in giro con cappelli di carta stagnola in testa o pensano di essere inseguiti da elicotteri neri – un po’ come Mel Gibson nel film del 1997 Ipotesi di complotto.” Un assunto del genere conforta la maggior parte delle persone: noi non siamo come loro. Da una parte, come affermava il politologo statunitense Richard Hofstadter nel celebre Lo stile paranoide nella politica americana, c’è una «piccola minoranza» segnata da «accesa esagerazione, sospettosità e fantasia cospiratoria»; dall’altra ci sono individui altamente razionali e istruiti, del tutto immuni da certe derive.” (Bianchi 2022)
Complotti, complottismi e politica
Lo stesso Bianchi però si affretta a sottolineare che la questione sia molto più sfumata di così, e che le credenze attribuibili ai complottisti si distribuiscano in ogni frangia ideologica, sociale e culturale, e non sia circoscrivibile ad alcuna categoria sociale; allo stesso tempo, citando lo psicologo Jan-Willem van Prooijen e il suo The Psychology of Conspiracy Theories, non si può considerare il complottismo come patologia, perché questo significherebbe implicare che la nostra società sia intrinsecamente patologica.
Ciò su cui si concentra Bianchi – e come lui la stessa Di Cesare – è il fatto che complotti e manierismi complottistici abitino il discorso politico, con degli effetti non irrilevanti sulla vita pubblica e sociale: essi sono legittimati e inclusi all’interno dei discorsi politici, ed è la stessa classe politica a sfruttarli per creare consenso e indirizzare lo scontento dell’elettorato. Sono, in altri termini, delle figure discorsive che abitano il discorso politico e lo regolano con degli effetti pragmatici decisamente reali.
Inoltre, utilizzare il criterio dell’ufficialità e della ‘ragione della maggioranza’ per contrapporsi ai complottismi ha dei rischi non indifferenti per la vita democratica stessa: se si prende il succitato caso dei vaccini e delle strampalate fantasie complottistiche che vedono nell’avidità malvagia di BigPharma il nemico da sconfiggere, si potrebbe per “anticomplottismo” dedurre che l’azione delle case farmaceutiche (in maniera sempre vaga) segua forzatamente criteri d’azione virtuosi e orientati al bene pubblico. Così però, ogni forma di critica – che invece appartiene costitutivamente all’attività democratica – anche legittima, viene spazzata via: si prenda ad esempio il dibattito sul rapporto tra mercato e brevetti dei vaccini[3], che ha come obiettivo polemico proprio il capitalismo farmaceutico in quanto ostacolo al bene pubblico.
Forse, dati questi elementi, sarebbe davvero più corretto definire i complottismi delle ipotesi di complotto, più che delle teorie, e andare a ricercare le ragioni di sospetto che si celano dietro a queste ipotesi; allo stesso tempo, si vuole qui raccogliere la proposta di Di Cesare e considerare i complottismi delle vere e proprie narrazioni di complotto, per arrivarne a svelare il carattere di fantasticherie come sosteneva Umberto Eco.
Una teoria semiotica dei complotti
Globalizzazione, moltiplicazione delle reti, possibilità di creare connessioni randomiche: “Il complottismo è la reazione immediata alla complessità. È la scorciatoia, la via più semplice e rapida, per venire a capo di un mondo ormai illeggibile” (Di Cesare 2022). Seguendo questa interpretazione, ci si accinge a fornire delle linee di analisi squisitamente semiotiche per analizzare il fenomeno dei complottismi.
In primo luogo, di fronte alla “critica a Eco” presente all’interno del pamphlet di Di Cesare, è necessario far presente che “I limiti dell’Interpretazione” (Eco 1990), così come il “realismo negativo” (Eco 2011) echiani non si collochino affatto al di qua di una rimozione della contraddizione, bensì all’interno di una tradizione teorica semiotica che proprio della possibilità di ammettere la contraddizione ha fatto principio regolatore dei suoi modelli esplicativi. Se la critica echiana ai complottismi si scaglia contro i nuovi ermetismi delle derive decostruzioniste e postmoderne, facendo leva sulla loro irrazionalità, questo è proprio perché nella sua teoria semiotica interpretativa egli riesce a sviluppare degli strumenti descrittivi che rendano conto della costitutiva contraddittorietà dello spazio semantico. L’anticomplottismo echiano non è “di maniera” (Di Cesare 2022), ma è proprio nel suo ridere dei complottismi che il semiologo dimostra di prenderli assolutamente sul serio.
Il modello enciclopedico
Il modello enciclopedico, presente prima come modello semantico “Q” (Eco 1975) e poi raffinato nel corso del tempo (Eco 1984; Eco 2007) è lo strumento attraverso cui la semiotica ci permette proprio di capire come possano esistere dei fenomeni quali i complottismi. Il modello enciclopedico infatti, lungi da essere un modello normativo, è un modello descrittivo che rende conto del funzionamento intersoggettivo dei processi interpretativi. Semplificando estremamente, l’enciclopedia è il sistema semantico globale, che registra ogni interpretazione, ogni testo. L’interpretazione, come processo sociale, si fonda su rimandi intertestuali e funziona tramite il riferimento a qualsiasi elemento registrato all’intero di questo sistema globale. L’enciclopedia è lo sfondo intersoggettivo di già detti a cui ogni nuova interpretazione non può fare a meno di riferirsi: è l’effetto a priori della semiosi. Questo implica che essa registri anche le interpretazioni aberranti, e comprenda anche possibilità che altri sistemi non comprendono, ovvero quella di violare il principio di non contraddizione: all’interno dell’enciclopedia sono infatti contemporaneamente possibili A e non-A – cosa non ammissibile all’interno di un sistema logico formale. Sono poi le culture, le istituzioni e le norme ad attualizzare i percorsi interpretativi all’interno dell’enciclopedia, a stabilire i gradi di pertinenza e accettabilità delle diverse interpretazioni: la regolarizzazione intersoggettiva di un’interpretazione costituisce, nella direzione indicata da Peirce, gli abiti interpretativi che orienteranno successive interpretazioni.
Il modello enciclopedico, non referenziale e non normativo, non solo permette di descrivere l’errore, ma prevede le interpretazioni aberranti (incoerenti rispetto alle caratteristiche dei testi cui si riferiscono) al pari di quelle felici (che rispettano le condizioni di interpretabilità dei vari testi). Visto che all’interpretazione esistono dei limiti, le diverse interpretazioni non hanno tutte lo stesso peso, ma questo non vuol dire che non siano permesse. Il punto euristico del modello echiano è quello di non imporre una gerarchizzazione aprioristica delle interpretazioni, ma di riconoscerne la loro costitutiva intersoggettività – che ne permette di conseguenza una valutazione comparativa. Questa è l’etica delle interpretazioni che Massimo Leone (2016) indica come derivante dal modello echiano fondato sulla “ragionevolezza”:
Tra un modello ermeneutico che impone l’abito e ostacola qualsiasi semiosi e un modello ermeneutico che impone la semiosi e ostacola qualsiasi abito, la semiotica di Eco promette una terza via: lo sviluppo di un metodo che sia in grado di selezionare le interpretazioni e classificarne le qualità.
Si vuole anche sottolineare che la produzione di Eco comprende anche delle riflessioni dedicate alla costruzione del nemico (ora in Eco 2020) in quanto meccanismo fondamentale della costruzione identitaria: tratto che la stessa Di Cesare individuerebbe come definitorio dei complottismi e che, ai fini del presente articolo, può essere considerato come elemento di natura prettamente semiotica, alla base della loro costruzione discorsiva.
In secondo luogo, ci si vuole ora concentrare su altri strumenti semiotici che possono favorire lo studio dei complottismi. Fondamentale è quello della narratività (Lorusso, Paolucci, Violi 2012): la narratività, in quanto principio regolatore del senso, rende conto dell’organizzazione strutturale di ogni discorso, anche quelli che sembra non abbiano niente di narrativo: sottesa alla manifestazione espressiva dei testi corrisponde una struttura formale di posizioni e ruoli narrativi. In altre parole, per la semiotica il senso si articola sempre all’interno di organizzazioni narrative, che prevedono sul piano formale delle finalità, dei ruoli e soprattutto dei valori.
Attraverso quindi il metodo semioculturale (Lorusso 2010) che permette di costruire corpus analitici per serie di testi, ci si accorgerà che sottesa alla produzione dei testi complottisti rimane un’organizzazione profonda costante, i cui valori – primo tra tutti la Verità, valore profondo di ogni narrazione complottista – rimangono costanti attraverso tutti i loro testi. Di fronte alla complessità – che è complessità interpretativa, cioè moltiplicazione smisurata di interpretazioni, punti di vista e testualizzazioni di esperienza – l’organizzazione narrativa profonda dei testi complottisti rimane invariata.
Di fronte, infatti, a una contro-argomentazione o a una prova che li costringerebbe a rivedere il proprio posizionamento, i discorsi e racconti complottisti riorganizzano i propri elementi testuali per adattarle a strutture narrative immutabili: di Soggetti che lottano contro degli Anti-Soggetti per il raggiungimento della Verità. A tutti i costi, compreso quello della coerenza e della ragionevolezza.
Conclusioni
Resta quindi aperta la questione dell’irrazionalità e del modus indicati da Eco. Se Eco, infatti, riprende l’idea di modus dal razionalismo aristotelico, è anche vero che per lui non è solo limite, ma anche misura: modo di valutazione e comparazione. La lezione echiana sui limiti delle interpretazioni si basa infatti su corrispondenze o coerenze tra strutture testuali e interpretazioni, che non dismettono la possibilità di molteplici interpretazioni ma, proprio prevedendola, si propongono come modo per non tradire l’intenzione testuale.
Così facendo, è lo stesso Eco a ridare dignità a Derrida contro il derridismo, dove il primo mette in atto un “gioco filosofico (la cui posta non è un testo singolo, ma l’orizzonte speculativo che esso rivela o tradisce)” e il secondo è un “uso spregiudicato” che, nei suoi principi, legittima una deriva (Eco 1990).
Se quindi non possiamo relegare i complottismi nell’area dell’irrazionalità pura per legittimare la nostra razionalità, dobbiamo sforzarci di mantenere le nostre riflessioni all’interno dei limiti della coerenza che i testi ci pongono, e dobbiamo prendere sul serio e dare legittimità al sospetto che muove e sottende la produzione testuale complottista. E se è vero che “ci siano crisi provocate proprio da quella razionalità che ha reso il mondo illeggibile” (Di Cesare 2022), è proprio nella strada tesa dalla semiotica come “terza via” (Leone op. cit.) che si può trovare il modo per ridare legittimità alla critica, spiegare i complottismi, ricollocare il lavoro dell’immaginario e della razionalità e ricominciare a ricostruire quella comunità interpretativa disgregata.
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