Per dire a che punto siamo, dal mio punto di vista, nel percorso verso la cittadinanza digitale la prendo alla lontana. Era il 2002, quindici anni fa, e l’allora Ministro per l’Innovazione Lucio Stanca annunciava che il piano di e-government avrebbe permesso ai cittadini di avere i certificati direttamente online “facendosi la barba la mattina”. Come leggiamo dall’ultima ricerca dell’Osservatorio di e-gov del Politecnico di Milano, diretto da Giuliano Noci e Michele Benedetti, siamo ancora molto lontani dall’obiettivo e solo per pochi servizi esiste una vera possibilità di concludere online l’iter. Ma la domanda è se è questo quello che ci serve. Davvero ci serve poter avere un certificato online da presentare (magari con posta certificata) per iscrivere nostro figlio a scuola?
A questo pensavo nell’aprire qualche giorno fa il secondo incontro del nostro Cantiere della Cittadinanza Digitale. La risposta è evidente: dalla platea si leva un grido “lasciateci in pace!”
I cittadini non hanno nessun bisogno di essere cittadini digitali se questo vuol dire mantenere la pessima abitudine di fornire loro stessi alla PA, vista nel suo complesso, dati che essa ha già. Neanche se dovessimo fornirglieli con un click “facendoci la barba”! E’ ora di dircelo chiaro: la maggior parte dei servizi digitali rischia di essere la digitalizzazione dell’inutile e la certificazione della incapacità delle banche dati pubbliche di parlarsi e collaborare.
Cosa serve allora per godere di diritti di cittadinanza in un mondo che è sempre più interconnesso e digitale? Semplice: che tutte le amministrazioni si mettano intorno al cittadino e creino, tutte insieme, quel fascicolo unico di dati che permetta non solo agli enti di scambiarsi le informazioni, ma anche a ciascuno di noi di avere piena cognizione dei nostri dati, da chi e come sono usati, di quali sono i rapporti in essere, le pendenze, le scadenze verso tutte le amministrazioni siano esse centrali, regionali o locali. Qualche esperienza c’è (vedi la presentazione del Comune di Milano), ma ancora limitata ai vari uffici dello stesso comune (e non è stato facile neanche questo), ma siamo ancora lontani dall’obiettivo.
Con questa premessa chiediamoci a che punto siamo e cosa ci manca in questo percorso di liberazione del cittadino (digitale) dall’inutile, che resta inutile anche se digitale. Mi aiuta anche qui il lavoro fatto nel Cantiere assieme a una ventina tra regioni e comuni e provo a stilare un breve elenco dei punti a mio parere più importanti:
- Il primo prerequisito è una reale “interoperabilità” (parola consumata e incomprensibile che sostituirei con la meno tecnologica, ma più chiara “collaborazione”). Il piano triennale la definisce come “la collaborazione tra Pubbliche amministrazioni e tra queste e soggetti terzi, per mezzo di soluzioni tecnologiche che assicurano l’interazione e lo scambio di informazioni senza vincoli sulle implementazioni, evitando integrazioni ad hoc.”
- Abbiamo poi bisogno di un nuovo modello che promuova -cito ancora il piano triennale- “l’approccio API first al fine di favorire la separazione dei livelli di back end e front end, con logiche aperte e standard pubblici che garantiscano ad altri attori, pubblici e privati, accessibilità e massima interoperabilità di dati e servizi”.
- Tutto questo è impossibile senza un paziente lavoro di definizione di ontologie. Dice sempre il Piano Triennale che: “al fine di favorire il processo di scambio dati tra Pubbliche amministrazioni è necessario:
- armonizzare e standardizzare codici e nomenclature ricorrenti in vocabolari controllati, da utilizzarsi nell’implementazione delle basi di dati pubbliche. I vocabolari controllati sono pertanto risorse utili sia ad avviare il processo di normalizzazione dei dati in possesso della PA sia a offrire alle imprese e ai privati punti di riferimento ufficiali per il popolamento delle loro basi di dati;
- identificare e definire modelli di dati (ontologie) condivisi in particolare per dati trasversali ai diversi domini applicativi (ad es. persone, organizzazioni, servizi, luoghi).
Non è un lavoro semplice né veloce, ma assolutamente necessario che richiede per gli enti di semplificare con rigore tutto il semplificabile; di trovare linguaggi comuni (va sottolineato qui il paziente e tenace lavoro svolto dall’Ufficio Semplificazione di Funzione Pubblica per la creazione di moduli unificati); di dividersi il lavoro e condividere i successi scambiandosi le esperienze.
- E’ poi necessario ricordarci che sono cittadini anche quelli che abitano in comuni piccoli (i residenti in centri di meno di 10.000 abitanti sono oltre 18 milioni!). Dobbiamo quindi prevedere, usando intelligentemente i centri aggregatori e le società tecnologiche in house delle regioni, centri si servizio territoriali che rendano possibile la collaborazione tra le basi di dati anche per questi centri minori che sono la ricchezza del Paese.
- Infine è necessaria tanta ma proprio tanta competenza nella PA. Competenza digitale che ora assolutamente non c’è e che possiamo garantire solo agendo contemporaneamente su due leve: lo sblocco del turnover per le professionalità del digitale e quindi l’introduzione di qualche migliaio di giovani e agguerriti informatici, matematici, ingegneri e project manager; una massiccia azione di formazione e di empowerment dell’amministrazione che promuova la crescita delle competenze digitali dei dipendenti pubblici, nell’ambito di un’azione complessiva e innovativa della funzione HR tesa a restituire dignità al lavoro pubblico. La digital transformation non è più infatti soltanto una questione tecnologica, ma una sfida che coinvolge tutto il capitale umano e impone di sviluppare in ogni area dell’amministrazione nuove competenze e professionalità che siano in grado di interpretare al meglio le nuove opportunità̀ e condurre il cambiamento.