il commento

Mochi: “La politica del digitale sia al servizio di una società migliore”

Non esiste uno sviluppo digitale che non sia legato ad un’idea di sviluppo del Paese e che quindi, in un qualche modo, sia servente ad una visione della società dei prossimi dieci anni. E abbiamo bisogno di una visione che si occupi di cambiamenti climatici, diseguaglianze. Ecco i punti chiave

Pubblicato il 15 Set 2022

interiorità realtà virtuale mito digital humanities

Come abbiamo più volte sottolineato, il digitale non è solo uno dei settori industriali da promuovere né è esclusivamente uno degli strumenti per lo sviluppo economico e sociale del Paese.

Il digitale è, insieme, l’ecosistema in cui tutti noi ci muoviamo e lavoriamo, ma anche la piattaforma che rende possibile ogni riforma e ogni politica. Dall’industria all’energia, dalla scuola alla sanità, dal lavoro al welfare, dalla lotta al cambiamento climatico alla mobilità non c’è politica che non si basi sulla trasformazione digitale, che non ne è solo un presupposto tecnico, ma dà forma agli interventi e ai processi e ne condiziona lo svolgimento.

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Una politica per il digitale al servizio di una visione Paese

Se così è, ne consegue che la politica per il digitale non può che essere a servizio della visione di Paese che abbiamo. Questo assioma è particolarmente utile oggi, alla vigilia di una tornata elettorale di grande importanza. Non sarà la stessa trasformazione digitale quella proposta da chi vuole un Paese più inclusivo che riduca drasticamente le disuguaglianze e quella di chi invece, credendo nel teorema del “trickle-down”, promuove misure di stampo (neo)liberale.

Non sarà la stessa politica per il digitale quella di chi considera estremamente urgente ridurre l’impatto ambientale dell’ICT, attraverso misure forti e mirate, e di chi invece pensa che queste misure potrebbero ritardare lo sviluppo e che comunque non ce le possiamo permettere. Non sarà la stessa azione per la famosa PA digitale quella di chi pensa che ci voglia “meno Stato” e di chi invece pensa che l’amministrazione debba essere dimensionata sulla garanzia dei diritti di tutti, a cominciare dai più deboli, e che la sua efficienza non si possa misurare che con questo parametro.

Da questo punto di vista mi sembra che prima di farci sognare, con più o meno enfasi, un’Italia digitale, sarebbe bene che i partiti, al di là degli slogan di breve periodo e dell’enfasi sulle pur reali difficoltà del “fine mese”, ci facessero capire che Italia vogliono tra dieci/vent’anni.
E’ partendo da questi presupposti che personalmente difendo fortemente la necessità di non dimenticare, nella tempestosa contingenza pre-elettorale, le basi del documento “Italia Domani” con cui il Governo ha chiarito come utilizzerà le risorse del PNRR e si è impegnato di fronte alle istituzioni europee, ma soprattutto di fronte ai cittadini. Ricordiamoli insieme.

Transizione ecologica

Dice il documento nelle sue pagine iniziali, dopo aver promosso la digitalizzazione come uno degli assi portanti, che:

La transizione ecologica, come indicato dall’Agenda 2030 dell’ONU e dai nuovi obiettivi europei per il 2030, è alla base del nuovo modello di sviluppo italiano ed europeo.

E ancora che:

  • Garantire una piena inclusione sociale è fondamentale per migliorare la coesione territoriale, aiutare la crescita dell’economia e superare diseguaglianze profonde spesso accentuate dalla pandemia. Le tre priorità principali sono la parità di genere, la protezione e la valorizzazione dei giovani e il superamento dei divari territoriali.
  • Se non vogliamo quindi innamorarci delle parole e promuovere una trasformazione digitale neutrale, ben sapendo che questa neutralità sarebbe solo di facciata e coprirebbe interessi non democraticamente definiti, sarà necessario tenere a mente che questa deve essere al servizio di una maggiore giustizia ambientale e sociale.
  • Per passare dalle parole alle azioni concrete sarà quindi necessario promuovere una digitalizzazione sostenibile sia dal punto di vista sociale sia da quello ambientale. Una digitalizzazione che sia al servizio di quella Agenda 2030 e dei suoi 17 obiettivi di sviluppo sostenibili, i famosi SDG’s che prima la pandemia e poi l’emergenza bellica rischiano di relegare alle buone intenzioni da tenere in un cassetto, perché non adatte al presente, senza capire che sono proprio i momenti di crisi quelli in cui è necessario vedere chiaramente i bivi e decidere la direzione da dare allo sviluppo.

Già in un mio articolo di un paio di anni fa, uscito su questa testata e a cui vi rimando, mettevo in luce che non è affatto detto che una transizione digitale non orientata aiuti automaticamente la sostenibilità dello sviluppo. Ci sono ovviamente i problemi che derivano dal fatto che le ICT non sono innocenti nel progressivo peggioramento dello stato del nostro pianeta e nella crescita delle emissioni di gas serra. Anzi contribuiscono in modo significativo.

Problema diseguaglianze

Ma poi ci sono i pericoli che già gli ultimi rapporti dell’International Institut for Applied Systems Analysis (IIASA) mettono in evidenza:

  • le disuguaglianze (ad esempio, nel mercato del lavoro, nei sistemi educativi e nella divisione del lavoro a livello internazionale) all’interno della società potrebbero aumentare ulteriormente e ridursi le spinte alla coesione;
  • il potere economico delle grandi imprese ICT potrebbe divenire per estensione (più) politico;
  • la sovranità dei dati e i diritti civici potrebbero essere ulteriormente limitati e il monitoraggio dei cittadini e dei consumatori potrebbe essere rafforzato, soprattutto nelle società autoritarie e nelle società che non favoriscono la responsabilità dei cittadini
  • le capacità di governance delle organizzazioni pubbliche potrebbero erodersi ulteriormente, poiché, ad esempio, è già molto difficile regolamentare le grandi imprese digitali ed essenzialmente impossibile negli ambienti virtuali, in particolare perché la conoscenza digitale è ancora molto limitata nella maggior parte dei governi e delle istituzioni pubbliche.

Serve una politica e governance connesse

Come è immediatamente evidente non sono pericoli che uno Stato possa evitare se non con una politica e una governance connessa, in cui diventi più forte la cooperazione e la regolamentazione comune a livello sovranazionale. Anche in questo caso diversa sarà la capacità di risposta, e quindi l’orientamento dello sviluppo digitale, tra chi crede alla necessità di un’Europa sempre più coesa in grado di condividere regole e principi e chi invece pensa a una federazione di Stati autonomi in cui le regole nazionali prevalgano sempre su quelle comunitarie.

Altrettanto politicamente orientate, dove per politicamente intendiamo appunto l’uso della coerenza rispetto una visione lungimirante di Paese, saranno le azioni perché la digitalizzazione sia sostenibile dal punto di vista sociale ed ambientale.

Open government

Dal mio punto di vista possiamo trarre un’ispirazione orientativa partendo dai tre famosi principi dell’open government: trasparenza, partecipazione, collaborazione. Questi principi, che vedono in primo piano uno spostamento di potere dalle grandi imprese tecnologiche ai cittadini, presuppongono alcune azioni anch’esse politicamente orientate, tra cui:

  • l’educazione e l’istruzione che possa mettere in grado le persone di comprendere e dare senso e forma ai cambiamenti che la trasformazione digitale comporta; non si tratta (solo) di insegnare informatica, ma di creare consapevolezza critica; in questo senso, come le classifiche europee segnalano, siamo ancora fortemente in ritardo;
  • la ricerca e le reti di conoscenza che devono creare quella che il rapporto IIASA chiama “conoscenza trasformativa per integrare trasformazioni digitali e orientate alla sostenibilità, evitare i punti critici digitali e costruire quadri normativi per l’epoca della convergenza tra intelligenza umana e intelligenza artificiale;
  • una data governance in grado di ridurre l’asimmetria informativa e possa rendere possibile il co-design dei servizi.

In conclusione

Questo orientamento dello sviluppo digitale, centrato sulle persone e sulla partecipazione, è ancor più importante ora che le tecnologie legate all’Intelligenza Artificiale, nelle loro varie forme, cominciano a entrare nella vita sociale e a essere massicciamente usate, più o meno consapevolmente, dalle amministrazioni. Affidarsi agli algoritmi, per semplificare molto, o viceversa demonizzarli non può essere la strada, dobbiamo invece anche qui tener fermi quei principi democratici che derivano dalla nostra storia e dalla nostra Costituzione e rendere questi strumenti il più possibile “conviviali”, nel senso che Ivan Illich ha dato a questa parola, ossia in grado di essere orientati dalle persone, che non ne possono essere oggetti passivi e spesso del tutto disinformati.

In conclusione, torno sulla convinzione che non esiste uno sviluppo digitale che non sia legato ad un’idea di sviluppo del Paese e che quindi, in un qualche modo, sia servente ad una visione della società dei prossimi dieci anni. Non ricordarcelo e pensare che lo strumento possa evolvere indipendentemente dal fine per cui sarà usato o è ingenuo o è colpevolmente fuorviante.

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