Devo confessare di provare una certa frustrazione nel dare conto del dibattito in corso negli USA sul monopolio digitale. La ragione è che il lettore si trova di fronte a due parallele che non sembrano incontrarsi mai (tranne che per qualche rara eccezione: vedi The Antitrust Paradox recensito su queste colonne).
- La prima è quella dei tecnici americani dell’antitrust per i quali la risposta al disagio di fronte allo strapotere delle piattaforme è semplice: niente!
- Dall’altra la variegata platea di pubblicisti, economisti in testa, che invece reiterano una chiamata alle armi rimasta fino ad oggi inascoltata. E che tale è destinata a restare, almeno al di là dell’Atlantico, se come tutto lascia presagire Trump verrà confermato per un altro mandato.
È vero certo che di tanto in tanto l’amministrazione USA sembra dare qualche segno di resipiscenza. Ma sono i fatti alla fine che contano e, per citarne uno, non lascia sperare nulla di buono la circostanza che il capo dell’antitrust USA Mark Delrhaim sia stato costretto solo ora ad astenersi per presunto conflitto di interessi dall’indagine su Google che si trascina stancamente da parecchi mesi sotto la sua guida.
Ciò detto, le ricadute di un confronto americano, tanto più se così vivace, non sono mai sterili anche da questa parte dell’Atlantico dove, vivaddio, ben altra è la consapevolezza e il dinamismo delle istituzioni comunitarie e nazionali (alcune almeno…) preposte al mercato. Ecco perché questa recensione darà conto di entrambe le campane, lasciando al lettore la scelta del suono che lo convince di più.
No antitrust: gli argomenti forti
Nel Cambridge Handbook of Antitrust, Intellectual Property, and High Tech a cura di Roger D. Blair e D. Daniel Sokol, due distinti professori di diritto della concorrenza dell’Università della Florida (Cambridge University Press, 2017, ma or ora ristampato nel 2019) un capitolo è dedicato ai Big Data: Does Antitrust Have a Role to Play in Regulating Big Data?, di D. Daniel Sokol e Roisin Comerford. Bella e complessa domanda, direte, e chissà come è ardua la risposta. E invece no: replica secca; quale ruolo? Nessuno!
L’argomentazione degli autori è serrata e si può riassumere pressappoco così: (a) il ciclo di retroazione dei dati sul potere di mercato è indimostrato, poiché gli effetti rete di per sé non garantiscono nessuna stabilità nel tempo della dominanza, se sfidata da prodotti nuovi e appetibili, poiché è la qualità non la quantità ad essere premiata dal consumatore; (b) i dati permettono di offrire servizi ai consumatori gratis, il che è schiettamente procompetitivo; (c) il possesso dei dati non costituisce una barriera all’entrata nel mercato perché i concorrenti possono agevolmente procurarseli. Essi sono infatti ubiqui, non costosi e facili da raccogliere. I dati non hanno un valore in sé ma è l’algoritmo che glielo conferisce; gli utenti possono passare da una piattaforma all’altra e pertanto disseminare l’ecosistema di dati che tutti possono raccogliere; inoltre il rilievo del dato ha una vita molto breve. In sintesi è il talento imprenditoriale, la capacità di inventare servizi nuovi, che crea valore non la quantità di dati in sé.
Big tech e antitrust, la pacchia è finita: perché siamo alla svolta
Le obiezioni alla gestione dei dati
Ma ancora: (d) è indimostrato l’argomento di Ezrachi e Stucke secondo il quale l’ineguale possesso dei dati comporta un degrado della qualità dei motori di ricerca sfavoriti e tantomeno è fondata la tesi ulteriore secondo la quale il danno recato alla privacy avrebbe ripercussioni sulla concorrenza; (e) non esiste un mercato rilevante dei dati perché, salvo casi circoscritti, non sono acquistati e venduti, ma sono solo un input interno; (f) la legislazione sulla protezione dei consumatori e quella sulla privacy sono più che adeguate ad affrontare eventuali distorsioni, laddove l’antitrust non ha diritto di cittadinanza, difettando prima di ogni altra considerazione il requisito del danno alla concorrenza. Nessun approccio “paternalistico” allora, concludono gli autori, a questo tema, che suggeriscono essere più ideologico (leggi: demagogico) che giuridico.
Sì antitrust: i “capi d’accusa”
Tutt’altra la musica che ritroviamo in Jonathan Tepper, con Denise Hearn, in The Myth of Capitalism. Monopolies and the Death of Competition, Wiley, 2019. L’autore, economista e finanziere, ha scelto un titolo per il libro che non lascia adito a dubbi, rispecchiandone bene il contenuto. La sua è una requisitoria in piena regola contro la dilatazione del monopolio in tutta l’economia americana e, ovviamente, nel settore delle grandi piattaforme tecnologiche.
Il responsabile? L’antitrust… che non c’è! Cominciamo con la sbornia di concentrazioni che ha travolto l’industria americana. Ebbene non vi è la prova che esse comportino maggiore efficienza. Anzi, laddove vi sono prezzi da misurare, studi empirici sembrano attestare proprio il contrario: i prezzi aumentano, in media, del 4.3%. Nel settore high tech poi l’acquisto da parte dei GAFA di ben 436 imprese la dice lunga sull’ossigeno di cui dispongano i nuovi entranti per giocare a interpretare i maverick che sfidano gli incumbents. “I giganti tecnologici amano le startups, ma nello stesso modo in cui i leoni amano banchettare sulle carcasse senza vita delle gazzelle”.
Passiamo oltre: pratiche discriminatorie. Qui l’esempio preso è quello di Google che fa apparire o sparire i siti a suo piacimento. Google usa la sua dominanza in un prodotto – la ricerca universale – per muovere in altri mercati realizzando un bundling. Amazon, dalla sua, ha approfittato della dominanza sulla piattaforma per diventare la padrona del campo nel settore dei libri elettronici. Eppure, vi è un’ironia in tutto questo. Non è stato forse il caso antitrust su Microsoft a rendere possibile, almeno in parte, la nascita di questi giganti oggi così insofferenti delle regole?
La porta girevole tra politica e industria, celebrata alla grande sotto l’amministrazione Obama, fornisce una persuasiva chiave di lettura di tanta inerzia dai lontani anni Novanta. Sì amministrazione Obama perché in termini di regolazione del mercato, essa in nulla ha differito da quella Bush, con buona pace per l’estetica e gli ammiccamenti della diversa retorica. Questo spiega tra l’altro anche la tolleranza verso l’ambiguità identitaria di una piattaforma come Facebook: a tutti gli effetti un editore e una media company senza averne alcun corrispondente obbligo (negli USA, va detto). La quale è divenuta altresì padrona di un mercato pubblicitario nel quale non sono più gli inserzionisti ad avere leva ma lei stessa che custodisce gelosamente i segreti della metrica del tempo speso dagli utenti nel visionare gli annunci.
Le condizioni dei lavoratori
Da ultimo una parola è riservata alla condizione dei lavoratori. Pare che nella Silicon Valley abbia imperversato la pratica di incatenare i dipendenti con patti di non concorrenza, per cui la mobilità dei lavoratori tra le imprese è stata piuttosto bassa, fino a quando non è intervenuta una multa assai salata per disciplinare questa forma di servaggio postmoderno.
Clausole giuridiche o meno, lo stato di fatto è quello di un monopsonio delle principali aziende tech dominanti rispetto al quale l’alternativa dell’aspirante lavoratore è solo quella tra bere o affogare. E non solo: il rapporto tra dipendenti a tempo indeterminato e contrattualizzati, quindi precari, è enormemente sbilanciato sui secondi, persino quando si evoca il nome di Apple.
Ecco quindi il verdetto finale: “il potere delle piattaforme le rende una diversa categoria di imprese. Esse stabiliscono le regole che governano il loro mondo. Noi semplicemente ci viviamo dentro”. La sanzione? Più antitrust! Viste le premesse, verrebbe da chiosare: buona fortuna agli americani!