L’integrazione di nuove tecnologie e spazi espositivi rappresenta un trend consolidato nel panorama del consumo di arte. L’utilizzo di bacheche smart, superfici touch, videomapping possono concorrere a rispondere alle nuove esigenze di un pubblico che chiede più partecipazione e un coinvolgimento esperienziale. Ma l’effetto collaterale negativo può risiedere in una giostra tecnologica al servizio di interpretazioni che sovrastano l’esperienza stessa. Ecco il quadro della situazione e un percorso fra alcuni “casi” italiani.
Perché i musei devono cambiare ruolo
Il profondo cambiamento di ruolo richiesto a molti musei e beni culturali risponde assieme:
- alla loro crescente necessità di appropriarsi di un senso, in linea con le aspettative del tempo;
- alla domanda di esperienze posta dai visitatori;
- al dover rendicontare la propria esistenza attraverso elementi oggettivi che, in prima istanza, diventano numeri di biglietti venduti, sponsor attratti, merchandising.
Il compito non è facile. Gran parte dei musei ricalcano le logiche e le ragioni di chi li ha immaginati, quasi sempre maschi, bianchi, cattolici, nel secolo scorso, protagonisti di un mondo che non è più.
Fino a trent’anni fa edifici e collezioni erano pensati come templi del sapere, simboli di potere, luoghi dove istituzionalizzare la propensione al collezionismo e alla bellezza. Oggi hanno difficoltà nel rispondere a domande elementari come “A cosa servono?” “Perché poi averne così tanti?” “Qual è il loro rapporto costi/benefici?”
Il rapporto Federculture 2018 mette in evidenza come almeno il 70% degli italiani non vada mai in un museo, in un sito archeologico o visiti un monumento. Non sono motivo di interesse. Vengono percepiti come lontani, inadatti, inutili. Al massimo narratori muti di un tempo che non è più, e che interessa a pochi. Come già per le chiese, questo disinteresse ha desacralizzato il luogo. Le prime richieste di un visitatore riguardano la presenza del wi-fi, di divani dove riposare, di qualcosa da mangiare e di bagni puliti.
La domanda più forte però è “Nel museo c’è qualcosa da fare?” Il “Fare” soverchia l’attrattività del vedere, del contemplare, dell’ammirare. Il “Fare” è ciò che genera narrazione, condivisione, azione, giustifica il biglietto e la visita.
È in questo cambio di paradigma che le applicazioni del digitale si prestano alla costruzione di legami tra luoghi, collezioni e visitatori.
Le applicazioni digitali per musei e beni culturali
Il digitale consente applicazioni che coinvolgono, informano, divertono, aggiungono ragioni alla visita, incoraggiano i pigri, smontano il senso di inadeguatezza di molti al confronto con le opere e l’inadeguatezza delle opere rispetto alle aspettative di molti.
Abbiamo così strumenti utili a:
- Personalizzare i contenuti con messaggi e proposte diverse per lingua, età, cultura di provenienza del visitatore;
- Aggiungere informazioni a quanto esposto, informazioni storiche, luogo e storia del ritrovamento, archeologi protagonisti, passaggi di mano tra collezionisti, riferimenti in film, ecc.;
- Monitorare i comportamenti dei visitatori; vale a dire quello che fanno, ciò che evitano, i tempi di permanenza davanti alle opere, i percorsi preferiti, ecc.;
- Arricchire l’esibizione di opere e riferimenti artistici non altrimenti disponibili perché in prestito, in altri musei, negli archivi e magazzini, visibili solo a certe condizioni, ecc.
Estremizzare tali potenzialità crea però scompensi nella relazione tra le opere e le loro appendici virtuali. Così come nelle relazioni tra persone si è tranquillizzati dal contatto virtuale, anche con le opere accade lo stesso.
È evidente quando l’allestimento digitale di mostre d’arte del passato dematerializza l’esposizione trasformandola in una girandola di proiezioni. Ciò genera anche la sostituzione del Museo con un palazzone qualsiasi con tante superfici bianche.
Proiettando sulle pareti i corvi di Van Gogh mentre prendono il volo, gli oceani di Turner che si agitano, i chiaroscuri di Caravaggio in un turbinio di musiche d’atmosfera, i misteri di uno sguardo fiammingo sgranati in megapixel, si elude l’imbarazzante materialità di un quadro percepito troppo piccolo, antico, sgretolato o difficile da capire. Così nello spettatore prigioniero di un’esile trama da fumetto si fa strada l’idea che tutto ciò abbia per forza relazioni col bello, con l’arte, e più che con la sindrome di Stendhal si trova vittima della sindrome di Stoccolma.
Gli esempi di musei digitali
Un recente ed efficace esempio di mostra con un positivo ricorso al digitale è stata ‘Testimoni dei Testimoni – Ricordare e raccontare Auschwitz’ al Palazzo delle Esposizioni di Roma. Lì i ragazzi delle scuole superiori, dopo la visita al campo di sterminio accompagnati dai sopravvissuti, hanno riportato con passione quale sia oggi il senso Olocausto. Consapevoli che i testimoni diretti dei fatti siano ormai pochissimi, i ragazzi hanno preso l’impegno di diventare testimoni loro stessi.
Hanno pensato la mostra col supporto artistico e progettuale di Studio Azzurro, decidendo di introdurre gli spettatori alla mostra con cinque minuti nel buio in un vero vagone di legno, assillati dalle voci di Mussolini e Hitler a tutto volume.
Poi l’esposizione si apriva con schermi trasparenti con video dove i ragazzi testimoniavano; tutto attorno muri scuri e compatti vibravano delle vere voci dei sopravvissuti udibili solo schiacciando il proprio orecchio sulla ruvida materia. In un’altra stanza, come lapidi, schermi ad alta risoluzione presentavano le foto d’archivio che la contabilità nazista teneva dei deportati mentre svanivano in una perdita di identità fisica e metaforica; in una sala attigua, col bianco e nero di un rassicurante cinema parrocchiale degli anni ’50 era proiettata l’atroce documentazione degli esperimenti medici sui detenuti. Il digitale era ovunque, al servizio dello scopo di scolpire ragioni. I nativi digitali, prendendo a schiaffi il visitatore, hanno sfidato la banalità del male con lo sguardo di chi a 16 anni non vuole esserne soggiogato.
Un altro luogo di estremo interesse, vera pietra miliare, è il M9 – Museo del Novecento, aperto da pochi mesi a Mestre nell’ambito di un vasto progetto di riqualificazione della città.
L’esposizione riguarda l’Italia, i nostri cambiamenti negli ultimi 100 anni. Si raccontano il design e la musica del secolo, la politica, la tecnologia, il terrorismo, l’industria, l’alimentazione, la cultura. Un lungo percorso pone la multimedialità e l’interattività al servizio della narrazione. Il visitatore è partecipe – talvolta attore – dei cambiamenti della cultura, degli stili di vita, dei paesaggi naturali e urbani, della scienza e del lavoro che hanno caratterizzato il ventesimo secolo.
Il colossale allestimento utilizza il meglio della tecnologia disponibile. In un grande spazio su due piani, i percorsi fisici e di senso sono disegnati da enormi schermi curvi, pareti serigrafate, bacheche intelligenti, tavoloni touch, videomapping strabilianti, visori di realtà virtuale per viaggiare nel tempo e nello spazio, box in cui diventare il protagonista dei diversi contesti storici e economici, ologrammi, mega wall di schermi, gamification di processi di produzione o scoperta.
C’è di tutto. È difficile capire a chi è rivolto e si intravede già il rischio di una rapida obsolescenza degli strumenti. Il Museo M9 richiede al visitatore molto tempo e un grosso sforzo di orientamento in un palinsesto che tutto spiega secondo le scelte del curatore. Lì le interpretazioni sono univoche, le domande assenti: ogni senso ha la sua razione di stimoli e non è richiesta la formazione di opinione ma solo d’emozione ed empatia. Lascia con una certa sospensione di giudizio.
Di certo stiamo assistendo a una definizione – talvolta coraggiosa – di nuovi codici di comportamento e fruizione. Per anni l’innovazione è stata piazzare qualche schermo touch che sostituisse l’elemento umano, oggi l’utente vorrebbe al minimo l’interazione vocale con i personaggi di un quadro, proprio come fa con gli speaker di Alexa nella sua cucina. Diventa così evidente come inseguire la tecnologia sia un percorso perdente e costoso.
È di certo arrivato il momento di accostare più spesso alla concezione di mostre e musei ad alta componente digitale artisti che usino il digitale nella loro esplorazione dello spazio interiore ed esteriore. Argineremo così la lettura didascalica e tranquillizzante dei direttori artistici che troppo spesso soverchiano la provocazione dell’artista, la sfida del curatore, l’approfondimento dell’archeologo, relegando lo storico dell’arte ad un mero copywriter.